Regia : Samira Makhmalbaf
Fotografia: Ebrahim Ghafori
Interpreti: Agheleh Rezaïe, Abdolgani Yousefrazi, Razi Mohebi, Herzieh Amiri
L’Afganistan è stato “liberato”, ma a quale prezzo? La regista iraniana segue da vicino le sorti di una famiglia e di una donna, Noqreh, in particolare. Che ogni giorno indossa il burqa per recarsi a pregare insieme alle altre donne e poi scoprirsi il viso e calzare scarpe con il tacco e andare a scuola. Il regime talebano, fra le altre cose, aveva vietato l’istruzione alle donne che adesso sono desiderose di apprendere e sognano una carriera addirittura presidenziale. Perché le donne apporterebbero pace e comprensione, laddove fino ad adesso c’è stata solo violenza. L’arrivo dei profughi affolla oltre misura le abitazioni già precarie, il padre di Noqreh poi mal sopporta la ventata di novità che ha invaso le città, la vive come una sorte di maledizione e di perdizione. Decide quindi di partire insieme alla figlia e alla nuora che porta con sé un figlio piccolissimo e mal nutrito.
Il film, fino a questo punto, è a tratti divertente. Dico a tratti perché le condizioni di vita sono misere e la povertà costringe i più all’indigenza. Eppure non mancano gli atti di generosità e solidarietà. Ed è soprattutto la dimensione del sogno e anche della giustificata ambizione femminile a pervadere la pellicola di speranza, quella della ricostruzione. Quasi che fosse data a tutti la possibilità di ricominciare, su basi nuove. Ma questa speranza si stempera via via fino a sfociare nella tragedia. Perché non c’è pace e gli aerei americani che sorvolano i territori non portano viveri o medicinali, si limitano a pattugliare il territorio.
Un’interprete di straordinaria espressività e bellezza, una fotografia mozzafiato, una sceneggiatura curata con dialoghi che sempre prevedono la poesia anche a fronte delle macerie. Ma soprattutto un’accusa all’Occidente, colpevole e sbadato, che decide i destini del mondo dimenticando quelli degli uomini.
Mariella Minna