Scheda film

Regia: Roberto Faenza
Soggetto e sceneggiatura: Edith Bruck, Roberto Faenza, Nelo Risi, Iole Masucci
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Massimo Fiocchi
Scenografia: Cosimo Gomez
Costumi: Anna Lombardi
Musiche: Paolo Buonvino
Italia, 2014 – Drammatico – Durata: 88’
Cast: Eline Powell, Robert Sheehan, Andrea Osvart, Antonio Cupo, Moni Ovadia
Uscita: 16 gennaio 2014
Distribuzione: Good Films

Sale: 24

 Non voglio dimenticare

Prima di avventurarsi in un’analisi critica dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Roberto Faenza, ossia quell’Anita B. che del romanzo “Quanta stella c’è nel cielo” di Edith Bruck è la libera trasposizione per il grande schermo, è doverosa una precisazione per sgomberare dalla mente dello spettatore di turno l’idea che si tratti dell’ennesima pellicola sull’Olocausto. Non che questo costituisca un problema, anche perché quelle pagine così buie e drammatiche del XX Secolo non possono e non devono essere dimenticate, per non alimentare in nessun modo il placebo della rimozione. Per cui è giusto che si continui a tenerne vivo il ricordo e la Settima Arte può, in tal senso, offrire un contributo importante alla causa, come avvenuto con opere potentissime quali Notte e nebbia di Resnais, Kapò di Pontecorvo, La passeggera di Munk, L’uomo del banco dei pegni di Lumet, Schindler’s List di Spielberg, La vita è bella di Benigni, Train de vie di Mihaileanu o Shoah di Lanzmann. Lo stesso Faenza se ne era occupato firmando quello che ad oggi si può considerare uno dei suoi film più riusciti, ossia Jona che visse nella balena, adattamento del romanzo autobiografico dello scrittore Jona Oberski intitolato “Anni d’infanzia – Un bambino nei lager”, che nel 1993 valse al regista piemontese tre David di Donatello (regia, musica e costumi) e l’Efebo d’oro.
Ma non tutte le ciambelle escono con il buco, così come tanti altri film dedicati alla Shoah non hanno, per un motivo o per un altro, lasciato il segno. La ricca filmografia prodotta sul tema, infatti, non può sfuggire al pericolo di una reiterazione, a sua volta capace di provocare una saturazione nel potenziale fruitore. Come avremo modo di vedere, Anita B. non appartiene al suddetto filone, perché nella storia raccontata nelle pagine del libro della scrittrice ungherese prima e nel film del regista torinese poi, gli orrori delle deportazioni e dei lager non trovano spazio, se non nei ricordi e nelle parole dei personaggi che la animano. Si tratta della storia di Anita, sedicenne ungherese sopravvissuta ad Auschwitz, accolta in casa in quel Zvikovez, tra le montagne della Cecoslovacchia alle porte di Praga, dall’unica parente rimasta in vita, la zia Monika, che risiede lì con il marito Aron, il figlioletto Roby e il fratello di Aron, il giovane e attraente Eli. Nella nuova casa si trova, però, ad affrontare una realtà inaspettata: nessuno, neppure Eli, con cui scoprirà l’amore, vuole ricordare il passato. Il più grande tabù è proprio l’esperienza del campo, quasi fosse qualcosa di cui vergognarsi. Quando la ragazza tenta di smontare quella difesa collettiva si trova davanti un muro di silenzi, ma improvvisamente un evento la pone di fronte a una decisione che richiede un grande coraggio.
L’aspetto interessante dell’operazione risiede dunque nel periodo storico nel quale il plot prende forma e sostanza drammaturgica. Rarissime volte, infatti, il cinema si è occupato del dopo Olocausto e Anita B. proprio quel dopo cerca di farlo rivivere a partire dal 16 gennaio, data scelta dalla Good Films per distribuirlo nelle sale nostrane, precedendo di quasi due settimane le celebrazioni della Giornata della Memoria (27 gennaio). Ma al di là di questo aspetto cinematograficamente inedito, il film di Faenza non riesce ad andare, vuoi per una narrazione che si trascina arrancando verso l’epilogo, per di più senza veri e propri sussulti degni di nota, vuoi per la confezione visiva che, alla pari delle singole performance degli interpreti (dal magma di mediocrità ci sentiamo di estrapolare un convincente Moni Ovadia che nel film veste i panni del vulcanico zio Jacob, coscienza critica della comunità ebraica di Zvikovez), non presenta nulla di particolarmente rilevante. Come in Jona che visse nella balena, ma con esiti non altrettanto convincenti, adotta l’ottica del protagonista, in particolare quella della seconda parte, quando Jona inizia a guardare ciò che lo circonda con gli occhi di un adulto. Ne viene fuori un diario che mescola meccanicamente sentimento e dramma, passando attraverso il più classico dei romanzi di formazione. Il regista non riesce a raggiungere la semplicità, l’intensità e l’asciuttezza, che avevano permesso al film del 1993 di scaldare le corde del cuore senza concessioni al dolore e al sensazionalismo. In Anita B. tutto resta cristallizzato, empaticamente estraneo allo spettatore che non viene mai messo nella condizione di entrare in sintonia con la vicenda e con i suoi personaggi, segno più che evidente dell’incapacità di restituire sullo schermo le emozioni e i conflitti interiori che il romanzo della Bruck aveva saputo invece regalare ai lettori. Nemmeno quando si entra nella fase più intimista della storia, vale a dire nel momento in cui la protagonista affianca alla lotta per affermare la propria identità fuori e dentro dalle mura domestiche la burrascosa passione e l’amore per il giovane Eli, la pellicola riesce a coinvolgere e ad attrarre a sé la platea.
Ciò rappresenta lo scoglio che Faenza non riesce ad arginare, un limite che depotenzializza le potenzialità intrinseche del romanzo. Croce e delizia questa che caratterizza il cinema del regista torinese, le cui fondamenta da sempre non riescono a prescindere da radici squisitamente letterarie, a dimostrazione di quanto il cineasta non voglia o non possa farne a meno (il già citato Jona che visse nella balena, Copkiller da “The Order to Death” di Hugh Fleetwood, Sostiene Pereira dall’omonimo romanzo di Antonio Tabucchi, Marianna Ucrìa dall’opera di Dacia Maraini, L’amante perduto ispirato a “L’amante” di Abraham B. Yehoshua, I giorni dell’abbandono e Un giorno questo dolore ti sarà utile, rispettivamente da Elena Ferrante e Peter Cameron), offrendo di fatto pochissime opportunità agli addetti ai lavori di giudicarlo sulla base di un testo originale.  

Voto: 5

Francesco Del Grosso