Recensione n.1

Fiori (e cuori) infranti
Seduttore in disarmo, Don riceve una misteriosa lettera, scritta su carta rosa con inchiostro rosso. Una sua ex-ragazza di vent’anni prima lo mette al corrente, in forma anonima, che ha un figlio diciannovenne…
Jim Jarmush decostruisce il plot giallo (chi sarà il mittente della lettera?) con una narrazione anemica, perfettamente impersonata dai silenzi di uno straordinario Bill Murray. Il racconto procede per quadri fissi , per accumulo di rimandi visivi e di situazioni. Vicino a Lost in traslation (ancora Murray) Broken Flowers racconta la maturità, la presa di coscienza della vita, ma anche la difficoltà di comunicazione e la solitudine. Lo fa anestetizzando il pathos, ironizzando sulla casualità dell’esistenza, costruendo la prima pellicola on the road statica che procede per i non-luoghi delle highway americane. Il cinema di Jarmush come sempre racconta i vuoti più che i pieni, musicalmente il levare e non il battere. Le quattro stralunate donne che visita Don nel suo viaggio (magnifiche la Stone e la Lange) sono tappe, a ritroso, necessarie alla sua analisi interiore. Il regista indipendente americano che ha fatto dell’improvvisazione naif parte della sua poetica realizza il suo film più preciso e coerente, che si dissolve in un finale magnifico e leggero come una bolla di sapone nell’aria. Da vedere.

Paolo Bronzetti

Recensione n.2

Che l’importante non sia il punto di arrivo ma il viaggio sara’ anche vero. Il problema del film di Jim Jarmusch e’ che l’on the road dell’uomo in visita ai vecchi amori, per trovare la madre del figlio che non sapeva di avere, potrebbe non finire mai oppure esaurirsi dopo pochi minuti. In ogni caso, non regge le due ore di proiezione. Anche perche’ ci si trova costretti a subire i non cosi’ coinvolgenti crucci esistenziali (silenzio e immobilita’) di un ex dongiovanni miliardario. Certo, le dinamiche umane imbastite nella sceneggiatura sono universali, il bilancio di una vita puo’ pesare indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, ma l’ennesimo uomo arrivato, che si ritrova solo e depresso a passare intere giornate davanti a un enorme schermo al plasma, non offre cosi’ tanti spunti di interesse. E nemmeno di riflessione. Di lui sappiamo poco. La rogna e’ che non vorremmo saperne di piu’. Non aiuta lo sguardo catatonico di Bill Murray (improbabile sciupafemmine), che da quando ha trovato il successo smettendo di recitare (“Lost in translation”) non molla piu’ la faccia sorniona e l’espressione di forzato distacco. Il suo fiacco vagare per un’America ben lontana dal sogno si fa spesso allusivo, ma le cinque tappe della sua via crucis non illuminano granche’. La provincia poco allegra e i matrimoni infelici sono cose risapute. Non basta un approccio fintamente spontaneo per rendere la casualita’ della vita. Un calcolo e’ sempre evidente e tutti gli episodi, pur nella diversita’ dei caratteri femminili, finiscono per uniformarsi a una regia che impone il grottesco anche dove, magari, la vita avrebbe scelto altrimenti. Un minimalismo che si fa maniera affidandosi a un andamento stralunato tutt’altro che genuino. Poi, per carita’, l’insieme e’ piacevole, la sfilata di attrici brave e belle allieta occhi e spirito, le professioni dei personaggi femminili (ordinatrice di armadi, comunicatrice animale) sono esilaranti e la colonna sonora “etiope” e’ strepitosa, ma la sensazione di una verita’ profonda celata dietro all’apparente vacuita’ di gesti quotidiani diventa ingombrante e finisce per prendere il sopravvento. Invece, a volte, il poco e’ poco. E resta tale.

Luca Baroncini (www.spietati.it)

Recensione n.3

Don Jonston (B. Murray) è il protagonista di una storia semplice ed intelligente (un piccolo giallo dal finale aperto), in cui il personaggio si modella e prende forma attraverso le azioni delle donne che incontra.
Il viaggio di una lettera in una busta rosa come introduzione metaforica di quello che sarà il viaggio del protagonista attraverso un’ America stereotipata, alla ricerca di una “paternità perduta” volendo chiamare in causa Proust.
Il cinema indipendente di Jarmusch pone qui l’accento su una storia tutta americana : la storia di un uomo che si lascia vivere , dalle espressioni facciali talmente impassibili da risultare quasi irritante allo spettatore.
Questa America che è patria di “casi umani”: le ex fidanzate di Dan che rappresentano lo sfacelo di una società di eccessi e/o di banalità, così come i personaggi minori pur ben caratterizzati nei tratti peculiari.
È l’America,”personaggio” essa stessa, in cui tutto è color rosa confetto , in cui i sentimenti veri e forti lasciano il segno sì, ma nei ricordi del passato, dove la realtà si dipinge solo di una vuota apparenza. I contrasti emergono uno ad un passo dall’altro: la casa di Dan è vuota, silenziosa, triste, quella del vicino amico etiope è infestata dalle urla dei bambini dal rumore dai suoni, dai colori accesi.
Jarmusch ci mostra l’america della provincia, non quella più eclatante delle grandi metropoli, eppure è anch’essa corrotta, contaminata dalle psicosi di massa che riducono le persone ad un senso di inadeguatezza e tristezza; da un lato la musica d’Opera, dall’altro musica africana.
L’etiope paradossalmente straniero in una terra non sua è l’unico personaggio non triste.
Il Don Giovanni protagonista non svela il mistero, non saprà mai chi è suo figlio ,resterà intrappolato nel vortice del dubbio più o meno consapevole del mondo che gli gira intorno (emblematica la scena finale in cui si ritrova fermo in una rotonda, l’ espressione fissa, le macchine girano intorno).

Graziana Spagnuolo