Sharon Stone non è bella. È bellissima. “Liftata” o “nature”, si avvicina in splendida forma alla soglia dei cinquant’anni. Appurato questo dato di fatto, sorge spontanea una domanda: che c’azzecca questo con il cinema? L’allure non basta, infatti, a giustificare una mera operazione commerciale alla vana ricerca di un pubblico di bocca buona. Perché il seguito del bistrattato “Basic Instinct” (a quando una rivalutazione di Paul Verhoeven?) è, senza troppi giri di parole, un brutto, bruttissimo, film. Il problema di fondo è che non funziona da nessun punto di vista. I personaggi e le situazioni sono ridicoli, la messa in scena di Michael Caton-Jones assolutamente incolore, e il tanto sbandierato sesso privo di qualsiasi mordente. Non basta certo che la protagonista si aggiri con passo da divina e sguardo da mantide infilando in ogni frase le parole “sesso” e “scopare” per scatenare la libido. O un benché minimo interesse. Per tacere del sesso ginnico e patinato delle poche sequenze hot (la trovata della cintura è da ultima spiaggia della porcata). La dark lady si è sempre distinta per la doppia personalità: un’apparenza angelica a coprire un animo crudele e doppiogiochista. Questa dicotomia è narrativamente fondamentale per soggiogare, oltre al partnermaschile, anche lo spettatore, sempre in dubbio su cosa credere. In questo senso il capostipite di Verhoeven funzionava a dovere, mentre l’imbarazzante sequel non gode di alcuna sfumatura. La Stone ha una sola faccia, quella della mangiauomini manipolatrice e, pur bella, la porta a spasso con identica sicumera per tutto il film. Sembra in continuo delirio di onnipotenza, ma le manca la complicità della sceneggiatura, che pone ogni personaggio ai suoi piedi senza alcun valido motivo. Ancora una volta la categoria professionale degli psichiatri ne esce a pezzi, con un affermato professionista cui basta un (s)vestito firmato, qualche moina allusiva e due battute da caserma per perdere la testa. La sua maturazione emotiva, da uomo tutto d’un pezzo pacato e misurato a furia umana dissennata e passionale, è da sbellicarsi dalle risa. Certo, l’insulsaggine di David Morrissey non aiuta il personaggio, ed entrambi soccombono alla vacuità della sceneggiatura, al limite della parodia. Invece tutti si prendono tremendamente sul serio, finendo per cadere nel comico involontario. Altri due elementi, poi, risultano incomprensibili: perché cambiare l’ambientazione da San Francisco a Londra se la capitale inglese deve essere mostrata nel più totale anonimato (a parte il risibile studio psichiatrico panoramico in vetta alla torre Gherkin)? Forse per non disorientare troppo il pubblico d’oltreoceano interessato solo ai propri confini? Ma, soprattutto, che ci fa Charlotte Rampling in questo imbroglio?


Luca Baroncini de Gli Spietati