Recensione n.1
Bla bla bla… Ma sì, lo avete già capito: è il classico film “acchiappaoscar” (o almeno quello che spudoratamente più ci prova) con il solito bravo attore di turno che interpreta il solito personaggio portatore di un qualche handicap, anche se in fondo scontatamente genialoide. Ovvio che i giornalisti si scatenino con i soliti paragoni tra Russel Crowe e i vari attori che si sono già cimentati con successo in un ruolo simile come Tom Hanks, Daniel Day-Lewis, Sean Penn, Mark Belotty, Dustin Hoffman, Leonardo Di Caprio, ecc. ecc. E giù a parlare della “fisicità” della parte, dell’immedesimazione profonda, dell’essenza del personaggio e ancora bla bla bla… Come vi aspettate questo film? Dai, da tre a cinque stelle, senza vederlo prima, che cosa gli dareste? Vedrete che non vi allontanerete poi molto dal mio voto, garantito. Insomma, come si suol dire “una pellicola senza infamia e senza lode, sorretta dall’ottima interpretazione dei protagonisti, da una sceneggiatura ben calibrata tra dramma e momenti divertenti e diretto con diligenza da quell’onesto regista che risponde al nome di Ron Howard” (e già che ci siamo “sbraco” ulteriormente aggiungendo anche in questa banalissima pseudo-critica-fotocopia che Ron Howard non è altri che il buon caro Richie di “Happy Days”, nel qual caso ci fosse ancora qualcuno al mondo a non saperlo…).
DA TENERE: La costanza di Russel Crowe nel volersi costruire la fama di novello De Niro: massiccio ed incazzato in “L.A. Confidential”, ingrassato ed invecchiato per “The Insider”, palestrato per “Il Gladiatore” ed imbolsito e rincoglionito per questo “Un bel testùn”. Bravo, 7+.
DA BUTTARE: Non è detto che per forza si debbano sempre vedere film originali o capolavori, ma scegliere troppo spesso soggetti furbetti come questi…
NOTA DI MERITO: Jennifer Connelly, il grande ritorno. L’ ho amata (per come si possa amare un’attrice che non ti chiama mai al cellulare…) sin da quando la vidi al suo debutto cinematografico in quel capolavoro che è “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Certo, allora era poco più di una bambina, ma pure io lo ero! Poi un po’ si è persa per strada tra un filmetto e l’altro, per ritrovarla quindi in un indimenticabile topless in “The hot spot” di Dennis Hopper e molto più recentemente un po’ imbolsita in “Dark City” di Alex Proyas. Ora è a dir poco perfetta. Come donna e come attrice. Però…
NOTA DI DEMERITO: …anche lei proprio non mi vuole chiamare.
SITO UFFICIALE: http://www.abeautifulmind.com/
Ben, aspirante Supergiovane
“Sprazzi di vita di un genio matematico, premio Nobel per l’economia,
John Forbes Nash Jr.”
Recensione n.2
Un commento dopo il trionfo negli Oscar 2002
Trionfa “A Beautiful mind” agli Oscar 2002, dicono i giornali il giorno dopo l’evento. Ed è vero, trionfa, se non altro perché rispetto al grande avversario, lo spesso sottovalutato “Il signore degli anelli”, si porta a casa statuette ben più pesanti come quelle di “miglior film” e “miglior regia”.
Forse però una sotterranea, indicibile ombra di insoddisfazione sotto sotto c’è, ed è quella di aver perso una statuetta fondamentale per un film incentrato sulla storia di un uomo afflitto dalle sue allucinazioni, un genio naturale della matematica che lotta contro un mondo ibrido di realtà e follia, un anormale immerso in un mondo fatto di normalità: la statuetta di “miglior attore protagonista”. E dire che Russel Crowe non demerita affatto per l’intera durata della proiezione. Non sbava una sola volta, si addentra nei meandri del personaggio con convinzione (e anche con coraggio, vista la possibilità di rimanere poi intrappolati in soggetti del genere) dipingendo un John Nash dai gesti sregolati e nervosi che traspirano ansia.
L’inquietudine di “qualcosa che non va” nel protagonista, perfettamente trasmessa da Crowe, dura per tutta la fase iniziale, durante la quale questa sensazione si scontra contro uno sfondo di assoluta normalità (l’università da studente con i suoi compagni, l’ufficio da professore, con i suoi collaboratori e la moglie bella e fedele), che sembra rendere imminente lo scoppio improvviso di una “catastrofe mentale”.
Il film inganna fin dall’inizio invece, mostrando solo successivamente la finzione presente dall’inizio e lasciando lo spettatore per mezzo film nelle stesse condizioni del protagonista. Tutto così reale; tutto così finto. Peccato per Crowe, ma un plauso a Jennifer Connelly, splendida “miglior attrice non protagonista” che si rivela sublime non solo nella gioia del fidanzamento e del primo periodo di matrimonio, ma soprattutto nella disperazione della manifesta malattia, dove insieme al buon Russel dà tutto quel che ha dentro.
La regia di Ron Howard è quella di sempre: sempre moderata, con una variegata ma equilibrata scelta di modi espressivi, incline alla musica… Niente di nuovo, niente di peggio o di meglio rispetto a quanto già fatto. Eppure “miglior regia”: più che un premio un riconoscimento (come spesso accade agli Oscar).
Ma il film, al di là di tutto, è veramente bello, suscita emozioni intense e riflessioni che potrebbero portare alla pazzia se non ci fosse la solita, buon vecchia routine ad inghiottirsele fuori dalla sala. Poco importa se il soggetto è ormai classico e ripetuto: la doppia anomalia di genio e malattia. Se la rappresentazione ed i risultati finali sono questi ben venga, perché la verità è che in personaggi come quelli di “Rainman” o “Shine”, in individui straordinari come Van Gogh e John Nash, nell’inquietudine e nell’attrazione che ci trasmettono, c’è tutto il mistero di una realtà che ci affanniamo tanto a decifrare, sospesi sul sottile filo di una repressa, insana frustrazione, ma protetti e accuditi – a differenza di loro – dalla calorosa bambagia di una ripetitiva normalità.
Francesco Rivelli