Il regista di Històrias mìnimas torna con una favola reale e “minima” su un incontro tra punti di vista 

La testa bianca di un bellissimo “molosso”. Imbellettata, manipolata, esposta al caos e al ridicolo, alla violenza consueta degli sguardi e dello snaturamento di una mostra canina. Ciò che a nordici amanti della natura sembra bizzarro, grottesco, diventa necessaria e normale scappatoia per uomini “colossali” e “molossali”, lavoratori spogliati dei diritti nella Patagonia crudele e splendida, cartolinesca e selvaggia. Il regista Carlos Sorin torna a parlare del suo paese, dell’Argentina del dopo-crisi, attraverso un minimalismo senza scuola ma nitido, attento. Gli attori non sono attori e portano sullo schermo il proprio nome, come lo splendido protagonista, espositore fiero d’impaccio e sorpresa. Espositore di cani per caso, l’anziano Juan

“Cocò” Villegas, che perde seduta stante il suo posto alla pompa di benzina e si ritrova per caso erede di un cane enorme, dall’aspetto feroce e dall’indole capricciosa e intimamente dolce. Occhi a mandorla, nome aggraziato, Bombon di Le Chien (allevamento che Cocò crede essere il vero nome del cane) ha vissuto per tre anni nell’allevamento di un francese, ora morto.

Singolare dimensione, movenze, forma dell’enorme testa che nella camionetta affianca l’esemplare al suo nuovo padrone. Uno stupore continuo, un tocco delicato e un equilibrio naturale che fa fatica a riprendersi dalle scosse violente della vita e della strada. Le sagome analoghe dell’uomo e di Bombon, silenzioso l’uno, più “sonoro” l’altro. L’uno rifiutato dal suo mestiere, l’altro dalla padrona e dalle regole implicite dell’omologazione canina. L’andamento rozzo, il guaire irremovibile e l’insostenibilità degli sguardi fuori dalla rassicurante camionetta lo tagliano fuori dal business delle mostre, dal gioco-giogo del denaro che lo vuole perfetta macchina riproduttrice, dai locali al confine che l’arruffone e approssimativo Eduardo saccheggia vantandosi della sua esistenza. Mite e incredibile il dogo riaffermerà la natura, fuggendo dalle attenzioni e dalle disattenzioni degli uomini, riappropriandosi dei suoi istinti in un nugolo irreale di calce e polveri. Tra le case parche e i locali di inusitata piccolezza un pericolo pietroso, un cielo di nuvole dipinte di eternità ispessita.

Il paesaggio è il contesto in cui il dramma della crisi economica e della disoccupazione si stanzia e affievolisce fiabescamente, o favolescamente, nell’interloquire con il mondo animale. Al suo quarto film e dopo gli episodi minimali di Piccole storie, del quale si ritagliano e si riapplicano i volti, Sorin parla per placidi quadri, antichi contrasti, antiche e dignitose concezioni del dolore. Il rischio di una visione pacificata rimane, messo in allarme da continue sommissioni e sommissioni, amarezze trasportate da colori caldi e pieni.

Chiara Federico