Scheda film
Regia: Ruggero Dipaola
Soggetto: dal romanzo di Glenway Wescott
Sceneggiatura: Ruggero Dipaola, Heidrun Schleef, Luca de Benedittis
Fotografia: Vladan Radovic
Montaggio: Roberto Missiroli
Scenografie: Luca Servino
Costumi: Alessandro Lai
Musiche: Enzo Pietropaoli
Italia/Germania, 2011 – Drammatico – Durata: 95′
Cast: Laura Morante, Gerasimos Skiadaressis, Richard Sammel, Vincenzo Crea, Alba De Torrebruna,
Uscita: 28 settembre 2012
Distribuzione: EyeMoon Pictures
Sale: 28
Il parassita
I numeri spesso parlano chiaro e nel caso di Appartamento ad Atene sono piuttosto incoraggianti, tanto che se si va a spulciare nella statistica stagionale del circuito festivaliero stilata dal portale cinemaitaliano.info, il film diretto da Ruggero Dipaola si piazza al primo posto grazie a una media importante ottenuta attraverso il rapporto tra le kermesse e i riconoscimenti conquistati durante il loro svolgimento, precedendo a sorpresa titoli più quotati come Cesare deve morire, Sette opere di misericordia, La-bas o Romanzo di una strage. Ma le statistiche e le classifiche molte volte possono non rispecchiare a pieno gli effettivi valori espressi sul grande schermo ed è quanto si verifica con l’opera prima di Dipaola. Dall’alto dei circa cinquanta festival internazionali ai quali ha partecipato, dove ha visto iscrivere il suo titolo nei palmares per la bellezza di ventisette volte, la pellicola ha fatto fare davvero bella figura alla cinematografia nostrana dentro e fuori dalle mura amiche, con un bottino invidiabile di tutto rispetto. Il tutto si è tradotto in un lunghissimo tour in giro per gli schermi di tutto il mondo, cominciato nell’ottobre 2011 con la vittoria al Festival Internazionale del Film di Roma nella vetrina “Giovani Cineasti Italiani” e proseguito in manifestazioni di prestigio come Anchorage, Palm Springs, Dublino, Shanghai, Montréal, Mumbai e Tiburon.
Al di là degli allori la prova più dura da superare resta però il cammino in sala e il riscontro del pubblico, un cammino che a nostro avviso sarà davvero duro per il film del regista italiano, mandato letteralmente al macero dalla Eyemoon Pictures con una cinquantina di copie nell’ultimo weekend di settembre, quando nei cinema nostrani inizieranno ad affacciarsi pellicole provenienti dall’ultima edizione di Cannes, blockbuster e cartoon di successo. Esaurita la spinta propulsiva dei festival è dunque arrivata la vera prova del fuoco per Appartamento ad Atene, ma a giudicare da quello che si è manifestato davanti ai nostri occhi tale spinta non sarà sufficiente a salvare il film dal naufragio.
L’unico elemento di richiamo per chi se lo fosse perso nel tour festivaliero potrebbe essere il modo in cui Dipaola & Co. hanno adattato cinematograficamente l’omonimo romanzo di Glenway Wescott, firmato dallo scrittore statunitense nel 1945 e tradotto in Italia solo nel 2003 dalle edizioni Adelphi. Trattasi, infatti, di un successo popolare della letteratura mondiale arrivato dopo testi altrettanto notevoli del calibro di “The Grandmothers” (1926) e “Il falco pellegrino” (1940), che fecero iscrivere il suo autore nel gota dei romanzieri americani tra gli anni Venti e Cinquanta. In seguito Wescott smise quasi totalmente di scrivere racconti dedicandosi alla stesura di saggi e recensioni di altri scrittori, raccolte nella collezione “Immagini della verità”, pubblicata nel 1962. Elemento di richiamo che a nostro avviso è stato anche il fattore determinante alla base delle scelte di molti direttori artistici e che li ha spinti a selezionare la trasposizione di Appartamento ad Atene nei rispettivi programma, ma che per rispetto del lavoro altrui, anche se non condiviso, sottolineiamo sia solo un parere personale. Resta il fatto che il film alla lunga fa pesare sullo spettatore la stanca e verbosa successione degli eventi narrati dallo script, riportati in 95 minuti che sembrano una vera eternità con una tensione che resta soffocata e latente anche quando potrebbe o dovrebbe restituire slanci empatici.
Siamo nel 1943, ad Atene. Un appartamento viene requisito per ospitare un ufficiale tedesco. Nell’appartamento vivono gli Helianos, una coppia di mezza età un tempo agiata. Hanno un ragazzo di dieci anni, animato da melodrammatiche fantasie di vendetta, e una bambina di dodici. Con l’arrivo del capitano Kalter, tutto è cancellato. Metodico, ascetico, crudele, Kalter è un dio-soldato che impone il terrore. E gli Helianos si sottomettono, remissivi. Sono servi, adesso, senza altra identità che la loro acquiescenza. La volontà del dio-soldato è il loro unico assillo. L’appartamento li avvolge come un’epidermide. Poi, di colpo, l’assenza. Il padrone parte per la Germania, e i servi scoprono che la libertà non ha alcun senso, che la tortura continua. Quando Kalter torna, è un sollievo. E’ cambiato: più gentile, indulgente. Di un’indulgenza che disorienta. Ma è un fragile equilibrio. Correnti sotterranee di odio agiscono in segreto e preparano un’agghiacciante vendetta.
Dal plot prende così forma un dramma familiare che si alimenta dalla storia con la “S” maiuscola, quella del secondo conflitto mondiale che a differenza del romanzo, nella sua trasposizione audiovisiva, viene lasciato volontariamente sullo sfondo. Sbagliato per questo parlare di film a carattere bellico, nonostante gli ingredienti drammaturgici e narrativi possano indurre a tentazione. L’esordio di Dipaola sceglie a priori di ripiegare sulle dinamiche familiari che via via, con l’ingresso forzato del graduato nazista, emergono sullo schermo, rivelandoci la vera natura dei singoli personaggi, anche questi sottoposti a una rielaborazione dettata da esigenze di scrittura, come nel caso di Zoe Helianos e di sua figlia, diventate figure femminili più forti e presenti rispetto a quelle descritte da Wescott. In generale, è una storia di resistenza, di libertà morale e spirituale, che nel film diventa una storia come le tante transitata al cinema. Il regista preferisce non addentrarsi nelle dinamiche pericolose tra vittima e carnefice così innumerevoli volte causa di defiance cinematografiche e non solo, preferendo ad esempio a Il portiere di notte un approccio più simile a quello de Il servo.
Se dalle dichiarazioni del regista emerge altro, nel suo film si riflette invece il palleggio drammaturgico tra il tradimento e il rispetto della matrice originale, scegliendo di volta in volta quale strada percorrere. Detto dello spostamento dal fattore bellico alla restrizione familiare, che riporta alla mente Private di Saverio Costanzo, che nonostante periodo storico, ambientazione e guerra siano diversi, presentano non pochi punti in comune, a cominciare proprio dall’entrata forzata di un elemento esterno alla famiglia che ne stravolge la routine quotidiana e dal modo in cui i singoli componenti ne vengono influenzati, Appartamento ad Atene non sembra mai in grado di supportare fino in fondo la prima o la seconda possibilità, rimanendo di fatto incagliata tra le due. Le parentesi da romanzo di formazione quando il plot ripiega sugli adolescenti, sul loro sguardo sulle cose e gli eventi, compreso il rapporto conflittuale giustamente accentuato da Dipaola tra genitori e prole, regalano i rari momenti degni di nota. Così come sono rari i picchi emotivi (le cinghiate di punizione del padre a suo figlio davanti agli occhi del nazista), non sufficienti a sottrarre l’operazione dal tracciato piatto che la caratterizza, alimentato da una regia che predilige la fissità per non fagocitare, ma che nonostante le buone intenzioni rende la fruizione ancora più difficoltosa. A non convincere sono i ripiegamenti al quale Dipaola sottopone alcuni suoi personaggi, in primis quello del capitano nazista, che passa da un inizio violentemente manipolatorio a uno slancio non perfettamente giustificato dalla sceneggiatura (e forse anche dal libro) da amorevole padre di famiglia, per poi diventare ancora una volta integerrimo soldato.
Il resto si traduce in una messa in scena che convince grazie al lavoro dei reparti tecnici (fotografia, costumi e scenografie), che contribuiscono a rendere credibile ciò che transita sullo schermo. Bravi e molto espressivi i componenti più giovani del cast, altalenanti quelli più esperti con una Morante finalmente più trattenuta del solito e un Richard Semmel capace di trasferire allo spettatore la duplice dimensione emotiva sprigionata dal suo personaggio (il capitano Kalter), combattuto tra l’ideologia che deve portare avanti e il suo dramma intimo.
RARO perché… è un film debole.
Voto: * *
Francesco Del Grosso