Scheda film
Regia: Mimmo Mancini
Soggetto e Sceneggiatura: Mimmo Mancini e Carlo Dellonte
Fotografia: Marcello Montarsi
Montaggio: Luciana Pandolfelli
Scenografie: Biagio Fersini
Musiche: Livio Minafra
Italia, 2014 – Commedia – Durata: 98′
Cast: Mehdi Mahdloo Torkaman, Mimmo Mancini, Claudio Lerro, Francesca Giaccari, Dante Marmone, Roberto Nobile, Cosimo Cinieri, Paolo Sassanelli, Michele Di Virgilio, Maurizio De la Vallée, Andrea Leonetti, Teodosio Barresi, Nadia Kibout, Miloud Mourad Benamara, Luigi Angiuli, Pascal Zullino, Hedy Krissane, Tiziana Schiavarelli, Massimo Bagnasco, Helena Converso, Alberto Testone e Rosanna Banfi
Uscita: 9 aprile 2015
Distribuzione: Flavia Entertainment in collaborazione con Draka Distribution
Sale: 9
L’integrazione passa per un Cristo “mamelucco” secondo l’attore-regista Mimmo Mancini
Il musulmano Cristo, terrorista, martire, sindaco che (non) cambia la Storia.
Jusuf non sa dire di no, aiuta tutti. Nel minuscolo borgo pugliese di Mariotto si occupa del suo internet point, vive con la moglie ansiosa Maria, soggiogata dalla madre matrona speculatrice e bigotta. In mezzo a baristi spilorci, politici senza programmi, luci fulminate, parenti risentiti.
Quando il parrucchiere con “il metodo” dell’actor studio deve rinunciare alla parte di Cristo nell’imminente Via Crucis e Jusuf ne prende il posto nella processione, la comunità si sconvolge. Può un musulmano, giordano o marocchino che sia, indossare il ruolo del Salvatore? Sbigottiti e retrogradi i compaesani, ignari di “che differenza” faccia essere davvero una comunità, figli di quella Puglia crogiolo di culture che non ri-conosce le proprie stesse radici, additano Jusuf e lo isolano.
Ameluk. Esordio alla regia cinematografica per l’attore Mimmo Mancini. Una tragicomica televisiva carrellata di disastri culturali. Jusuf, il “re” dei fraintendimenti. Sotto i riflettori il suo calvario fatto di soprusi e malelingue. Da Cristo a fuggiasco, da clandestino armato a candidato sindaco, preda di partiti e interessi vacui. Come il suo credo interiore, vacillante e solitario. Ad asserragliare la coscienza fragile di Jusuf, il candidato sindaco post fascista Mezzasoma (presto mezzosangue) in fermento elettorale e mediatico iper razzista, contro i sinistrorsi “compagni” del centro sociale e la loro terapia antistress (calce e martello e “prezzemolo” nostrano). Poi il parroco locale che tenta di convertire il popolo alla tolleranza, l’ebreo presidente dell’associazione per la salvaguardia dei congiuntivi, la famiglia “araba” arroccata nel proprio locale odoroso di kebab e di paura. Per non citare la moglie arrivista e la guida turistica idealista.
La crisi di identità infilza o meglio sbrana le terga ignoranti e le menti ottuse, ognuno rapito dal proprio progetto capitalistico, dal proprio angolo di erbacea indipendenza, dal sotterraneo infantile dipinto di sogni irrealizzati, dalla chiacchiera confusa del popolo, dal sapore delle cipolle autoctone, dal pianto del figlio meticcio. Ognuno chiuso all’altro, prono, nella sopravvivenza quotidiana, ad un egoismo ancestrale, ad un’indifferenza sociale rodata da centinaia di anni di lotte, occupazioni, feudi, migrazioni e accumulati reciproci terrori. Perchè il terrore seda gli animi, ispessisce le corazze e separa in atomi astiosi e manipolabili, vendibili, ricattabili, una società altrimenti più forte e paradossalmente più gestibile.
Finché, una tantum, un’emergenza scaglia la “prima pietra” e fa crescere il bernoccolo. La curosità e l’empatia per l’altro. Il dubbio che convivere fuori dai silenzi mescolandosi in libertà possa stanare dolenti livori e rendere agevole la routine più spicciola.
Ma come si mette in pratica la “convivialità delle differenze?” Con un ex presunto terrorista, divenuto consigliere, giordano e musulmano, di minoranza in minoranza, a caccia del faticoso valore del dialogo?
Ameluk, soprannome, nostalgica etichetta, figurina per un messaggio (più latitante che) latente di integrazione. Un film che cerca collocazione, tra commedia dell’arte e pasticcio da melting pot tricolore, dialoghi da buon cabaret e satira a grana grossa.
Ameluk, amarcord infantile e memoria collettiva per l’attore-autore Mimmo Mancini, richiama il nome del venditore ambulante di pastiglie contro il fumo che viaggiava tra Puglia e Basilicata negli anni ’60 occupando il folklore locale e diventando retaggio di modernariato tradizionale per Mancini e la sua arringa cine-elettorale anti xenofoba.
Eppure Ameluk, il titolo quanto l’opera intera, illumina altro personaggio, altra verità zoppa. Non esprime semplicemente assonanza ironica con il termine “mamelucco”, dall’arabo mamlūk (“schiavo comperato”), come ha ammesso Mancini medesimo. Del mamelucco sembra conservare direttamente solo il senso spregiativo, “scimunito, fesso, inconcludente”, a causa della trasparente mancanza del protagonista, assente alla trama e a se stesso, certo espediente e simbolo, ma menomo di “motivazioni” personali e culturali, fantasma senza struttura.
Jusuf alias Ameluk si trasforma in schiavo di se stesso (e torniamo alla prima accezione del vocabolo arabo) e dei pregiudizi mercantili di turno, compresa la “resurrezione” dell’epilogo. Ameluk è una divertente debordante parata di macchiette. Privo del surrealismo colorito di Vincenzo Salemme o della poetica di terra e sangue di un Pasquale Scimeca, Mancini dà vita ad un circo grottesco in un Sud attonito e carnevalesco, ma non mostra il profondo “sud” delle nostre anime e di quella “croce” che ci rende ancora pellegrini ignoranti.
Voto: 5 e ½
Sarah Panatta