Se la vita di un uomo può diventare leggenda, ergersi a emblema della libertà nonché dei diritti umani, quella non può che essere la vita di Mohammad Alì.
Questo dichiarano a voce alta le quasi tre ore di proiezione, durante le quali Michael Mann, reduce dal successo di “The Insider” (ma, permettetecelo, soprattutto regista dell’indimenticabile “Heat”) mette in scena una storia semplice quanto avvincente: la storia di Mohammad Alì appunto, il più grande pugile mai esistito, uno dei modelli indiscussi di tutte le generazioni dagli anni sessanta in poi. E lo fa con i tratti distintivi della sua regia, ossia l’ostentato realismo e l’uso di un montaggio dal ritmo incalzante sapientemente alternato a scene blande e statiche.
Il film, infatti, si danna per raccontare gli eventi da un punto di vista esclusivo, probabilmente rischioso, ma in fin dei conti azzeccato: quello di Alì stesso. Ogni avvenimento è visto infatti attraverso i suoi occhi e le sue convinzioni, inseguendo, con spirito più che filologico, una ricostruzione della sua vita vista dall’interno della sua mente, prediligendo in sceneggiatura cosa disse e pensò circa quanto accadde, piuttosto che semplicemente quanto accadde.
Ecco allora l’infuriare di splendidi combattimenti sul ring, filtrate da steady-cam che inseguono gli sguardi dei pugili, la loro paura, la loro ferocia, oppure da micro-camere che si scagliano insieme al guantone verso visi tumefatti; ma ecco anche le scene di vita quotidiana e i dialoghi del grande campione, viste con la consueta immobilità in camera fissa, quasi a non voler troppo disturbare lo spettatore mentre si concentra su quanto viene detto.
L'”Alì” di Mann sta tutto qui. Il resto è contorno, ma sublime contorno da grandi ricevimenti.
Will Smith è infatti semplicemente magnifico nei panni del campione. A tratti E’ Alì. Le movenze, gli occhi spiritati, la gestualità tipica del pugile scorrono nelle sue vene per l’intera durata del film, come mai nessun altro attore è riuscito a fare. L’ex “Fresh Prince” ha lavorato sodo per un intero anno prima di calarsi nei panni del campione, sia sul fisico (passando da 80 kg ai 100 richiesti), sia su quello emotivo (studiandone fin nei minimi dettagli la parlata, il carattere e le idee). Il risultato è stupefacente e sembra riportarci indietro nel tempo.
Le stesse scenografie, curate allo spasimo con estrema precisione, contribuiscono a questo effetto storico, immergendo gli eventi in ambientazioni il più possibile vicine a quelle nelle quali il pugile visse la sua carismatica esistenza, mentre la fotografia, dai colori un po’ sfumati in chiaro-scuro, patina le scene rendendole simili a quelle di un documentario girato trent’anni fa.
Mentre gli incastri con Malcom X, la comunità islamica, lo Stato americano e la leva militare si susseguono e si accavallano, la narrazione è dominata, a tratti assorbita, da una personalità indomabile, che nessuno è riuscito a piegare né sul ring né fuori (del resto, nemmeno la malattia che da anni si è impossessata del suo corpo riesce ad attenuarne il carisma). E’ sul ruggito della sua indole che giustamente il film si sofferma, quindi, per celebrare un uomo che “danzava” nella vita, come sul ring, per schivare e superare le coercitive saette di una società, che oggi se è più garantista e meno opprimente lo deve anche un po’ lui.
Francesco Rivelli