Abbandonata definitivamente la bidimensionalità con “Mucche alla riscossa”, la Disney punta tutto sul digitale. Il debutto ufficiale nella computer grafica vede quindi i riflettori puntati sullo scricchiolante logo che per quasi un secolo ha monopolizzato l’intrattenimento per l’infanzia e che si trova a competere con due colossi affermati come la Pixar (capostipite della rivoluzione tecnica a partire da “Toy Story”) e la Dreamworks (forte dei successi globali di “Shrek” e “Madagascar”). L’enorme sfida grava sulle deboli spalle del pulcino “Chicken Little”. Gli elementi che hanno fatto la fortuna della Disney ci sono tutti: ritmo indiavolato, messaggio edificante, cura formale, incursioni nel musical e personaggi di contorno con la voglia di rubare la scena al protagonista. Eppure, questa volta, l’insieme non funziona. Colpisce la quantità di persone che ha contribuito all’esile soggetto, perché la storia è proprio debole e si affida all’ennesima ricerca di credibilità da parte del solito sfigatello animato di buone intenzioni. Al centro del racconto il rapporto conflittuale, ma pacatissimo, tra un padre un po’ ottuso e un figlio un po’ nerd. L’atteso confronto finisce, a parole, in un “volemose bene” in cui il padre capisce attraverso il dialogo che deve sostenere il figlio sia nei successi che nelle sconfitte. Nei fatti, però, assistiamo ancora una volta alla voglia di vincere che sostanzia la maggior parte delle sceneggiature a fine educativo, soprattutto americane: da perdente a eroe il passo, chissà perché, è sempre brevissimo e per poter vivere felici e contenti bisogna dimostrare a tutti di essere il migliore. Morale spiccia e urlata a parte, anche la narrazione langue. A una prima parte preparatoria tutt’altro che spumeggiante, inficiata da una lunga parentesi sportiva (ancora football americano, basta!!!), segue una resa dei conti che, oltre a limitarsi all’ormai trito gioco delle citazioni, copia spudoratamente “E.T.” e “La guerra dei mondi”. A scarseggiare è quindi soprattutto la creatività. Anche i personaggi di contorno, pur nella cura del particolare, non trovano caratterizzazioni felici e si limitano a riempire freneticamente la scena strappando pochissime risate. Quanto alla tecnica, nulla da eccepire, ma anche l’aspetto visivo non conquista: alcuni vuoti di scenografia si fanno sentire (lo scarno interno dell’astronave, l’anonimato del paese e dei luoghi in cui è ambientata la vicenda, dalla scuola alla casa del protagonista), le coreografie dei tanti numeri musicali su hit celeberrime (ancora “I will survive” e “Staying alive”, possibile?) non si distinguono per brio e gli stessi personaggi non godono di dettagli fisici spassosi in grado di accattivarsi la simpatia del pubblico (a partire dai denti del protagonista). Il primo aggettivo che si fa strada mentre scorrono i titoli di coda è “piatto” e lunghe ombre, dall’irriverenza dell’orco verde al sollazzo dei primi, geniali, lungometraggi Pixar, si abbattono, fino a farlo scomparire, sul piccolo “Chicken Little”, colpevole di essersi imposto con la sola forza del marketing avendo ben poco da dire.
Luca Baroncini de Gli Spietati