Scheda film
Regia: Sean Darkin
Soggetto: Sean Darkin
Sceneggiatura: Sean Darkin
Fotografia: Jody Lee Lipes
Montaggio: Zachary Stuart-Pontier
Scenografie: Chad Keith
Costumi: Anne Dunsford
Musiche: Daniel Bensi, Saunder Jurriaans
USA, 2011 – Genere: Drammatico, thriller – Durata: 102 minuti
Cast: Elizabeth Olsen, John Hawkes, Sarah Paulson, Hugh Dancy
Uscita: 25 maggio 2012
Distribuzione: 20th Century Fox
Sale: 11
Nemmeno l’amore di una sorella
A circa tre ore dal Connecticut, attraverso i boschi e l’umidità delle montagne di Catskill, una ragazza con un taglio all’orecchio e le ginocchia livide corre per mettersi in salvo dalla stessa famiglia che, almeno all’inizio e con apparente tenerezza, l’ha accolta nel momento in cui credeva di non avere proprio nessuno che potesse farlo. Corre e riesce così a raggiungere la cabina telefonica dalla quale chiamerà sua sorella, per tornare da quell’unica persona che le è rimasta e provare una volta ancora a ricominciare da capo. Solamente i piccoli gesti del quotidiano, la felicità che lega sua sorella all’uomo che quest’ultima ha sposato nel corso degli anni in cui non hanno avuto modo di tenersi in contatto, le dimostreranno che ogni singola sensazione può portare a un déjà-vu, e che ciascun déjà-vu può innescare un’alienazione mentale senza possibilità di scampo.
La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene) è un film che abbiamo già visto tante volte. Potrebbe collocarsi a metà tra l’An American Crime di Tommy O’Haver, per le tematiche dure e al contempo sottilmente tratteggiate, e il Winter’s Bone di Debra Granik, per l’atmosfera di fredda mistura emotiva che oscilla dalla fragilità delle ragazze appartenenti alla comunità di Catskill all’ingannevole comportamento distaccato del capobranco Patrick, non a caso interpretato dal John Hawkes di Un gelido inverno. Ciononostante, a rendere l’esordio indipendente del regista Sean Darkin uno dei lungometraggi più attesi di maggio è forse quell’unica componente che riesce a caratterizzarlo per ciò che è davvero: la sua analisi attenta e mai gonfiata di come una fuga del corpo possa nella realtà condurre soltanto all’ennesima prigionia della mente.
Questo perché La fuga di Martha è un film che inizia dalla libertà e non ha quindi il dovere morale di terminare con essa, ma anzi quello di raccontare come proseguono le cose dopo l’eterno happy ending dei thriller psicologici, affrontando con taglio registico appropriatamente intimista ciò che accade nella testa di una persona quando viene catapultata nella realtà dopo aver vissuto per tanto tempo nel disordine psicopatologico – e regalandoci, contemporaneamente, un finale alternativo all’inquietante fiaba firmata dal più modesto M. Night Shyamalan, The Village.
Elizabeth Olsen, la giovane Martha “Marcy May” Marlene in fuga, è una figura aguzza e caparbia in grado di dosare sapientemente la propria bellezza dallo sguardo irriverente, alla medesima maniera di una Maggie Gyllenhaal alle prime armi e tuttavia destinata a migliorare la propria, innata propensione per il genere drammatico. Dall’altra parte, Sarah Paulson, Hugh Dancy e John Hawkes diventano caratteristi e impersonano se stessi per lasciare tutto lo spazio d’espressione necessario affinché attrice e regista possano ottemperare al difficile compito di non annoiare né arrestare mai la tensione sottostante. Un compito decisamente ben ripagato.
Voto: * * *½
Eva Barros Campelli
#IMG#In fuga da chi?
Martha (Elizabeth Olsen) fugge dalla setta di cui ha fatto parte per lungo tempo in un mattino come tanti altri e la sua fuga fa pensare subito a quella vera e non diversissima, dopo otto anni di segregazione coatta, di Natascha Kampusch, almeno come mostrato nel film francese À moi seule di Frédéric Videau, inedito da noi, che alla sua vicenda si ispira. Come diceva Michel de Montaigne, la giovane Martha, sa da che cosa fugge, ma non sa che cosa cerca e, rifugiatasi a casa della sorella, vivrà i suoi giorni in preda a paranoie e sensi di colpa. E se Patrick (John Hawkes), il carismatico capo della comunità cui apparteneva, era una fonte di incubi, anche il nuovo ambiente in cui si ritrova, una lussuosa casa estiva in riva al lago nel Connecticut, non le darà ugualmente tranquillità, illudendola inizialmente così come quell’ambiente rurale ed apparentemente sereno l’aveva fatta ben sperare. Senza contare che nel frattempo i suoi compagni la stanno cercando, per niente rassegnati a fare a meno di lei…
Al suo debutto nel lungometraggio, Sean Durkin sceglie uno stile secco, con la musica minimalista di Saunder Jurriaans e Danny Bensi, fatta di suoni inquietanti che tendono volutamente ad ossessionare e disturbare lo spettatore e che ricordano alcuni lavori di Brian Eno. Anche il montaggio di Zac Stuart-Pontier, che alterna sapientemente le scene del presente con quelle del passato, fa risultare straniante e quasi ipnotica, ma mai disagevole la visione.
Al di là del banale titolo italiano, quello originale, Martha Marcy May Marlene, fa riferimento rispettivamente al vero nome della protagonista, a quello datole dal suo guru e dai suoi compagni ed a quello con cui tutte le componenti femminili della setta erano obbligate a presentarsi rispondendo al telefono (mentre i maschi con “Michael”), con l’intento di sottolineare la specie di lavaggio del cervello cui sia stata sottoposta.
Evidentissimo il riferimento, per quanto riguarda il magnetico Patrick ed il suo gruppo di affiliati, a Charles Manson (il cui cognome ha la stessa iniziale dei molteplici appellativi del personaggio principale) ed alla sua “famiglia”: l’adescamento di avvenenti giovani di entrambi i sessi, non privi di qualche problema, provenienti dalle campagne circostanti; la modifica dei loro nomi; i rapporti sessuali con le componenti femminili insieme all’incitamento verso tutti al sesso libero; i numerosi e diversificati atti criminali commessi prevalentemente di notte nelle case di ignari cittadini.
Nel film figura, non indifferente, lo zampino di Antonio Campos, qui in veste di produttore, autore già di Afterschool e regista rigoroso ed attratto da tematiche di disturbo giovanile, che sicuramente ha influito sullo stile secco e composito che caratterizza la pellicola, facendone così un’opera interessante, ma non per tutti.
Raro perché… è un film disturbante ed impegnativo.
Voto: * * *
Paolo Dallimonti