Cineforum 2011: le ansie del nuovo millennio

 

psico cineforum CineClub il Fellini in collaborazione con Istituto Psic. Europeo

 

Saletta via correnti (Varese) 20.45 ingresso per soci con tessera

 

 

 

Gorbaciof (16/12/2010)

 

Marino Pacileo è un contabile del carcere di Poggio Reale, lo chiamano Gorbaciof perché ha una voglia rossa sulla fronte. Ha una passione sfrenata per il gioco d’azzardo ed in particolare per il poker che gioca quasi ogni sera nel retrobottega di un ristorante cinese. Il proprietario del ristorante ha una figlia, Lila, di cui Pacileo si innamora e quando scopre che probabilmente il padre la vuole vendere per saldare un debito di gioco fa di tutto per proteggerla. In questo tutto ci sarà una rapina, i soldi che sottrae al suo ufficio e una affiliazione con la mafia. E mentre Pacileo sprofonda in una serie di compromessi sempre più torbidi inizia in lui un cambiamento e in qualche modo una risalita creando una sorta di paradossale trasformazione nel suo modo di intendere la vita.

Pacileo è interpretato da uno straordinario Toni Servillo che costruisce, grazie ad una mimica molto azzeccata, un personaggio originale e mai tedioso. In qualche modo tutto il film finisce per girare attorno al personaggio di Toni Servillo che non lascia spazio alle altre interpretazioni e ai pregi del film. La regia asseconda molto il protagonista raccontando una Napoli da Far West in cui l’ambientazione accompagna e sorregge bene la caricatura dei personaggi. Troppa attenzione al contesto e a Servillo fanno cadere il regista in alcune ingenuità, come la scena finale dell’aereoporto che appare superflua o la scena dello zoo in cui viene forzato il rapporto fra Lila e Pacileo.

Fulvio Caporale

 

La coppa che scoppia

 

La guerra dei roses (10/02/2011)

 

 

Il film narra la storia di una coppia apparentemente perfetta che dopo il matrimonio comincia a traballare. Andando avanti col tempo i piccoli battibecchi di ogni giorno portano alla decisione dei due di divorziare. In fase di divorzio però entrambi vogliono tenersi la splendida casa acquistata subito dopo il matrimonio e tale contesa li costringe a continuare a convivere sotto lo stesso tetto in quanto nessuno dei due vuole lasciare la casa all’altro. La convivenza è causa di liti sempre più furibonde che li porteranno a danneggiare la casa stessa e a morire

 

Adolescenza difficile

 

In un mondo migliore (10/03/2011)

 

La danese Susanne Bier, dopo la sua esperienza negli Stati Uniti con Noi due sconosciuti, torna a dirigere in patria lasciando di nuovo il segno con un film completo che affronta diverse tematiche, senza perderne neanche una per strada, per raccontare di come, sia all’estremo nord come all’estremo del sud del mondo, la violenza generi paura che genera altra violenza. Un paio di famiglie si incontrano per l’amicizia tra i banchi di scuola dei loro ragazzi: Christian (William Jøhnk Juels Nielsen) ha appena perso la madre, morta per un tumore, e si è trasferito di recente da Londra insieme al padre Claus (Ulrich Thomsen), mentre Elias (Markus Rygaard) vive con il fratellino e la madre Marianne (Tryne Dyrholm), poiché i genitori stanno divorziando ed il padre Anton (Mikael Persbrandt) lavora come medico per una ONG in Africa. I due giovani fanno conoscenza quando il primo si fa avanti per difendere se stesso ed il secondo, continuamente vessato dai bulli dell’istituto che frequentano. Da lì il loro rapporto sarà caratterizzato dalla ricerca di vendetta (come il titolo originale sta a significare) per tutti i soprusi che incontreranno, mentre i grandi distrattamente continuano a rincorrere le proprie vite ed a fuggire dai loro incubi…

La regista scandinava con questo straordinario film ha conquistato la Festa del Film di Roma, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria (per “la necessità e l’incanto di una parabola etica”) ed il Premio del Pubblico, candidandosi inoltre a concorrere per la Danimarca come miglior film straniero ai prossimi Oscar. Come Gran Torino di Eastwood – uno dei registi preferiti insieme a Bergman – incentra la propria pellicola sulla violenza, mostrandone i vari aspetti ed anche le possibili soluzioni, ponendo molte domande e lasciando al pubblico le risposte. Una società apparentemente perfetta come quella danese, risulta, dall’analisi della cineasta, fragile come il resto del mondo, ribollente sotto la pelle della civilizzazione.

I temi sono tanti – il passaggio adolescenziale, l’etica, la (non) violenza, la paura e la rabbia, tanto per citarne alcuni – ma la Bier riesce ad inserirli quasi impercettibilmente, per affermare che forse un altro mondo è veramente possibile, come vuole necessariamente sottolineare il finale, che potrebbe apparire fin troppo buonista ad un occhio superficiale, dopo l’abbondante e sciocca violenza mostrata. Ed il portatore di questo messaggio è il personaggio più potente, quello meglio caratterizzato, ossia Anton, il papà di Elias, che cerca di insegnare ai propri figli l’inutilità di una risposta aggressiva – sembrando ai loro occhi debole – mentre si prodiga dall’altra parte del mondo per aiutare i più bisognosi. E se pure ad un certo punto avrà qualche cedimento e le sue convinzioni sembreranno vacillare, sarà proprio perché la non violenza presuppone il dialogo e, se una delle parti in lite non vuole ascoltare, c’è ben poco da fare, se non lasciarla a se stessa, alle proprie miserie o a chi altri ha con essa un conto aperto.

Curiosità: nel ruolo del rozzo Lars che ha uno scontro con Anton e viene perciò preso di mira dai due ragazzini, innescando tutti gli eventi drammatici della seconda parte del film, è possibile riconoscere Kim Bodnia, lo spacciatore Frank del cult Pusher.

 

 

Giudizio: * * * * .

 

Christian ed Elias frequentano la stessa scuola e condividono gli stessi problemi: molestie dai compagni bulli, difficoltà di inserimento e genitori che se pur perfetti non comprendono fino in fondo il loro disagio. Il padre di Christian lavora troppo e lascia spesso il figlio da solo mentre la madre è morta di cancro da un anno. I genitori di Elias vivono un forte crisi di coppia, il padre è spesso lontano perché lavora in un campo profughi in Darfur mentre la madre, che di professione fa il medico, è in continuo conflitto con il figlio. Christian è il più determinato fra i due a farsi giustizia da solo di fronte agli abusi dei compagni e all’apatia del padre. Imboccherà una strada molto difficile che lo porterà vicino al crimine e al delitto trascinando con sé Elias. Candidato per la Danimarca agli Oscar 2011 il film è convincente, gli attori sono bravi e la regia, usando una tecnica minimalistica, incide poco lasciando ampio spazio alla recitazione e alla bellissima fotografia. Il messaggio è: la violenza è un virus e dove attecchisce distrugge senza soluzione di continuità. Purtroppo i buoni sentimenti devono spesso trionfare in film che dovrebbero essere destinati ad un finale tragico e inesorabile. E infatti in questo caso il finale toglie un po’ al ritmo serrato della narrazione chiudendosi in modo lento e inaspettato. Da vedere.

 

https://www.centraldocinema.it/Recensioni/Dic10/In%20un%20mondo%20migliore.html

 

 

 

La bellezza del somaro (24/03/2011)

 

Mi ha rovinato il ’68

Marcello (Sergio Castellitto) e Marina (Laura Morante), sono una coppia all’apparenza molto affiatata, moderna e benestante, lui architetto e lei psicologa. Hanno una figlia adolescente, Rosa (Nina Torresi) che dà loro del filo da torcere.

Durante uno spensierato weekend con gli amici nella casa di campagna in Toscana, i coniugi, sollevati dal fatto che la storia di Rosa, con un suo scapestrato coetaneo, sia finita, si preparano a conoscere il nuovo fidanzato della ragazza,  non sapendo ancora cosa (e chi) realmente li aspetta…

La bellezza del somaro è una commedia corale il cui tema è il contrasto generazionale fra dei genitori, ex sessantottini, e i figli, prodotto di una società poco propensa a comprenderli. Sin dalle prime scene si capisce di quanto si tratti di un’opera pretenziosa, volendo a tutti i costi disseminare cultura qui e là, cercando di essere netta antagonista dell’umorismo da cinepanettone. Ciò che stona è la rappresentazione, operata in maniera pedissequa, di una fascia adulta radical chic, di borghesi modaioli che parlano costantemente di rivoluzione, la rivoluzione degli ex figli di papà. Purtroppo tutto questo non è per niente voluto, ma a detta di Castellitto, si dovrebbe trattare di un film “gagliardo” e brillante, una commedia di rottura, ma che tristemente risulta essere solo una rottura!

Gli adulti,  ribattono costantemente sull’aver fatto la “rivoluzione”, le grandi lotte di impegno civile, le contestazioni studentesche, sulle quali il valore dell’opera sembra sputarci un po’ sù (ci domandiamo infatti che tipo di rivoluzione possano mai aver fatto dei personaggi che risultano così inetti nel ruolo genitoriale quanto nella vita). Mal si ritrovano all’interno di uno stridente rapporto familiare, tanto presi a sviscerare le loro nevrosi, quanto incapaci di relazionarsi a dei “pargoli” che hanno allevato come viziati eccentrici, con ben pochi valori solidi. Proprio per questo tutto risulta forzatamente comico, creando l’effetto contrario di noia e, semmai, facendo riflettere sulle aberrazioni della società. Dialoghi inverosimili che vogliono ingozzarci con la battuta intellettuale ad ogni costo, proponendo situazioni che devono essere esilaranti ma che lasciano il tempo che trovano: si respira un asfissiante finzione e lo humor ne fa le spese. Niente risulta genuino, tutto è troppo caricato e banalizzato, arricchito con citazioni ridondanti di una cultura cinematografica, artistica, letteraria in eccesso, innaturale e poco spontanea. I personaggi, che volutamente rasentano la psicosi e, involontariamente,  l’inverosimiglianza, sono scontati fatta eccezione di Marco Giallini e Gianfelice Imparato che ci regalano momenti di fresca ironia. Castellitto, eccede troppo nell’essere mattatore, finendo con lo strafare e dimostrandosi sopra le righe, alle prese con un personaggio poco simpatico. Anche la Morante non fa altro che rifare il solito ruolo che da anni recita, tanto in voga nella caratterizzazione femminile dell’ultimo decennio. Jannacci, presentato come nodo cruciale di tutto il lavoro,  nel tentativo di incarnare un guru zen che tutto ha capito della vita, mette tristezza. Nonostante le numerose impasse, è deludente accorgersi che questi protagonisti non siano poi così distanti dal vero ma, bensì, molto rappresentativi di una fascia che un tempo si è nutrita di forti slogan solo a parole. Trova qui la sua espressione quella “borghesia” tanto contestata in passato, ora evolutasi a mera ideologia, che poco tiene conto dei reali problemi sociali,  sicuramente deprecabile allo stesso modo di chi “quei fatti”, per motivi anagrafici, nemmeno li ha potuti vivere,  ma che di frasi fatte ne fa il proprio inconsistente modus vivendi.

 

Distribuito da Warner Bros. Pictures

Giudizio: **

 

Elaborazione del lutto

 

Un gelido inverno (14/04/2011)

 

Ree, una giovane ed (apparentemente) ingenua fanciulla che vive nella contea rurale di Ozark insieme ai genitori ed ai due fratellini, deve ritrovare il padre, produttore e venditore di droghe sintetiche (come le maggior parte dei suoi vicini), misteriosamente scomparso dopo essere uscito di prigione grazie ad un’ipoteca messa sulla casa. Con l’aiuto dello zio, inizialmente riluttante, la ragazza si avventura in un mondo a lei fino ad allora sconosciuto, dove gli istinti umani (di sopravvivenza) sembrano essere tornati a prevalere sulla ragione, compreso il suo, che l’ha spinta a salvaguardare gli interessi più intimi, come la sua famiglia o, almeno, quel che ne resta…

La trama, tratta dal libro di Daniel Woodrell, potrebbe ricordare quella de Il grinta, romanzo di Charles Portis e poi film di Henry Hathaway con John Wayne, vicenda riportata in questi giorni sullo schermo dai fratelli Coen: lì una ragazzina cercava vendetta per il padre assassinato, dichiarandolo davanti al suo cadavere, mentre qui un’adolescente, quasi donna, cerca materialmente il proprio genitore, vivo o morto che sia; entrambe non possono non affidarsi ad un’adulto, corroso dagli anni e, rispettivamente, dall’alcol e dalle droghe, che estenderà la caccia all’uomo anche a se stesso, nel tentativo di mettere una qualche toppa ad una vita non proprio esemplare.

La regista Debra Granik gira un horror quasi senza orrore, nel quale al massimo potrebbe esserci un solo morto – usiamo il condizionale per non rovinare la visione – ma nel quale sono già morte la pietà, la dignità e soprattutto l’adolescenza della protagonista. Tutti i personaggi sembrano essere stati presi di peso dai vari Non aprite quella porta, La casa dei 1000 corpi e relativi seguiti ed epigoni e non ci stupiremmo se ad un tratto qualcuno tirasse fuori una robusta arma da taglio ed iniziasse una strage. Nel pre-finale in effetti compare una motosega, madre dell’unico momento simil-orrorifico, ma neanche splatter, per ovvi motivi – chi vedrà capirà!

Gli attori danno il contributo fondamentale alla riuscita del film, da Jennifer Lawrence, candidata alloOscar come miglior attrice protagonista e vincitrice di numerosi altri premi per l’intepretazione di Jennifer, a John Hawkes, altro nominato all’ambita statuetta, nei panni dell’ (inizialmente) ambiguo zio Teardrop, passando per una ritrovata Sheryl Lee – la ricordate nel (non) ruolo di Laura Palmer in Twin Peaks? – e Dale Dickey, che impersona Merab, la sinistra moglie di Thump Milton, la quale avrà un ruolo decisivo nella vicenda. Ma le vere protagoniste sono le scenografie naturali di Ozark, nel Missouri sud-occidentale, in cui la pellicola è stata girata, utilizzando peraltro la versatile Red Camera. Una nota infine per il bellissimo e fin troppo eloquente titolo originale, Winter’s bone (ossa d’inverno), al quale la distribuzione italiana ha preferito il più sobrio e branaghiano/shakespeariano Un gelido inverno.

 

 

 

Giudizio: * * *½. .

 

https://www.centraldocinema.it/Recensioni/Feb11/UN%20GELIDO%20INVERNO.html

 

The Fighter (05/05/2011)

 

 

Il film di David Russel, pluricandiato a Oscar e Golden Globe, è un oggetto curioso, una sorta di docu-fiction “rocky style”. E’ la storia vera di un pugile, di una famiglia, di due fratelli e delle loro sconfitte e vittorie.

Produzione sofferta, con la rinuncia del regista destinato  Darren Aronofsky, fuggito a girare The Wrestler, e delle guest star Matt Damon e Brad Pitt.

Mark “mono espression” Wahlber fa il suo nel rappresentare un pugile in cerca di vittorie e di pace famigliare.

La pellicola è ispirata alla vita del pugile americano di origine irlandese Mickey Ward, campione nella categoria pesi leggeri, e del suo fratellastro “tossico”, pugile per un breve periodo e allenatore di Ward, Dickie Eklund. Quest’ultimo nella come fa rimarcare più volte nel film, si è scontrato con il campione del mondo degli anni ’70 Sugar Ray Leonard.

Interessante ritratto di vita famigliare made in USA, che rimanda agli stereopiti più classici dei film indipendenti.

Strepitoso C.Bale che trasforma per l’ennesima volta il suo fisico, piegandolo alle esigenze del copione. Come già gli era capitato con L’uomo senza sonno in modo mirabile. Probabile Oscar, Bale valorizza un film che ha il pugilato solo come espediente narrativo, ma ha il suo cuore nei rapporti famigliari e tra fratelli, in continua evoluzione per tutta la durata della pellicola.

Il poco prolifico regista di Three Kings, si diverte innestando elementi ironici, come da suoi modelli cinematografici.

Da vedere soprattutto per alcune interpretazioni sopra media e la capacità del regista di conquistare lo spettatore con una storia tanto semplice e scontata quanto avvincente.

Niente a che vedere con gli spettacolari eccessi di Aronofsky, quello di The Wrestler e l’eccessivo Black Swan, un trattato di psicanalisi. Freud invece in The Fighter appare solo sullo sfondo dei rapporti familiari. Con Aronofsky regista, avremmo visto probabilmente un film molto più caricaturale e ricco di eccessi e squilibri. Russel ha la saggezza, l’equilbrio e l’ironia che ricordavamo anche in Three Kings.

Beyond (26/05/2011)

 

È facile chiudere con il proprio passato sgradevole: basta una porta sbattuta dietro le spalle o un servizio sociale fin troppo efficiente che ti porta via dalla tua famiglia. Ma quei giorni a fatica dimenticati tanto più facilmente possono tornare ad affacciarsi in quell’esistenza che fino ad allora era riuscita malgrado tutto ad andare avanti. Così nella vita di Leena (Noomi Rapace) fa di nuovo capolino, ricoverata in gravi condizioni in ospedale, la madre alcolizzata Aili (Outi Mäenpää) che non vedeva da anni, da quando il padre era morto in un incidente, ubriaco, e dal momento in cui il fratello fu affidato ai servizi sociali. Anche lei ormai madre di famiglia, vedrà ora riaffacciarsi tutti i vecchi fantasmi del passato e dovrà mettere in discussione le proprie certezze…

Dismesso l’intero armamentario punk di Lisbeth Salander, dietro al quale si è nascosta in questi ultimi anni arrivando al successo internazionale con la trilogia di Millennium, la ruvida Noomi Rapace ne guadagna in fascino ed intensità tornando ai ruoli più impegnati dei film ancora precedenti, come il drammaticissimo Daisy Diamond, inedito da noi.

In compagnia del marito Ola Rapace, che qui interpreta proprio il coniuge del personaggio di Leena, la giovane attrice svedese – il cui volto da bambina è affidato all’ottima Tehilla Blad, che, guarda caso, fu pure Lisbeth fanciulla nelle pellicole tratte dai libri di Stieg Larsson – affronta questo crudo dramma famigliare che, com’è consueto per gli scandinavi, presenta ambienti domestici idilliaci per poi mostrarne lentamente il marcio e la decomposizione che matura al loro interno, dove anche una festa come il Natale può diventare un incubo: come già in Festen e nel più leggero Riunione di famiglia, entrambi di Vinterberg, e come in Dopo il matrimonio della Bier.

L’esordiente Pernilla August, volto bergmaniano ed ex-moglie del regista Bille, con mano sicura e senza mai annoiare gira un film d’autore efficace e coinvolgente, interpretato da attori di gran classe, illustrando tutti i lati oscuri del nucleo famigliare, oltre i quali è facile fuggire, ma che sono impossibili da cancellare, poiché i nostri genitori e fratelli sono al nostro interno, fanno parte di noi stessi, sono (dentro) il nostro sangue. E mai se ne andranno.

 

 

 

Giudizio: * * * . .