RECENSIONE N.1

Palma d’Oro a Cannes, “Dancer in the dark” è il nuovo film di Lars Von Trier, che torna – dopo “Idioti” – ai toni melodrammatici de “Le onde del destino” e lo fa con una maestria tale, ma anche con un autocompiacimento esasperato, da entrare in contrasto con il suo stesso film. La protagonista è Selma (Bjork), ninfa cecoslovacca emigrata negli Stati Uniti per curare la malattia del figlio: una cecità ereditaria che le stà per cambiare la vita; sola e indifesa, vittima del Male della Terra, priva di punti di riferimento che ella stessa scarta, ed eterna sognatrice, spinta dalla musica che la aiuterà nel momento più difficile e dai suoi sogni angelici, contrappunto catartico e liberatorio all’oppressione di una vita invivibile, Selma è una nuova Bess che và incontro all’autodistruzione senza paura, ma con la speranza che i suoi sacrifici portino un valore importante in sè. Girato in digitale, è la perfetta congiuntura del nuovo – frammentato, disturbante, odioso, traballante – e del vecchio – formale, coloratissimo, controllato, virtuosistico – stile Von Trier, con un risultato che ha spiazzato molti. E’ difficile accettare questo film, la sua storia, il suo regista, le sue musiche, le sue atmosfere, ma una volta sorpassata questa fase, e assimilata ogni “regola vontrieriana”, le soddisfazioni che regala sono enormi e inspiegabilmente strazianti. Ci troviamo di fronte a qualcosa che non ha barriere artistiche in nessun senso, è un film universale che fonda le proprie radici nel sentimento umano, disintegra ogni resistenza e affonda il proprio dolore nello spettatore. Un’esperienza unica e irripetibile, che consacra Von Trier tra i grandi registi della Storia del cinema. “Dancer in the dark” è un capolavoro che ogni uomo su questa Terra dovrebbe vedere.
Orrendo il doppiaggio italiano. Assolutamente da vedere in lingua originale.

Andrea D’Emilio

RECENSIONE N.2

Selma, eroina di una tragedia Greca?
Un’interessante prospettiva di analisi

La storia di Selma,contrariamente a quanto dice chi sostiene la realtà e la possibilità della vicenda,raccoglie in sé tutta una serie di topoi (la povera immigrata,la povera immigrata cieca,il lavoro in fabbrica….) che si sedimentano sulla voluta prevedibilità dello sviluppo narrativo e dell’intreccio drammatico, eliminando, man mano che il film procede, ogni pretesa di immedesimazione (questo non preclude evidentemente il coinvolgimento). La storia, con la sua oleografia, accostata alla sospensione del reale ed all’accettazione dell’inverosimiglianza che il musical come genere richiede, fa si che proprio la prima veda crollare la propria pretesa di veridicità, di concordanza,su cui si basa la comunicazione nel vissuto.
La realtà, la cosa comunemente accettata come realtà, è un accordo tra persone, è la mediazione tra i mondi soggettivi e quanto di questi mondi può essere compreso dagli altri e ritenuto compatibile con i loro.Potrei accettare la vicenda di Selma,di per se stessa,se non ci fosse il musical, ma con il musical no. Potrebbe essere uno scadente film neorealista 🙂 Le parti cantate, con i loro riferimenti metacinematografici,mi impediscono di aderire ,di cadere,di credere nel dramma della povera ceca(ceca come originaria della Cecoslovacchia).Il musical di per se stesso non crea problemi,è puro specchio,pietra di paragone,un buffone socratico.E’ il regista che ci dice:”credi alla musica,l’orchestra sta suonando,non la senti?Il resto? vedi tu…” Poi vengono tutte quelle persone che ho sentito piangere in sala. Anch’io in certi punti mi sono commosso, era impossibile non commuoversi. E questo mi ha colpito.Partendo dalla decostruzione del reale e della matrice narrativa lo spettatore giunge ad una rapporto con quello che vede che non è possibile se non sentimentalmente, simpateticamente.Tutti gli spettatori sono obbligati a questa via. Dall’impossibilità della comunicazione,dall’impossibilità del rapporto-sintesi di tutti gli universi personali, psichici, intellettuali, l’unica cogenza avviene su di un piano istintivo,emotivamente scoperto e vulnerabile.Questa sensibilità porta a sospendere la critica,nel senso kantiano del termine,costringendo ad accettare una realtà inaccettabile per inverosimiglianza,dolore,crudeltà.Il dramma non poteva concludersi in altro modo,o meglio,su di un altro livello tonale.Alla fine del film non si pensa alla spietatezza ed alla tragicità della storia,la si è vissuta come una tragedia greca, inevitabile, catartica. E questo forse è. Lì c’erano gli dei che si trasformavano in animali per rapire le fanciulle, qui i taglialegna che si mettono a ballare. Nell’impossibilità di credere all’univocità del reale,alla sua stessa esistenza,è inevitabile costruire una simulacro di esso,basato sulla traduzione per gli altri di quanto ognuno crede di percepire di esso.

N.F.

RECENSIONI “PRO”

Il maestro Danese ci ha insegnato come si può fare cinema moderno e rivoluzionario ai giorni nostri. Una lezione di comunicazione cinematografica, di dialettica emozionale che va ricordata, che resterà , scomodamente (ma e’ proprio quello che vuole l’autore), impressa nelle gesta e nei concepimenti del futuro cinema. Inutile dire che il film va assolutamente visto e non con occhi stolti,conservatori oltre che retrogradi, ma superando sciocchi schematismi e cogliendone gli elementi RIVOLUZIONARI che sono alla base del miglior film di sempre di Lars von Trier e della Danimarca , ormai vero e proprio motore di idee e modalità filmiche (salvezza del cinema di oggi). Un primo tempo che prosegue, quasi direttamente, gli stilemi narrativi e ideologici del precedente Von Trier (Le onde del destino), ma che , fin dai primi minuti di reale e potentissimo “Dark”, sembra voler fare della “reversed” retorica tramite l’ironia al vetriolo (tipica di Von Trier), il realismo dei tempi e delle persone, la versomiglianza profondamente disturbante delle realtà ravvisata nella visione di una finzione sempre elegantissima e mai scontata. Il Musical e’ solo una scusa per poter raccogliere tanti generi e tenerli insieme con la forza e il dirompente lirismo di una cantante che fa l’ attrice per delle sue canzoni, in un connubio artistico risultato raro e completo allo stesso tempo. Ecco allora che dietro alla canonica “storia” (che brutto termine) si nascondono immensi controlli emozionali ai danni dello spettatore che si abitua facilmente all’ impatto di un film così particolare, rispondendo con interesse e religioso silenzio. Nel primo tempo si stabiliscono le regole della rottura, la base di uno sfondamento della retorica convenzionale, momenti di esposizione che culmineranno poi col primo grande momento memorabile del film (la fine del primo tempo termina che una scena da antologia, una scontro di una violenza e bellezza indicibili), che prepara il campo ad una seconda ondata (stavolta devastante e senza ritorno per lo spettatore) di potenza effettuale, esperienze audiovisive che travisano il documentarismo e la credibilità nettissima delle scene, rendendolo a tratti epico e a tratti sconvolgente, oltre che coinvolgente, quest’ultimo vero ed ultimo fine della forma usata dal genio Danese. Finalmente il video digitale ha una sua identità linguistica, una sua imponente importanza cinematografica.
Alla fine del film la sala sembrava aver assistito ad una messa solenne, tanto e tale erano il silenzio e l’ incredulità di fronte al potenza devastante dell’ ultimo quarto d’ora del film. Ho sentito gemiti di gente che piangeva, visto gente che sudava, ascoltato e distinto gente che sospirava tremando… Malesseri che ritorneranno alla memoria quando si ripenserà a quella serata al cinema, accompagnati dalla voglia di un Danese di riscrivere il cinema secondo nuove regole: le sue.

BArrYZ

Parola superflua dire che Dancer in the dark sia un capolavoro. Giusto affermare la grandezza dell’opera. Un canto di amore e di morte. Sinfonia di luci e ombre straordinaria. Una grande attrice.
“Dancer in the dark” è già una pietra miliare della storia del cinema.
Una primavera che si trasforma in autunno, un suono continuo all’ombra degli occhi socchiusi di Bjork. Von Trier è stato capace di raccontare la vita con il suo consueto stile, col la sua precisa cognizione estetica e registica del cinema. Il buon Lars ha la capacità, come nello splendido “Onde del destino” , di raccontare l’essenza del misterioso, il significato profondo dell’intera esistenza.
Un musical nel sogno di un operaia, il rumore come unica ancora di salvezza, di una miope condannata a morte. Ma la miopia è già nella vita stessa, in chi non sa ascoltare i suoni del sogno. Von Trier non si preoccupa, come sempre, della sensazione forzata, egli descrive. Il suo non è dirigere ma ondeggiare nel mondo delle immagini. Splendida fotografia, sgranature da antologia, coreografie deliziose. Von Trier è oggettivamente uno dei pochi geni viventi del cinema mondiale. A lui un lungo applauso intenso come quest’ultima opera. Un applauso forte come il canto di morte e di suoni che echeggia in una pellicola che è già nella storia. Voto: 9

FrancescoDue

Selma, (Bjork) è una ragazza della repubblica Ceca emigra negli Stati
uniti per lavorare in una fabbrica e mantenere se stessa ed il
figlio. E’ in America per mettere da parte dei soldi per far operare agli
occhi il ragazzino, ma ha dei seri problemi con la vista e teme che la
stessa cosa possa accadere a lui- Vicino a lei ci sono amici o presunti
tali: la collega Kathy (Catherine Deneuve) e il poliziotto Bill
( David Morse ); ma la vita di Selma è interamente fatta di illusioni e di
fantasia. La sua vista precaria le permette, come vuole il titolo, di
“Danzare nel buio” e i suoni, che siano quelli di una fabbrica o quelli di un treno, le permettono di immaginarsi in un musical, di inventarsi un mondo alternativo, fatto di visioni e canzoni deliziose.
Un giorno questa vita viene interrotta da un omicidio che porta Selma alla orribile petizione della galera.

Lars Von Trier, con questa sua ultima pellicola ha magicamente estratto il suo più splendido capolavoro. Difficile chiamarlo film, difficile definirlo un musical. Sarebbe più ovvio chiamarla una tragedia , una sinfonia di morte e di colori. Von Trier , come aveva già fatto ne “Le onde del destino” , cede alla protagonista lo scettro tragico di una donna esclusa. Racconta una straziante avventura, un film pieno di amore, ma denso e crudo,dimostrando grande abilità nel mischiare sogno e realismo, estetica stile “dogma”, magici colori ed inquadrature.
A mio modesto parere, questo è il Von Trier più completo. Non disdegna le rigide regole della telecamera a spalla, del fuori fuoco, dei movimenti a schiaffo. Tutte forme registiche già viste in “Idioti” o in “le onde del destino”. Ma dall’altra parte si adagia ai colori, ai suoni della natura e delle note. In parole povere è un Von Trier che si compiace, persino nelle scene più crude, cioè quelle finali. Il suo è un gioco mai retorico. Selma in carcere e il suo urlo di disperazione sono una tra le parti più belle ed indimenticabili che il cinema ci ha mai narrato.
La scelta del musical non è altro che una funzionalità estetica ed esistenziale. Estetica perché in questo modo Von Trier esce dalle etichette dogmatiche del suo cinema, ma soprattutto esistenziale perché il regista danese si espone, partecipa alla sofferenza di Selma, trovando uno spiraglio: il musical, il colore del buio, l’illusione di immaginare la propria vita.
Per questo Selma, come la Bess di “Le onde del destino” è un eroina
moderna, che sacrifica la vita in nome di un ‘illusione. Come in Bess Mc Neill c’è la “riconciliazione” con il compagno vittima di un infortunio di lavoro, nel personaggio interpretato da Bjork vi è l’eterno sacrificio tra vita e morte, tra illusione e rassegnazione.
Grazie a questo Von Trier ci ha permesso di cogliere questo aspetto
dell’esistenza, ma soprattutto ha dimostrato di essere uno dei cineasti più innovativi e più grandi del cinema mondiale.
E concedetemi l’affermazione: uno dei pochi geni viventi.

Francesco

RECENSIONI “CONTRO”

In una piccola cittadina americana degli anni ’60 Selma, immigrata dalla Cecoslovacchia, lavora giorno e notte per guadagnare il più possibile e riuscire a permettersi l’operazione che salverà la vista del figlio, compromessa da una tara genetica che sta portando anche Selma alla cecità completa. Si dice che Fellini abbia cominciato a fare brutti film per essere diventato troppo smaccatamente felliniano. Questo stesso problema lo troviamo nell’ultimo lavoro di Lars Von Trier, “Dancer in the dark”, dramma proletario con un tocco di musical (le tanto citate scene musicali in fondo sono solo 5 o 6 su un film di due ore e mezzo, un pò poco per definirlo musical tout-court). Il film é bello, ma sconta la presunzione di un regista che cerca in maniera troppo esagerata di essere se stesso, di diventare sempre più personaggio ed autore a discapito della componente passionale, che é sempre stata il suo punto di forza. Dal punto di vista concettuale e formale “Dancer in the dark” é perfetto: tutto ha un suo scopo, tutto torna. Questo però si può dire solo se si é amanti, o comunque conoscitori, del regista.
Altrimenti dallo spettatore occasionale scelte estreme come quella di riprendere le scene di ballo con predominanza di inquadrature ravvicinate (facendo perdere l’insieme della coreografia) potrebbero essere imputate ad imperizia registica, e le componenti metacinematografiche (i personaggi che parlano dei musical) potrebbero essere scambiate per facili strizzatine d’occhio. Da tutto questo esce comunque un ottimo film, con una bellissima colonna sonora semi-industriale e attori straordinari, coinvolgente ed appassionante anche se un pò troppo studiato a tavolino; non al livello comunque dei precedenti lavori del regista danese, in primis quel “Le onde del destino” di cui “Dancer in the dark” vorrebbe raggiungere l’intensità. Rosetta va in America.

Graziano Montanini

—-

Procura una strana scissione la visione del film di Lars Von Trier. Da
una parte c’é il lato razionale, che cerca di associare ad ogni evento una causa scatenante, e dall’altro quello emotivo, che segue un percorso tutto interiore di adesione alle immagini e vive il film come
un’esperienza di immedesimazione totale con il mondo della protagonista.
Se all’inizio ci si trova spaesati e si fatica un pò ad entrare nei
personaggi e nella storia, segue poi una fase quasi magica, in cui la
capacità del regista di stravolgere i generi cinematografici,
consente una partecipazione totale alla vicenda narrata. Ed entrare
nel mondo fantasioso di Selma (una Bjork che si annulla nel
personaggio interpretato) in cui la vita dovrebbe essere un musical,
diverte, stupisce ed intenerisce.
Poi, però, a mano a mano che la storia cresce, si arriva a un bivio
emotivo in cui il meccanismo rischia di incepparsi. La causa é da
ricercarsi principalmente nella sceneggiatura, che vira alla tragedia
senza motivare in modo approfondito il perché degli eventi. La
sensazione é quella di un regista che vuole incidere il dito nella
piaga dei sentimenti dello spettatore, aggiungendo dettagli sempre
più dolorosi e laceranti, ma in modo un po’ gratutito, senza che la
storia raccontata abbia le premesse per renderli plausibili. E nel
momento in cui il gioco diventa scoperto, emozionarsi e partecipare
diventa molto difficile.
Resta la grande capacità di Lars Von Trier di provocare in modo
intelligente, personale e fantasioso, applicando, pur con certe
libertà, le regole del Dogma a un genere anti-Dogma come il musical,
trasformando la Denevue in una credibile operaia (anche se il suo
personaggio appare e scompare, soprattutto nella seconda parte, in
modo poco motivato) e costruendo un personaggio femminile perfetto per la sensibilità e la fisicità della cantante Bjork (sarebbe interessante vederla in ruolo diverso). Quello che però si percepisce, se prevale il punto di vista razionale su quello emotivo, é la volontà di manipolare la buona fede cinematografica dello spettatore. E si esce dalla sala pensando che, forse, i veri sogni di Selma a occhi aperti sono tutt’altro che dogmatici, ma sfavillanti, kitsch, colorati e ritmati, proprio come quelli dei musical americani, e quello che si é visto al cinema é un esercizio di stile interessante, ma tutto sommato, nel suo tentativo di stravolgere la finzione, più finto che potente.

Luca Baroncini