Scheda film

Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente tratto dal “Giulio Cesare” di Wiliam Shakespeare
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Fabio Cavalli
Fotografia: Simone Zampagni
Montaggio: Roberto Perpignani
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Italia, 2011 – Docu-fiction/Drammatico – Durata: 76′
Cast: Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vincenzo Gallo, Rosario Majorana
Uscita: 2 marzo 2012
Distribuzione: Sacher

Sale: 36

 Detenuti in attesa di debutto

”Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione” (Cosimo Rega, detenuto ed attore).
Tralasciando quel pugno di film d’ambiente carcerario girati in Italia, i soli due tentativi precedenti di portare il teatro dietro le sbarre al cinema o comunque di coinvolgere per la messa in scena veri reclusi erano stati nel 2008 Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario e prima ancora, nel 2005, il piccolo e troppo presto dimenticato Fatti della banda della Magliana di Daniele Costantini.
I fratelli Taviani, colpiti da uno spettacolo diretto da Fabio Cavalli sull'”Inferno” con i carcerati della sezione “Alta Sicurezza” del e nel penitenziario di Rebibbia in Roma, cui erano stati indirizzati da un’amica, hanno proposto al regista ed ai suoi attori di metter su il “Giulio Cesare”.
Così in quella che loro non vogliono venga etichettata come “docu-fiction”, ma che tanto vi somiglia, hanno ricostruito la preparazione dello spettacolo, privilegiando però l’aspetto narrativo e drammaturgico su quello documentario, realizzando una curiosa e riuscita commistione di cinema e teatro.
Perché però proprio questo testo? È un’opera che racconta di congiura, di fatti di sangue e di uomini d’onore, come Bruto e come molti di quelli che sono sul palco, alcuni dei quali scontano una condanna pesante, marchiata come “fine pena mai”; storie che hanno vissuto in prima persona – prendendo alla lettera il metodo di Stanislavskij! – e che rielaborano attraverso l’esperienza teatrale, la quale a sua volta maieuticamente fa riemergere anche tensioni e conti in sospeso tra loro stessi. Durante i provini – sorprendenti! – svolti facendo pronunciare ai novelli attori le proprie generalità prima sulla soglia di un addio e poi con rabbia, didascalie rivelatrici non fanno mistero dei loro delitti, dei motivi che li hanno condotti tra quelle spesse mura di detenzione e dolore.
Iniziando a colori, con l’ultima scena dello spettacolo, gli applausi del pubblico che torna poi a casa, contrapposta alla gioia degli interpreti che invece rientrano in cella, il film torna indietro e prosegue con il bianco e nero secco e ricco di chiaroscuri creato dal direttore della fotografia Simone Zampagni, fino di nuovo alla messinscena, che si riaccende di una più vasta e calda scala cromatica, dominata dal rosso sanguigno dei costumi da antichi romani.
Il teatro ha regalato ad alcuni dei carcerati, soprattutto gli ergastolani, una nuova ragione di vita, mentre ad altri, con pene minori, addirittura un nuovo mestiere: è il caso dell’eccezionale Salvatore “Zazà” Striano, già visto in Gomorra, che, avvalsosi dell’indulto nel 2006, è finalmente un uomo libero.
Per uno strano scherzo del destino infine, il film degli artisticamente rinati fratelli Taviani, pronto almeno dal novembre dell’anno precedente, ha faticato a trovare un distributore, incontrandolo per ultimo nella Sacher di Nanni Moretti, quadrando così il cerchio. Il regista di Io sono un autarchico e Habemus papam più di trent’anni prima mosse i primi passi grazie ad una parte affidatagli in Padre padrone dai due fratelli, che così ebbero poi modo di dipingerlo: “(…) il più gran rompicoglioni che si possa immaginare; eravamo letteralmente perseguitati da questo giovane: telefonava, compariva ovunque andassimo a fare qualche conferenza, ce lo trovavamo sotto casa… non si campava più!” (cit. in E. Giacovelli, “La commedia all’italiana”, Gremese Editore, 1990-1995). Corsi e ricorsi storici, padri e figli artistici che si passano il testimone, piccoli tragicomici miracoli che solo il (grande) cinema riesce a compiere.
E, quale ulteriore quadratura del cerchio e piccola rivincita personale, Cesare deve morire ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2012.
Raro perché… già, perché?!

Voto: * * * *

VC PD