Scheda film
Regia: Michael Mann
Soggetto e Sceneggiatura: Morgan Davis Foehl
Fotografia: Stuart Dryburgh
Montaggio: Mako Kamitsuna, Jeremiah O’Driscoll, Stephen E. Rivkin e Joe Walker
Scenografie: Guy Hedrix Dyas
Costumi: Colleen Atwood
Musiche: Harry Gregson -Williams, Atticus Ross e Leo Ross
Suono: Lee Orloff
Usa, 2015 – Spy Story/Action – Durata: 132′
Cast: Chris Hemsworth, Viola Davis, Wei Tang, Leehom Wang, Holt McCallany, Andy On, Ritchie Coster
Uscita: 12 marzo 2015
Distribuzione: Universal Pictures

Caduti nella Rete

Sei anni di lontananza dal grande schermo per Michael Mann, tanti ne sono trascorsi da Public Enemies, biopic sulla vita di John Dillinger, al quale è seguito un periodo di riposo e riflessione, intervallato da impegni produttivi (Le paludi della morte) e qualche lavoretto dietro la macchina da presa (il pilot della serie televisiva Luck). Una lontananza che ha fatto crescere in maniera esponenziale l’attesa nei confronti di Blackhat, spy story informatica con la quale il regista statunitense torna al suo autentico marchio di fabbrica, quel thriller metropolitano che in passato gli ha fornito le basi necessarie per esprimersi al meglio e dare alla luce pellicole come Strade violente, Manhunter, Heat – La sfida, Collateral e l’adattamento cinematografico di Miami Vice. Ma spesso accade che a grandi attese, il più delle volte seguono cocenti o parziali delusioni, proprio come in questo caso.

Blackhat appare come una sorta di contenitore nel quale Mann riversa tutto il suo modo di fare e concepire la Settima Arte, espressione nel quale trovano spazio l’alto e il basso, l’autorialità e il commerciale, oltre alle diverse sfumature del cinema di genere che si portano dietro altrettante influenze e citazioni più o meno evidenti, tanto al polar americano e francese dei bei tempi che furono (soprattutto quello di John Huston e Jean-Pierre Melville), quanto alle produzioni asiatiche dell’ultimo trentennio, in particolare quelle made in Hong Kong. Purtroppo, questa volta il mix non genera l’esito desiderato, ossia un equilibrio perfetto tra scrittura e messa in quadro, ma uno squilibrio che costringe a malincuore lo spettatore a dover distinguere tra la materia narrativa e il modo con cui è stata raccontata, vale a dire la confezione tecnico-stilistica. Il perché sta nello scollamento delle due parti che, mai come in questo caso nella filmografia di Mann, non vanno di pari passo. Se da una parte la continuità legata a un’idea personale e precisa di cinema in termini drammaturgici e a una coerenza estetico-formale possono fornire all’opera e al suo autore un qualche alibi per mandare giù più facilmente il boccone amaro, dall’altra le crepe e le mancanze strutturali che caratterizzano in negativo lo script depotenzializzano di riflesso la regia. Quest’ultima, pur se veicolo di soluzioni e punteggiature visive degne di nota, frutto di uno stile fiammeggiante e barocco che nel ricorso al digitale ha trovato nuova linfa e potenza espressiva, curato esteticamente e preciso nella definizione degli spazi fisici ed emozionali della messa in scena, in Blackhat appare isolata, non funzionale e a tratti persino fine a se stessa. Di conseguenza, ci troviamo a fare i conti con una performance registica che, nonostante la solidità, finisce però con il perdere di peso specifico, di bellezza, di carica e anche di ritmo quando i compiti del montaggio vengono meno.

Il risultato è un cortocircuito, termine a nostro avviso ideale per restare in tema con un plot che vede i servizi speciali americani e cinesi collaborare insieme per sventare il piano cospirativo di un cyber-criminale. Con l’aiuto dell’ex galeotto Nicholas Hathaway (interpretato da Chris Hemsworth), le autorità saranno coinvolte in un pericoloso inseguimento che li porterà da Chicago a Jakarta alla ricerca dell’invisibile malvivente della rete. Il racconto si dirama schematicamente e prevedibilmente lungo l’asse Stati Uniti-Oriente, con un tentativo di mappatura geografica che, attraverso varie tappe, vuole restituire allo spettatore il concetto di “guerra” totale e globale. Una “guerra” che da Matrix in poi, così come ora in Blackhat, non ha più confini e si combatte su due fronti, quello della vita reale e quello della vita virtuale, contro un nemico che non è più solo di carne ed ossa, ma di pixel. Un conflitto, questo, che nell’epoca del 2.0 ha trovato sempre più spazio al cinema, sottraendo alle storie che lo animano un notevole coefficiente di originalità. Qui, le “battaglie” che si consumano a tutto campo tra il web e le strade diventano il collante per mettere insieme i tasselli di un mosaico che, a parte lo show balistico e l’adrenalina offerti da alcune scene d’azione di buona fattura (irruzione e sparatoria tra i container, uno contro tutti nel ristorante coreano, conflitto a fuoco per le strade e inseguimento nella metropolitana di Hong Kong, epilogo in quel di Jakarta), soddisfa solo in minima parte le aspettative che i detrattori nutrono nei confronti delle pellicole di Mann. In Blackhat, infatti, si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di già visto e sentito, senza ombra di dubbio superiore a un’operazione analoga come il barcollante Codice: Swordfish di Dominic Sena, ma comunque non all’altezza di quanto precedentemente donato alle platee dal regista americano. La sensazione aumenta anche a causa di una ripetitività ciclica di alcuni elementi che hanno già fatto più di una volta capolino nei suoi film, provocando diversamente dalle altre volte una certa prevedibilità nella resa, a cominciare dal sottofondo di musiche miscelate tra pop, jazz e techno, che accompagnano l’evolversi della trama verso l’inevitabile scontro finale, che vede il protagonista di turno lottare per la sopravvivenza come in una giungla.

Voto: 6

Francesco Del Grosso