Recensione n.1

Interessante opera di Ozpetek, con superbi interpreti, e ghiotte citazioni cinefile (Rossellini di Europa 51, Pasolini,…). Formalmente bellissimo. Una storia tanto forte quanto assurda (donna imprenditrice che si redime), quello che manca al cinema italiano. Tanto coraggio, e tanto grandi argomentazioni non riescono sempre ad esprimersi in modo chiaro e coerente. La sceneggiatura in alcuni punti quindi sbanda, in altri annoia. Ma il complesso riesce incredibilmente a stare in piedi, mostrando un’energia e una padronanza dei mezzi molto rara nel nostro cinema. Bravo Ferznan! largamente superiore a tutto quanto visto al Festival di Venezia 2004 tra i lavori italiani. Voto 7

Vito Casale

Recensione n.2

“ANIME IN VIAGGIO. VERSO DOVE?”
Dopo la felice maturità narrativa e stilistica dimostrata con “La finestra di fronte”, Ferzan Ozpetek resta invischiato in quello che forse è il suo film più personale, ma anche il meno riuscito. Punta molto in alto il regista italo-turco: raccontare un percorso intimo di crescita, il cambiamento radicale di un punto di vista, la ricerca di una fede spirituale in grado di dare un senso all’esistenza. Ma l’evoluzione interiore della protagonista, da manager senza scrupoli a candidata alla santità, non trova il necessario supporto nella sceneggiatura, ridondante somma di luoghi comuni, a partire dalla contrapposizione facile, e fasulla, tra aridità della ricchezza e misticismo della povertà. Ma tutto suona falso: il rapporto con la misteriosa bambina, l’antitesi tra zia buona e zia cattiva, la laicità di un prete che pare uscito da una fiction televisiva, la prestanza fisica di un simil-barbone con ambizioni cristologiche, la sudditanza di una segretaria che passa con noncuranza dalla grande impresa alla mensa di carità. L’enfasi dei dialoghi sembra voler sempre racchiudere chissà quale significato recondito, quando il più delle volte, dietro all’effetto delle parole affiancate con calcolo, si celano imperdonabili banalità. Particolarmente brutto il monologo della pur volonterosa Michela Cescon, e con il peso dell’indottrinamento la maggior parte delle altre battute. Anche la messa in scena non sempre convince. Ozpetek conosce la grammatica del cinema e sa come coinvolgere il pubblico; si affida, nella luce di Gianfilippo Corticelli, a toni crepuscolari con squarci dorati, ma spesso si dilunga senza spessore e lascia che la musica invadente di Andrea Guerra forzi il sorgere delle emozioni. Così come non riesce mai a rendere credibile la descrizione della “nuova povertà”, i figli dell’euro che, pur senza essere barboni, non ce la fanno a far quadrare il bilancio mensile. Ad avere il sopravvento, un po’ come nell’affresco un po’ naif della comunità omosessuale ne “Le fate ignoranti”, è il tratteggio stereotipato: buoni propositi, solidarietà e un pizzico di tapineria a buon mercato. Anche il punto di arrivo lascia insoddisfatti, incerto nel dare sostanza a una fede in bilico tra santino oratoriale e totale laicità, comunque fondata sull’ennesimo senso di colpa. Ogni tanto è bello esagerare, come ci ricorda il personaggio della psicologa, uno dei pochi riusciti e intensi pur nella sua brevità, ma il regista conclude la via crucis della protagonista puntando sulla sensazione – la sequenza “francescana” nella metropolitana – senza che l’ostentato eccesso arrivi a comunicare granché. Tra l’altro, dimenticando per strada molti personaggi e parecchi spunti (ma pare che il montaggio sia stato frutto di numerosi ripensamenti). Gli attori sono la parte migliore della pellicola, dall’intensa Barbora Bobulova al carisma di Lisa Gastoni, anche se dal suo ritorno sulle scene dopo venticinque anni ci si aspettava comunque di più (anche lei vittima di scorciature in sede di montaggio). Efficace Erica Blanc, un po’ meno Camille Dugay Comencini, ma forse dipende dalle implicazioni metafisiche del ruolo che interpreta. Al riaccendersi delle luci in sala, tra palpebre calate, qualche punto interrogativo e sguardi perlopiù annoiati, l’atmosfera che si respira è di post-pasticcio d’autore. Lodevoli le intenzioni, un guazzabuglio il risultato.
VOTO: 5

Luca Baroncini de Gli Spietati

Recensione n.3

Ingannato, posseduto, imprigionato, il cuore di Irene è tutto fuorché sacro.
Giovane e avviata imprenditrice, porta sulle spalle il lascito paterno, una ricca e prosperosa azienda. Dentro di sé, più nascostamente, tiene imprigionata l’eredità materna, fardello assai più pesante. Morta trent’anni prima in circostanze misteriose, quando lei era ancora piccola, la madre Adriana è tuttora un ricordo ingombrante, che riaffiora con tutta la sua forza quando per speculazione l’antico palazzetto di famiglia viene messo in vendita. All’apertura della stanza in cui era stata rinchiusa negli ultimi tempi della sua vita, per tenerne nascosto al mondo il delirio a sfondo mistico religioso, un vero fuoco sacro che le ardeva la mente, il suo fantasma comincia ad aleggiare su tutti gli eventi, anche fuor di metafora. Irene inizia a frequentare assiduamente questo luogo della memoria, ad entrare in confidenza con quell’universo di follia da cui era stata sempre protetta. Trascorre sempre più tempo in quelle quattro mura di reclusione, completamente istoriate da scritte apparentemente incomprensibili, inneggianti in realtà a tutte le religioni, che la madre tracciava in continuazione. La riscopre, anche attraverso i suoi vestiti e le incisioni in vinile del soprano che era stata, ne viene pian piano posseduta. In questo viaggio a ritroso nel passato la accompagna Benny, piccola ladra incontrata per caso nelle vicinanze della casa. La ragazzina, enigmatica e problematica, porterà Irene a riscoprire la Sacralità del proprio Cuore e, anche attraverso il Dolore e il Mistero, a dare nuovo senso al cammino dell’esistenza.
Di più non si può dire del nuovo racconto per immagini di Ferzan Ozpetek, senza sfregiarne il fascino di una narrazione che procede per sottrazioni, accenni sussurrati, presenze più o meno lievi, gravose quanto tangibili assenze: quasi una ghost-story.
Ben lontano da LE FATE IGNORANTI, non è ancora tornato a tracciare sempre insieme a Gianni Romoli una sceneggiatura perfetta, ma ha cristallizzato dei dialoghi brillanti, spesso fulminanti, anche quando si incamminano incautamente nei meandri della retorica. Come ne LA FINESTRA DI FRONTE, la storia, che procede sostenuta, a circa tre quarti del suo svolgimento smarrisce la direzione, fatica ad andare verso un vero obiettivo, lancia segnali che poi non raccoglie, facendo perdere allo spettatore alcuni dei fili narrativi intessuti e parte dell’interesse che era riuscito fin lì a suscitargli.

Pur se i momenti di emozionante (e facile) spettacolarità non mancano, grazie ad una padronanza tecnica eccezionale nella realizzazione di certe sequenze, la sensazione è quella di troppa carne messa al fuoco da principio. Certi temi, come quello della “nuova povertà”, restano solo abbozzati, risultando fastidiosamente inutili.
Almeno tre grossi colpi di scena, che sono anche colpi allo stomaco, sono collocati come sapiente punteggiatura a marcare inizio, culmine e fine, ma non bastano. L’ultimissima scena, appunto, che vorrebbe individuare un preciso significato negli eventi, illuminandoli di una luce diversa, suscita al massimo un sorriso sornione, non convincendo del tutto.
Di tutti i film precedenti Ozpetek mantiene una costante forte, premiante e ormai quasi unica nel cinema italiano: la solidità di un cast fatto di attori di razza, impreziosito da riscoperte che talvolta hanno il sapore della riabilitazione. Lisa Gastoni, lontana da più di un quarto di secolo dagli schermi, che aveva lasciato dopo una serie di pruriginose interpretazioni tra Zie ringraziate e Scandali orchestrati da Samperi, è ora una zia impassibile, quella di Irene, suo braccio destro e vero comandante dell’azienda famigliare, che regala – prezioso tassello del complicato racconto – uno spiraglio umano anche nella lucidità di un cinico affarismo. Un’altra zia più eterea e imperfetta, ma complementare alla sorella, è Erika Blanc, già ampiamente sdoganata prima della Gastoni, che tra i fumi di un’inguaribile follia alcolica colora i dettagli e alleggerisce l’atmosfera. Barbora Bobulova sfodera mestiere nella costruzione del personaggio principale, Irene, e nella sua inevitabile e difficile evoluzione. La giovanissima Camille Dugay Comencini incarna con autenticità la simpatica ma inquietante Benny. Nei panni di sua mamma, Michela Cescon, che già ci aveva impressionato in PRIMO AMORE di Garrone per la sua maniacale interpretazione, pur avendo qui una sola scena tutta per sé, infila d’un colpo una scarica di brividi incontrollabili sotto la pelle degli spettatori. Il custode dell’antico palazzo, Aurelio, col volto consumato del teatrante Gigi Angelillo, è un’affascinante figura di Caronte, cui è affidato anche il compito di spiegare il significato del titolo. Massimo Poggio, quasi attore feticcio di Ozpetek, è Padre Carras, il sacerdote che assisterà Irene nel suo percorso di metamorfosi e redenzione, il cui nome rimanda curiosamente, forse volutamente, a quel Padre Damien Karras, protagonista de L’ESORCISTA. Per chiudere questo lungo ma doveroso elenco, almeno una menzione meritano la Vertova, Santospago e Di Stefano.
Innamorato di Roma, città che da tanti anni lo ha adottato, Ozpetek non dimentica anche questa volta di omaggiarla, facendola sembrare ancora più bella grazie alla fotografia di Gianfilippo Corticelli. L’attenzione alle musiche come sempre non manca e, oltre ad un suggestivo brano di Piazzolla, le potenti note di Andrea Guerra ben si adagiano sulle scene, ma rischiano di diventare ridondanti, considerando che in più d’un momento richiamano troppo altri film del regista.

Paolo Dallimonti

Recensione n.4

Ferzan Ozpetek torna, e questa volta non delude.
Chiusa la non eccelsa parentesi de La finestra di fronte, il regista ne apre un’altra con Cuore sacro, e ci svela come di consueto un altro mondo, un mondo sotterraneo, nascosto allo sguardo, ma capace di sconvolgere coloro che con esso entrano in contatto. Irene Rivelli (la bravissima Barbara Bobulova) è una manager senza scrupoli che, grazie alla casuale conoscenza di una bambina, proietta se stessa verso un mondo nuovo, e verso un passato da troppo tempo ignorato. Una duplice realtà che rigenera l’immagine di Irene, mettendola in contatto profondo con le proprie radici.
Si potrebbe erroneamente considerare il film una moderna parodia dell’azione francescana, in realtà è molto di più. E’ un film che stravolge lentamente i sensi, che guida lo spettatore in un delirio attraverso la fragile psicologia della protagonista. Guardare, osservare, riflettere, ritrovare una memoria da troppo tempo perduta. Bellissime le inquadrature che mostrano ogni volta una Bobulova di spalle, che esplora una porzione nuova di quel mondo a lei e a noi sconosciuta. Realtà e irrealtà si fondono, confondono, a volte lasciano senza parole, perché si tratta di elementi irreali, fantastici, mistici, inseriti in un contesto così terribilmente vero. Ma se il cinema è poesia, non può essere che un mondo a cui è permesso tutto, in cui le leggi della razionalità scompaiono e lasciano il posto alla riflessione e all’emozione.
Bellissima l’architettura filmica, bellissime le inquadrature a 360 gradi, i primi piani invasivi, le soggettive attente all’esplorazione di quelle piccole realtà che stravolgono l’esistenza di Irene. Forse troppo eccessivi i richiami all’iconografia cristiana (come il goffo riferimento alla Pietà di Michelangelo), ma comunque inseriti all’interno di una realtà filmica in cui tutto è permesso.
Apprezzabili le scene finali, soprattutto la denudazione di Irene, che nel simboleggiare la fine della vecchia vita e l’inizio di quella nuova, rendono sublime il delirio psicologico di Irene e dello spettatore, protagonista aggiunto di un percorso emozionale verso l’ignoto. Bravo Ozpetek.
Voto 8

Endrio