Scheda film

(Tr. lett: La fossa)
Regia e Sceneggiatura: Wang Bing
Soggetto: Yang XIanhui (romanzo “Gaobie Jiabiangou”)
Fotografia: Lu Sheng
Montaggio: Marie-Hélène Dozo
Scenografie: Wang Yang, Zhang Wanxiong
Costumi: Wang Fuzheng
Hong Kong/Francia/Belgio, 2010 – Drammatico – Durata: 112′
Cast: Zhengwu Cheng, Niansong Jing, Xiangnian Li, Renjun Lian, Ye Lu, Cenzi Xu, Haoyu Yang

 Anni cinquanta, campo di rieducazione di Jiabiangou…

Anni cinquanta, campo di rieducazione di Jiabiangou. Circa tremila intellettuali e “elementi di destra” furono inviati ai “Laogai” per “essere rieducati attraverso il lavoro” e correggere le proprie idee revisioniste. Il film abbraccia l’intero arco del soggiorno di alcune persone e ne racconta la vita nel campo.
Alla fine degli anni cinquanta, in piena riforma agraria e a cavallo del “Grande balzo in avanti”, che coincisero con la più furibonda carestia che la Cina abbia mai vissuto, il campo di lavoro di Jiabiangou divenne la destinazione ultima degli intellettuali che avevano ingenuamente risposto alla campagna dei “Cento fiori”, lanciata da Mao col segreto intento di sradicare i dissidenti.
In preda alla fame gli abitanti dei campi erano allora costretti a letto dalla mancanza di sostentamento e dal numero crescente di morti, vittime del momentaneo rallentamento nella “costruzione del socialismo”.
Il film di Wang Bing, che per la prima volta si cimenta nel racconto pur mantenendo un’ottica da documentario, parte dalla locazione geografica nel “Deserto del Gobi”, per indirizzare lo sguardo dello spettatore all’interno del più devastante effetto della politica interna nel periodo della collettivizzazione. L’incapacità a far fronte alle richieste interne di cibo venne evidenziata dal crescente numero di morti che, a un certo punto, costrinsero il Partito al silenzio circa i numeri reali della catastrofe e alla successiva abolizione del piano con conseguente importazione di grano dal Canada e dall’Australia. La fine del “Grande balzo in avanti” non coincise, però, con quella dei campi di lavoro che rimasero lo strumento principale di abolizione del dissenso.
Film a sorpresa della passata edizione del Festival del Cinema di Venezia, immotivatamente trascurato dalla critica e dai distributori, ma non per questo passato inosservato The Ditch è un film forte e coinvolgente. Sfuggendo alla facile trappola del sentimentalismo Wang Bing sottolinea, con il solo ausilio di una fotografia essenziale e dell’uso impietoso dello sguardo, l’intero processo di disumanizzazione cui è sottoposto ogni individuo che varca la soglia di un campo di lavoro, processo che non termina neanche con la morte, destino ultimo, ma non necessariamente sinonimo di pace, per i residenti forzati dei “Laogai”.
Il racconto si snoda per lo più attraverso le immagini, mostrate nella loro realtà e quasi sempre dall’ottica dei protagonisti. La maestosità del deserto fa da cornice ai piccoli stratagemmi per sopravvivere e alle continue autocritiche che costellano la vita dei residenti. Le famiglie sono lontane e, talvolta, quando una moglie fa visita al marito non sempre riesce ad arrivare in tempo.
E se il deserto è il luogo per eccellenza che sottolinea la volontà del Partito di allontanare anche dallo sguardo i dissidenti, che diviene strumento della lenta esecuzione della sua inappellabile sentenza, infine è nel suo stesso abbraccio che troveranno riposo, ma non pace, quelli che là sono stati relegati a sradicare i propri pensieri revisionisti. La sensazione che maggiormente colpisce lo spettatore, nell’osservare queste vite sfinite dalla mancanza di tutto, è che a morire là siano state mandate non certo le idee, che per definizione non muoiono mai, ma piuttosto il desiderio di ciascuno di farsi portatore di un pensiero autonomo, diverso da quello prescritto dal Partito.
La strisciante sensazione che la critica in Cina sia materiale ancora oggi da trattare con pinze e guanti e che essa debba esser sempre velata da un intento evidente di smussare, laddove possibile anche occultare, è parte del tessuto che compone questo affresco. Mentre guardiamo alla lenta degenerazione di persone che neanche ricordano più la loro colpa, assistiamo al progressivo sbiadirsi del significato stesso della parola “dissenso”, come a voler rimarcare che l’uomo, spogliato di tutto resta sempre un essere biologico, che non pensa neppure, se questo non è strettamente necessario alla sua sopravvivenza.
Il desiderio di raccontare, o anche solo mostrare quel che si ha da dire, senza giudicare o cedere al compiacimento per esser riusciti a mettere in immagini una storia così difficile, è il motore più forte dell’intera opera di Wang, che lentamente avvince lo spettatore con il solo espediente di mostrare la realtà, senza abbellirla e senza eccedere. Misura e senso della Storia, sono solo questi i semplici ingredienti di un lavoro talmente ben fatto da lasciare lo spettatore a pensarci su anche dopo essere uscito dalla sala. Come se la Storia fosse uscita dal film per sedere in silenzio accanto a chi ha accettato, anche solo per un paio d’ore, di esserne testimone.

RARISSIMO perché… racconta alcuni aspetti scomodi di un paese come la Cina.

Voto: 7

Anna Maria Pelella