Scheda film
Regia: Tim Burton
Sceneggiatura: Scott Alexander & Larry Karazszewski
Fotografia: Bruno Delbonnel
Montaggio: JC Bond
Scenografie: Rick Heinrichs
Costumi: Colleen Atwood
Musiche: Danny Elfman
USA, 2014 – Biografico/Drammatico  – 105′
Cast: Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp e Jon Polito.  
Uscita: 1 Gennaio 2015
Distribuzione: Lucky Red

Una lacrima sul viso
Se non ci fossero i titoli di testa e di coda a ricordarcelo, difficilmente verrebbe da attribuire la paternità di Big Eyes a Tim Burton, poiché nel dna drammaturgico ed estetico non vi è nulla di riconducibile, a parte qualche flebile traccia (vedi la scena del supermercato), ai caratteri peculiari e rappresentativi del cinema del regista americano. Una pellicola come questa, infatti, appare come un corpo estraneo nella sua filmografia, da sempre scissa in due anime ben distinte, ma comunque facilmente identificabili a lui e al modo in cui interpreta la Settima Arte. Probabilmente ciò rappresenta un limite per coloro che si confrontano da anni con la produzione di Burton, ossia fruitori viziati e incapaci di misurarsi con qualcosa di diverso da quello al quale siamo stati abituati. Forse, senza questo limite avremmo potuto analizzare e guardare il film da una prospettiva diversa, apprezzarlo di più e magari giudicare l’opera in maniera più corretta; tuttavia qualcosa ci dice che tanti altri colleghi addetti ai lavori e moltissimi lettori hanno avuto le nostre stesse difficoltà. Attenzione, non perché al cospetto di un’opera senza alcun valore.

Big Eyes, nelle sale nostrane a partire dall’1 gennaio 2015 con Lucky Red, si va a posizionare di fatto in una sorta di zona d’ombra tra i due filoni che attraversano la cinematografia burtoniana: il dark-gotico da una parte e il surreale fiabesco-sovrannaturale dall’altra. E sta proprio in questa impersonalità l’elemento straniante e spiazzante che rende l’analisi nei confronti dell’opera più fredda e distaccata, almeno da parte di tutti coloro – noi compresi – che in quei due filoni principali hanno riconosciuto una coerenza visiva e narrativa, oltre a un progetto autoriale ben preciso. Qui tutto questo viene in gran parte meno, nonostante nello script ci sia un tema caro al cinema di Burton, ossia la riflessione sul rapporto identità-alterità, oltre all’amore sviscerato che ha sempre dimostrato di nutrire nei confronti della pittura, del disegno e dell’Arte figurativa in generale, che probabilmente lo ha spinto ad accettare di dirigere un film che ha provato a fare suo, ma che per natura e caratteristiche non gli appartiene, anche se si tratta di un’operazione che gli ha consentito di combinare le sue due grandi passioni: il cinema e la pittura. Stiamo parlando dell’incredibile vicenda vera di una delle più leggendarie frodi artistiche della storia, quella che ha visto protagonisti Margaret Keane e suo marito Walter, i cui dipinti con i bambini dai grandi occhi fecero impazzire gli Usa tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma quel successo era costruito su un’enorme bugia, a cui tutto il mondo aveva creduto: in realtà dietro quei ritratti c’era la mano di Margaret, con Walter che fece credere di esserne l’autore conquistando una sterminata quanto immeritata fama.

I motivi che lo allontanano da questa tipologia di progetto sono immediatamente rintracciabili, a cominciare dalla classicità del racconto e del modo in cui questo è stato costruito, per finire con l’impossibilità di aprire le porte dello sterminato bagaglio immaginifico a cui il regista è solito ricorrere perché il plot in questione lo avrebbe rigettato. Senza dimenticare che alla base di Big Eyes c’è una biografia tratta da una storia vera con personaggi reali, ingredienti con i quali si è confrontato solo una volta in carriera, ai tempi di Ed Wood. Di fronte a certi elementi strutturali e stilistici, Burton sembra un pesce fuor d’acqua e un animale chiuso in gabbia, confuso e costretto a frenare i suoi sconfinati istinti immaginifici e visionari. Lo schermo è uno specchio e come tale riflette proprio questa condizione di imbrigliamento.

Desiderio di rinnovamento, svolta decisa oppure parentesi creativa: ce lo dirà solo il tempo, anche se le prossime riprese dell’atteso sequel di Beetlejuice fanno pendere l’ago della bilancia verso la terza ipotesi, che per quanto ci riguarda (e siamo sicuri che in moltissimi la pensano come noi) è un vero e proprio sospiro di sollievo. Restano comunque le fluide transizioni tra i diversi toni e registri chiamati in causa, che portano sul grande schermo inaspettate pennellate di giallo mistery oltre alle sfumature della dramedy, la possibilità di rivivere una storia così incredibile da sembrare inventata e le apprezzabili performance davanti la macchina da presa di Amy Adams e Christoph Waltz (premiate entrambe con le candidature ai prossimi Golden Globes), con la prima brava a restituire le emozioni del suo personaggio e il secondo sempre all’altezza della situazione, ma che gigioneggia un po’ troppo quando tocca solo a lui tenere il testimone (vedi la divertentissima scena del processo).

Voto: 6 e 1/2

Francesco Del Grosso

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