Recensione n.1

Jamal e Enayatullah sono due cugini pakistani che vivono a Peshawar, al confine con l’Afghanistan. La totale assenza di prospettive del campo profughi in cui sono accolti spinge la famiglia di Enayatullah a organizzare per lui un viaggio della speranza a Londra. Grazie alle ripetute insistenze del ragazzo, il sedicenne Jamal partirà al seguito. Il film si apre sulle condizioni di miseria del campo profughi e con la simbolica uccisione di una mucca, animale sacrificale, che sottolinea la drammaticità dell’esistenza di questi poveri uomini e donne. Decidono per il viaggio via terra, perché l’aereo sarebbe troppo oneroso. I due ragazzi partono seguendo le tracce dell’antica via della seta, oggi trasformatasi in autentica via crucis per i diseredati del mondo. Il primo tentativo fallisce miseramente: un controllo sull’autobus in Iran obbliga i due ragazzi, sempre più affiatati, a ritornare sulle proprie orme. Ma la disperazione è più forte delle avversità, rimettono mano al portafoglio e ripartono con non meno entusiasmo di prima. Raggiungono l’Iran in camion, con un autobus la capitale Teheran, in automobile Maku, quindi varcano a piedi le montagne e ancora in camion Istanbul. Fino al momento più delicato e rischioso del viaggio: la traversata nella stiva di un cargo per giungere al porto di Trieste. Quindi la Francia, passano il tunnel sotto la Manica nascosti fra le ruote di un camion e finalmente giungono a Londra.
Michael Winterbottom ha volutamente scelto i protagonisti del film nei campi profughi di Peshawar, cosa che lo ha costretto a ridurre all’osso la sceneggiatura, lasciando gran parte dei dialoghi all’improvvisazione dei due personaggi reali. Anche la regia, che ricalca lo stile documentaristico, si affida alla praticità e maneggevolezza di una piccola video camera digitale e all’assenza di illuminazione artificiale, rinunciando per scelta etica a qualsiasi estetica. Lo spettatore si identifica così perfettamente nella sofferenza e fatica dei due giovani protagonisti, i cui volti rimarranno scolpiti a lungo nella memoria. Il progetto originale del film risale al giugno del 2000, quando cinquantotto clandestini cinesi persero la vita stipati in un camion che li avrebbe portati all’estero. Ma neanche i tragici avvenimenti dell’11 settembre hanno fermato il regista e forse gli hanno offerto una motivazione in più a realizzare questo bel film. Il suo desiderio dichiarato è mostrare le condizioni di non vita di milioni di persone, non solo chi è perseguitato politicamente e che è oggetto di un trattamento più morbido da parte delle autorità occidentali, ma soprattutto chi è spinto dalla miseria e dall’assenza di prospettive a cercare la fortuna all’estero.
L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica a fronte di una migrazione di popoli che ha assunto ormai dimensioni epocali e che non potrà non avere ripercussioni sulla vita di ognuno di noi. Colpiscono lo spettatore anche le scene in cui i ragazzi vendono oggetti inutili, chiedendo di fatto l’elemosina, e che gli occidentali rifiutano garbatamente eppure fermamente. L’indifferenza che coinvolge noi tutti e che ci rende tutti colpevoli e complici di un traffico di persone che arricchisce la malavita e anche nostri connazionali “onesti” che speculano sulla pelle di persone che non hanno più nulla da perdere. Sapere che il giovane Jamal è ritornato in Inghilterra, che vive a Londra, dove potrà rimanere fino al giorno precedente al suo diciottesimo compleanno, ci rasserena almeno in parte. Sarebbe stato a rischio cinismo utilizzarlo anche se per un film di denuncia, utile e necessario, che scuoterà le coscienze di ognuno di noi, risvegliandoci dal torpore televisivo e mediatico in cui sembriamo essere irrimediabilmente sprofondati.

Mariella Minna

Recensione n.2

Lo sguardo senza metafora

Con Cose di questo mondo il regista Michael Winterbottom riprende da dove aveva lasciato qualche anno fa: dalla mezza delusione di Benvenuti a Sarajevo, favorito per la palma d’oro a Cannes nel ’97, e rivelatosi invece una sonora battuta d’arresto nella carriera dell’allora giovane e promettente nuovo talento inglese. Dopo una parentesi di fiction durata ben cinque anni, Winterbottom torna al cinema come strumento di ricognizione della realtà. E questa volta riesce in quello che non era riuscito nel ’97: vincere, in questo caso l’Orso d’oro al festival di Berlino. A quanto pare, ora i tempi sono maturi, da una parte per l’affermazione del documentarismo anche nelle principali manifestazioni internazionali, con l’Oscar a Bowling for Columbine di Michael Moore e l’apertura dello scorso anno di Cannes (dopo quarantasei anni) ai documentari (lo stesso Moore, La dernière lettre di Wiseman), dall’altra per riconoscere lo stile “ibrido” del docu-fiction di Winterbottom. La storia di due ragazzi afgani Jamal e Enayatullah, che dal campo profughi di Shamshatoo in Pakistan, rischiano la vita per riuscire a raggiungere la loro terra promessa, un occidente incommensurabilmente ricco rispetto allo scenario da cui i due giovani provengono e attraverso cui, in un’odissea on the road (Iran, Pakistan, Kurdistan, Turchia), fra trafficanti di uomini, clandestinità e umiliazioni, sono costretti a passare. Uno di loro ci rimetterà la pelle, mentre l’altro arriverà fino in Inghilterra, senza però la speranza di poterci rimanere a lungo. Cose di questo mondo non è un documentario in senso stretto, appartiene di più al filone del cinema semidocumentario, quello che in Francia sta vivendo una vera e propria età dell’oro (Nicolas Philibert, i Dardenne), e che Emiliano Morreale1 ha giustamente riconosciuto all’opera soprattutto nel medio oriente (Ticket to Jerusalem di Rashid Masharawi), e che ha fatto risalire, seppur nei distinguo, alla grandissima lezione del cinema iraniano (Kiarostami su tutti). Ed è proprio in questo panorama che va collocato l’ultimo film di Winterbottom, panorama dal quale, tuttavia, Cose di questo mondo si distanzia per diversi motivi. Non è un documentario in senso stretto, perché la vicenda narrata non è accaduta realmente e si basa su di una, seppur esilissima, sceneggiatura (Tony Grisoni), e utilizza “i modi e la sostanza della fiction” come direbbe Fabrizio Tassi2, ovvero un montaggio, una colonna sonora (forse la tara peggiore del film), anche se assume la realtà come mondo di referenza, cioè il mondo del film esiste anche al di fuori del film3, e la messa in scena è ridotta al minimo: gli attori non professionisti, la luce esclusivamente naturale, una troupe “leggera”, e il ricorso alla manovrabilità fisica e alla “trasparenza estetica” del video. Il film di Winterbottom non è certamente un film perfetto. Prima di tutto perché non è un film, come detto, e non raggiunge il risultato estetico che ci si aspetterebbe da un film, ma soprattutto perché non contiene quella riflessione sul cinema che sembra esser diventata la condizione necessaria e sufficiente per rendere il cinema semidocumentario “digeribile” al pubblico, ma soprattutto alla critica occidentale. Ma se non c’è più la metafora, rimane comunque uno sguardo, quello di Winterbottom, che ha il coraggio di raccontare una parte della realtà meno (ri)conosciuta di questo mondo, che accade adesso (non trent’anni fa come nel precedente vincitore della berlinese, Paul Greengrass con Bloody Sunday), e che vuole impegnare le coscienze e gli sguardi di un pubblico occidentale che troppo spesso, questa sì è ipocrisia, vuole ostinarsi a pensare e vedere quello che non ha sotto gli occhi attraverso una mistificazione che ha nel registro grottesco e nei contenuti del kitsch (East is East, Jalla Jalla) la sua essenza più genuinamente globalizzante. Da donare alla vista, perché il fine (l’impegno civile) a volte deve fare a meno dei mezzi (le forme patinate), per farsi documento (se non monumento) dei tempi.

Massimiliano Troni

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[1] MORREALE E., dall’articolo “Cinema al lavoro in Medio Oriente”, su Cineforum 423

[2] TASSI F., dall’articolo “Occhi spalancati (dal basso) sul mondo”, su Cineforum 423

[3] per una più completa introduzione alla Cinematografia Documentaria, rimando all’ottimo saggio del prof. BRUNO DE MARCHI, “I mestieri del narrare e del leggere”, Euresis Edizioni 2002