E’ tornato, Tom Hanks, e punta con prepotenza dritto agli Oscar, come solo lui sa fare, con la sua zattera così sapientemente costruita, con un film ed un regista che la Provvida Marea gli ha offerto, sfidando le altissime e devastanti onde di un’interpretazione difficile, molto più complicata di quanto possa sembrare ad una distratta visione del film. Oscar certamente per il trasformismo: ingrassare per la prima parte del film e poi, durante l’anno di sospensione delle riprese (durante il quale Zemeckis girava “Le verità nascoste”), dimagrire di una ventina di chili, fino a ridursi ad un grissino non è cosa da tutti i giorni, ma è cosa comprensibile per chi in “Philadelphia” mutava a tal punto da farci credere quasi di essere ammalato realmente, fuori dalla finzione, di AIDS, ma soprattutto a chi sa che questa interpretazione potrebbe portarlo alla 3° statuetta come protagonista, impresa mai riuscita da nessun attore.
Promossa anche la regia; Zemeckis, non tradisce le attese e, dopo qualche piccolo virtuosismo iniziale che non guasta mai, trasforma la vecchia trama del naufrago che deve ricominciare da zero, in un bellissimo spettacolo dove il magnifico paesaggio dell’isola non fa da solo sfondo, ma vive e lotta con e contro il protagonista, dove gran parte del tempo è dedicato dallo spettatore unicamente all’osservare e poco all’ascoltare, mentre i “dialoghi” con Wilson, il pallone antropomorfizzato in un novello Venerdì, fanno da contorno a quelli silenti con la natura selvaggia . Non solo: la scena del naufragio, piccola perla in un film che lascia relativamente poco spazio agli effetti speciali tanto cari al regista, con gli improvvisi bagliori del cielo che rivelano, in una bolgia dantesca di luce ed ombra, le fiamme divampanti sull’oceano, è magistralmente concepita e condotta, come del resto alcune metafore di luce, che in altri contesti si presenterebbero forse scontate, e che in questo risultano invece terribilmente azzeccate e consone ai particolari stati d’animo del Crusoe del duemila. L’ultima parte del film è un riassimilarsi agli schemi di Hollywood, ma un riassimilarsi necessario per la metafora-significato finale del film.
Una ferma ed ulteriore (se mai ce ne fosse stato bisogno) dimostrazione di come non sia importante la storia, semplice e ormai svalutata nel tempo, quanto il “come” la si racconta: Hanks e Zemeckis incarnano questo “come” con grande personalità e si imbarcano verso una notte, quella degli Oscar, probabilmente assai meno buia e tempestosa, ma altrettanto emozionante, di quella del naufragio.

Francesco Rivelli