Kitano è prevedibile e imprevedibile.
Prevedibile perché è un film “alla Kitano”, ovvero non mancano gli “ingredienti” dei suoi precedenti film: violenza (tanta, più dei precedenti), situazioni umoristiche (diminuiscono verso il finale), il mare (per lui rappresenta l’inizio e la fine della vita), i giochi nella spiaggia (ma non solo in spiaggia), elementi poetici (l’aeroplano di carta).
Imprevedibile perché ha fuso di una tecnica di regia più tipicamente americana, unita alla sua (più statica ed equilibrata). Ne è venuto fuori un riuscitissimo cocktail di delicata composizione con maggiori movimenti di camera (qualche scena sembra ispirata a Eyes Wide Shut).
Bellissimo lo spiazzante taglio finale: Kitano conclude mentre ci si aspetta una scena finale o un’ultimo evento.
Il film mette in scena una profonda incomunicabilità, prima all’interno di una gerarchia yakuza rigida e cerimoniale, poi nei confronti di culture diverse, accentuato dall’impenetrabile silenzio di Kitano. Non capiamo cosa gli passa per la testa, e con quegli occhiali scuri da una impressione di distacco. Difficile comprenderlo, difficile comprendere la mentalità Yakuza, il senso dell’onore, il rispetto quasi religioso. Kitano sembra tentare di avvicinarsi all’occidente, per poi rimanere distaccato, assorto nei suoi pensieri. Forse è per questo che ci chiude la porta (nel finale), restiamo fuori dal suo mondo, come è accaduto nello strabiliante finale di Sonatine.
Brother è un film molto vicino alla violenza e allo splatter di Tarantino (o forse è il contrario?).
voto: 9
Daniele

“Ho battuto forte la testa. Appena mi sono ripreso ero assillato di continuo da una domanda: vuoi vedere che sono finalmente diventato un genio? Oggi invece tutto si è ridimensionato e anzi, mi sembra di essere un pò rincoglionito.”
Takeshi Kitano