La Voce, al cinema dal 7 maggio 2015, racconta la storia di Gianni (Rocco Papaleo), un imitatore di grande talento la cui carriera si è arenata alle esibizioni nei locali notturni. Dotato di una straordinaria capacità di “rubare” la personalità di chi imita, ne riproduce perfettamente la voce diventando magicamente “l’altro”. Per questo viene contattato dai “servizi segreti” che gli chiedono, per il bene del Paese, di fare alcune telefonate con “altre” voci in cambio di un futuro professionale migliore. Tuttavia, una volta entrato nel gioco, è difficile uscirne e Gianni si rende conto di essere implicato in uno o più omicidi. Tenta di sottrarsi, ma viene ricattato. Il suo già fragile equilibrio psichico peggiora, fino ad arrivare a un tragico quanto inevitabile finale. Il film parte qualche anno dopo la morte del protagonista, quando la figlia, desiderosa di scoprire la verità su quanto accaduto a suo padre, comincia ad indagare sul suo passato, incontrando lo psicanalista che lo aveva in cura e scoprendo il coinvolgimento di questo misterioso personaggio nei rapporti tra l’imitatore e i servizi segreti deviati. Un’indagine pericolosa che la porterà a far emergere la verità su un traffico illecito di medicinali.
Oggi le intercettazioni telefoniche sono alla base di un gran numero di indagini e di inchieste e spesso sono il sostegno di gran parte dei capi d’accusa.
Sicuramente gli inquirenti faranno svolgere indagini sulla reale provenienza delle telefonate e chiederanno la controprova dell’autenticità della voce facendo fare esami di comparazione fonetica per stabilire se la voce è quella reale dell’imputato o dell’indagato e non quella di qualcuno che lo imita.
Ma se ciò così non fosse, o se la tendenza fosse quella di accontentarsi di un semplice riscontro uditivo?
Sappiamo che esistono apparecchi sofisticatissimi in grado di deviare la provenienza di una telefonata e altri in grado di modificare le voci.
Cosa accadrebbe se venissero messe in dubbio le autenticità di alcune telefonate intercettate su cui si sono basate complesse indagini.
Fantapolitica? Ma esiste ancora la fantapolitica?
Centraldocinema ha intervistato Augusto Zucchi, autore, regista ed interprete de La voce, che ci ha raccontato della complessità del suo film, delle sue difficoltà e della sua visione dell’Italia di oggi.
Come nasce l’idea del film?
Intanto “quando nasce”? Nasce tanti anni fa. Ma in cinema, soprattutto in quello italiano, dove, spesso, si lavora con pochi mezzi preferendo il numero alla qualità e le prime opere vengono penalizzate, tra l’idea che nasce e l’idea che si realizza, passa troppo tempo. E, col passare del tempo, non dico che l’idea si trasforma, ma può, spesso, assumere nuovi contorni e risentire di una realtà che corre veloce e con una fantasia a volte superiore a quella di chi vuole raccontare storie.
Di lì un poco per volta il racconto ha assunto una sua dimensione storica, ambientato in Italia,
un paese in cui spesso riescono a convivere e a volte si confondono, in un’alchimia che sembra perfetta, il lecito, l’illecito, l’interesse pubblico, l’interesse assolutamente privato, un paese di santi, farabutti, di persone oneste e di ladri, in una realtà ricca di colpi di scena degni di un finale d’operetta, dove l’improvvisazione delle battute a canovaccio, come nell’antica tradizione italiana della commedia dell’arte, vengono preferite ai testi scritti.
Volevo raccontare una storia nella cornice di questo folklore italiano ed il protagonista di questa storia, doveva essere un imitatore, uno che, come diceva Pirandello, potesse essere considerato uno, nessuno e centomila.
Fino a qualche tempo fa, nell’immaginario collettivo, l’imitatore per eccellenza, in Italia era Alighiero Noschese, e quindi inevitabilmente il pensiero andava a lui, ma la storia del mio film è densa di particolari e di dettagli che nulla hanno a che fare con lui perché il protagonista della mia storia è vittima involontaria di tutta una serie di nefandezze, che non mi sognerei mai di attribuire a Noschese. Quindi diciamo che il personaggio protagonista della vicenda NON È Noschese. Io questo ci tengo a dirlo. I riferimenti che si fanno nel film sono assolutamente estranei al personaggio Noschese. Qui nel mio film il personaggio si rende complice di un omicidio!
L’unico accostamento fra il mio protagonista e il grande Alighiero è l’incredibile capacità, quasi disumana, di ascoltare una voce per due minuti e di riprodurla perfettamente.
Ero partito da una domanda: “cosa può succedere se i servizi segreti deviati o chiunque altro volesse sfruttare la capacità di un bravissimo imitatore di imitare le voci? Facendogli fare delle telefonate. Il discorso, penso, potrebbe risultare curiosamente attuale. Gran parte delle indagini giudiziarie oggi partono da intercettazioni telefoniche. Ma oggi sappiamo che esiste una strumentazione bellica ma che viene poi anche utilizzata dai servizi segreti, altamente sofisticata, capace di deviare la provenienza della telefonata. “Bellica” perché nasce in Afghanistan dove bisognava creare delle bolle impenetrabili per evitare che a distanza si facessero esplodere degli ordigni. Allora, depistata la provenienza della telefonata e falsificata la voce, è possibile fare di tutto…
Sul pressbook leggiamo che il film è stato girato nel 2009, come anno di produzione è indicato il 2013 ed arriva nelle sale nel 2015.
Può raccontarci come è andata? Quali sono state le difficoltà nelle varie fasi?
Ci sono le difficoltà di trovare una produzione: soprattutto quando il soggetto del film non è una commedia di pura distensione.
Dopodiché esiste un altro tipo di difficoltà ed è come mettere il dito in una piaga, perché il Ministero a volte finanzia dei progetti, con l’intesa che quello che mette a disposizione deve essere considerato solo come una parte del budget, ma poi il finanziamento va in mano a produttori che cercano di realizzare il film soltanto con quei soldi, anche se l’impegno è quello di metterci altro capitale, e dicono: “Il Ministero ci dà tot e il film lo facciamo solo con quel tot”, e quindi già si abbassa il livello della qualità. Dopodiché subentrano tutt’altre storie ed alla fine uno si trova a fare un film con pochi mezzi ed è sempre precario perché, quando quei pochi mezzi finiscono, se il film non è del tutto completato il lavoro si ferma. E questo è un discorso generale. Diciamo che le opere prime in Italia non sono realmente sostenute.
Il mio film si è fermato ad un certo punto, cioè dopo cinque settimane di riprese – me ne mancava una, una e mezza forse due – si è fermato perché era stato completamente speso il capitale. Sono stato fermo due anni, anche di più. A quel punto mi sono mosso da solo, perché volevo concluderlo, a tutti i costi: sono andato al Ministero, ho fatto le mie rimostranze e alla fine siamo riusciti ad individuare una situazione produttiva nella “Produzione Straordinaria” di PierFrancesco Fiorenza e Libertini che mi ha consentito di concludere il film. Però io ho cominciato le nuove riprese dopo quattro anni, con un materiale che risultava in qualche modo vecchio, ma non come storia, vecchio come look degli attori per esempio. E soprattutto era cambiato Papaleo, dopo Sanremo, che non ha potuto aderire alla ripresa dei lavori per concludere il film . Quindi mi sono ritrovato nella possibilità di concludere il film, ma nell’impossibilità di concluderlo esattamente come era iniziato.
Per quello c’è la doppia cornice narrativa?
Esattamente. Questa doppia cornice che in fondo mi ha consentito di approfondire un aspetto che a me interessa molto e che è quello dell’introspezione psichica del personaggio. Non psicologica, ma psichica, perché il protagonista di questa vicenda è affetto da un disagio psichico che si chiama “disturbo dell’immagine” e che il film adombra, lasciando delle tracce, senza togliere al film il carattere di thriller. Questo “disturbo dell’immagine” è un disturbo che riguarda la personalità di un individuo, la consapevolezza di avere una determinata identità e che può vacillare quando uno soffre appunto di questo disturbo. Nei casi gravi, gravissimi, che possono portare al suicidio, il soggetto si guarda allo specchio e non si riconosce..
Il protagonista del film soffre di questo disturbo. E questo espediente per concludere il film mi ha consentito di segnare in maniera un po’ più chiara questo aspetto, proprio perché i personaggi che abbiamo sviluppato sono lo psicanalista che aveva in cura l’imitatore e la figlia che cerca di risalire alla verità che nel film è interpretata dalla esordiente Giulia Greco.
Come ha pensato a Rocco Papaleo, legato soprattutto a ruoli comici, per un personaggio così drammatico come questo?
Intanto per una mia naturale tendenza a pensare che gli attori comici siano quelli più adatti ad interpretare ruoli drammatici. Perché il confine tra la comicità ed il tragico è molto sottile. Poi perché Papaleo è un bravo attore e devo dire che mi sono trovato molto bene con lui, nel senso che si è affidato totalmente a me ed in maniera molto creativa. Ha aderito al progetto e soprattutto alla regia intesa come conduzione della recitazione. Addirittura nei suoi piani di ascolto parlavamo: voleva che io gli dicessi quello che doveva pensare. E’ stato molto attento, disponibile, per certi versi umile. E queste sono caratteristiche che non hanno tutti gli attori. Poi, come sempre, la scelta ha anche delle componenti non dico di casualità, ma di contingenza. Uno considera una rosa di nomi, e c’è quell’attore che dimostra di avere più interesse a fare il ruolo. E Papaleo era molto convinto di volerlo fare.
C’è stato un lavoro in generale sulle imitazioni?
Abbiamo lavorato sulla fisiognomica, perché quando si deve imitare una voce non propria, uno altera anche la muscolatura del viso.
C’è stato un lavoro sull’imitazione supportato anche poi da fatti tecnici. L’imitazione deve essere perfetta, ma deve avere quel tanto di differenza, se no la rendiamo meccanica. Ho lavorato molto sulle imitazioni, non solo con Papaleo – l’imitazione al femminile è tutta sua – ma in altri casi siamo ricorsi anche agli attori che doppiavano se stessi, doppiando lui.
Torniamo ad Alighiero Noschese. Che ricordo ha di lui?
Per me era veramente, come si dice oggi, un mito. Era il numero uno , un modello per tutti. Lui tentava di andare al di là dell’imitazione della voce. Cercava di carpire l’essenza di una voce. E questo aspetto della imitazione non si è più ripetuto. Forse prova a farlo anche se in maniera diversa, il mio amico Crozza, al quale era stato anche proposto il personaggio.
Io non ho conosciuto Noschese, ma ho lavorato con molti amici comuni , soprattutto con Lino Banfi e Montesano, e mi raccontavano che lui era capace di stare ad una cena zitto per tutto il tempo ascoltando la voce di qualcuno ed alla fine stupiva tutti parlando con quella voce. Era impressionante. C’era il tentativo di cogliere qualcosa che andasse al di là del tono o del timbro di quella voce. Come diceva Fellini, che era uno scrutatore d’anime eccezionale, Noschese aveva la capacità di rubare l’anima degli altri.
Alla facoltà di medicina a Trento il “fenomeno Noschese” era studiato, perché poi lì c’era un fatto legato a come sono formate le corde vocali, a tutta una serie di componenti.
Io ho amato molto Noschese in un momento non sospetto, quando non pensavo ancora neanche di fare il regista, ed ero particolarmente affascinato da un senso di “doppio” che mi trasmetteva. Lui assolutamente padrone di se stesso, sicuro e dominatore della scena quando imitava la voce degli altri, animandosi e brillando di luce, e invece più malinconico , almeno apparente, fragile ed indifeso, schivo, quando era se stesso, per esempio nelle interviste.
Traspariva in lui un misto di straordinaria energia e profonda malinconia e forse questa componente ho cercato di trasferirla nel mio personaggio.
Lei è anche un attore. Perché, al di là delle necessità tecniche che ci ha già spiegato, si è ritagliato un ruolo così importante, quasi di narratore dell’intera vicenda?
Mi sentivo abbastanza adatto ad interpretare quel ruolo di un “regista” e di narratore. A me piace recitare quando mi sento adatto ai ruoli e questo ruolo l’ho sentito adatto a me. In più c’è anche il fatto, come già accennato, che non potevo cambiarlo, io già esistevo nella prima parte del film, occorreva creare un ponte. E comunque, come regista ho pensato che l’attore Zucchi fosse adatto ad interpretare il ruolo dello psicanalista/regista”, perché se non fosse stato così – su questo sono intellettualmente onesto – avrei trovato un altro modo per risolvere la questione.
Paolo Dallimonti