“La verità è qualcosa di relativo”, dice Kernel, uno dei Rangers interrogati da John Travolta, chiamato ad investigare sul mistero di un’esercitazione trasformatasi inspiegabilmente in carneficina.
Sulla scorta di questo assunto si sviluppa così un sottile gioco di punti di vista e incastri degni del più classico dei gialli, sviluppato in tre ambientazioni scelte e rivisitate a partire da generi affini: la caserma dell’esercito, gli interrogatori dal sapore poliziesco ma informale, la foresta pluviale devota ai film sul Vietnam.

Lungo questi tre assi scenici, saltella qui e la’ la ricostruzione dei fatti, con l’uso di uno spezzatino spaziale dal sapore allegorico: le scene asciutte degli interrogatori, i momenti cioè di ricerca della verità, dominate da superfici lisce e primi piani sullo sguardo, sono continuamente inserite tra le due dimensioni peccaminose, la caserma e la foresta, annegate nella pioggia dei loro peccati (rispettivamente, lo spaccio di droga e l’omicidio).
Un John Travolta in splendida forma fisica e completamente a suo agio nei panni dell’ironico e spaccone Ranger, ci traghetta in mezzo a false ricostruzioni, mezze verità e confessioni che si smentiscono a vicenda, in un meccanismo confusionale volto sì a tenere alto il filo della suspence, ma soprattutto ad invitare lo spettatore alla partecipazione.

Insomma, secondo i più tradizionali canoni del giallo, da Agatha Christie a Earl Derr Biggers, il racconto è studiato in modo da porgere sul piatto d’argento la verità allo spettatore, che con pochi e semplici sillogismi si illude per pochi istanti di aver da solo smascherato i fatti, per poi vedersi ripiombato in un mistero ancora più fitto e intricato.

Il film è così un climax di attese che rivelano situazioni sempre più complesse, eventi più ampi, moventi più gravi.

Si avverte, oltre alla tensione giallistica, una sorta di compiacimento nello scompiglio dei pezzi, la stessa che si porta dentro il personaggio di Travolta, figura onnisciente che sceglie di mettersi al pari dello spettatore e giocare con lui.
Il vero spettatore è però identificato con il capitano Osborne, la bella ufficiale che segue il caso fin dall’inizio, entusiasmandosi per le briciole di verità che intuisce, scervellandosi per ricomporre i pezzi del puzzle e ragionando con Travolta sulle diverse possibilità.
E’ lei, nel finale, lo spettatore incredulo per il gabbo subito e bonariamente deriso da tutti gli attori dello spettacolo, seduti intorno ad un tavolo a ridere e scherzare, come a voler dire: “Non te la prendere, è solo cinema!”.
Di questi tempi, tra le noie degli effetti speciali e lo smarrimento dei meccanismi di suspence, è anche buon cinema.

Francesco Rivelli