Il crocefisso e la svastica che si confondono sapientemente.
”Amen”, il film scandalo di Costantin Costa-Gravas, uscito sul grande schermo la primavera scorsa, fa intuire già dalla locandina la sua portata polemica. Più che essere una scontata rappresentazione della violenza perpetrata dai nazisti durante l’Olocausto, “Amen” è un film sui silenzi e sull’indifferenza. In particolare, sul silenzio del Vaticano di fronte ai crimini compiuti dalle SS, sulla sua volontà di non vedere, sulla sua mancata presa di posizione e coraggio. Una drastica accusa alla Germania criminale e a coloro che si sono rivelati suoi complici: lo Stato-Chiesa e gli Alleati. Un tema talmente delicato da scatenare la censura contro il discusso manifesto, ideato da Oliviero Toscani, la cui ambiguità non è che la trasposizione attuale dell’ambiguità della politica vaticana di allora. ”Amen” è la storia dell’eccidio degli ebrei nei campi di concentramento (all’inizio del film anche degli handiccapati), visto però dalla prospettiva degli sterminatori. E’ il racconto della lotta solitaria di due uomini. Un ufficiale delle SS Kurt Gerstein (Ulrich Tukur), personaggio realmente esistito, che di fronte alla scoperta dello Zyklon B (la sostanza chimica usata per le camere a gas da lui fornito) ne denuncia l’uso al Vaticano, ed un prete cattolico, padre Riccardo Fontana (Mathieu Kassovitz), personaggio di fantasia che, dopo aver inutilmente cercato di spingere il Papa a condannare la carneficina, decide di non diventare complice del massacro e sceglie volontariamente la reclusione in un lager.
Tratto da Il Vicario di Rolf Hochhuth e tacciato da gran parte della critica cinematografica di eccessiva superficialità nel racconto dei fatti, l’ultima opera di Costa-Gravas riesce però ad insinuarsi nella coscienza popolare alimentando i dubbi sugli ancora oscuri giochi di potere tra Chiesa e Stati durante la persecuzione nazista.
E lo fa in modo sottile, quasi accennato, evitando l’orrore e la sua spettacolarizzazione, conducendo gli spettatori lungo i percorsi dei treni che ininterrottamente, per tutto il lungometraggio, fanno la spola tra le terre da cui vengono strappate le vittime e i campi di concentramento dove andranno a morire.
Il dramma e il suo senso sono vissuti in maniera intima, personale. Non si assiste nemmeno per un momento a scene raccapriccianti, perché viene lasciato spazio all’interiorizzazione della brutalità e dell’ingiustizia, al punto che diventa automatico pensare che il silenzio e la lentezza della pellicola siano finalizzate a questo scopo.
E’ il sapore amaro dell’ingiustizia che pervade lo spettatore alla fine del film. Una sorta di impotenza, la stessa che anima i protagonisti increduli di fronte all’indifferenza e al sadismo dei rispettivi sistemi. Lo sgomento nell’accorgersi che non sempre si riescono a cambiare le cose, nemmeno quando, a trionfare sull’egoismo, sono l’altruismo e la coerenza dei propri ideali.
Giorgia Zamboni