Recensione n.1
Thriller metropolitano ambientato in una cupa e invernale New York, diretto con professionalità da Gary Fleder e montato con grande ritmo da Armen Minasian e William Steinkamp. Il genere viene rispettato seguendo fedelmente tutti i possibili luoghi comuni: una figlia in ostaggio, un rigido “countdown”, un uomo qualunque che si trova di colpo catapultato in un incubo, la chiave del mistero contenuta nell’inaccessibile mente di una ragazza disturbata. Funziona come puro intrattenimento, grazie al ritmo serrato dell’azione e ad una sceneggiatura che dosa con equilibrio indizi e colpi di scena, ma come spesso succede, la risoluzione del mistero concede piu’ di una licenza alla credibilita’. Del resto siamo in una grande produzione, con Michael Douglas protagonista, e le cose non possono che andare in un certo modo. Ecco quindi le psicologie dei personaggi assottigliarsi sempre piu’ per lasciare spazio allo spettacolo, a scapito, ovviamente, della plausibilita’. La tensione e’ garantita per tutta la durata del film, anche se la certezza che il nostro eroe ce la farà accompagna sempre i pensieri dello spettatore. Resta il dubbio unicamente del come, e su questo interrogativo e’ costruito tutto il film. Sempre più spesso le sceneggiature di solidi thriller creano situazioni estreme dalle quali sembra impossibile potere uscire. Questo permette di mantenere vivo l’interesse per la storia e di appassionarsi ai personaggi, ma quasi sempre la resa dei conti finale delude per improvvisa approssimazione, con il cattivo sempre piu’ distratto e con il buono che da uomo qualunque diventa uno stratega di guerra. E succede cosi’ anche in “Don’t say a word”, con un inizio cupo e teso che sfuma nel prevedibile. Alcuni momenti, pero’, come la visualizzazione del trauma subito dalla ragazza in metropolitana, colpiscono per intensita’ e abilita’ della messa in scena. Michael Douglas pare perfettamente a suo agio (anche se mentre balla cucinando toast fa un po’ ridere!) e la giovane Brittany Murphy, nonostante l’antipatica tendenza tutta hollywoodiana di standardizzare la malattia mentale con tic e mossettine, rende bene la fragilita’ del suo personaggio. Odiosa la bambina prodigio, viso da infante ed espressioni da quarantenne disillusa, e bellissima, come al solito, Famke Janssen, nell’ormai stereotipato ma sempre efficace ruolo della donna vulnerabile bloccata in un letto alla merce’ del nemico (“Il terrore corre sul filo”, con Barbara Stanwyck, docet).
Luca Baroncini
Recensione n.2
[Sono presenti svariati Spoiler e indiscrezioni sulla trama del film in oggetto: invitiamo chi non gradisce ad astenersi dalla lettura.]
Un thriller molto (troppo) ortodosso, un film che non inventa nulla ma puo’ risultare gradevole, non sono i soli banali aggettivi che si possono affibiare all’ultimo film di Gary Fleder. C’e’ dell’altro. Prima di tutto perche’ e’ ben realizzato (ma questa sarebbe un’eccezione solo da noi in Italia, non negli USA): la sceneggiatura in effetti sembra essere ben scritta, con delle trovate qua e la’ a volte davvero rimarchevoli ed altre fin troppo gia’ viste. A posteriori si potrebbe dire che questo non e’ altro che un tentativo di sintetizzare nel cinema di oggi, il mito hitchcochiano del cinema, giocato prevalentemente sulla tensione e sui meccanismi della suspense da un punto di vista psicologico (e diversamente dalle meticolose e magistrali emulazioni Depalmiane, che giocano su altri meccanismi). Ed in questo bisogna dire che molto in parte il film sembra riuscire: alcuni omaggi ci sono tutti, da Frenzy (soprattutto), a La finistra sul cortile, tutti ben interpretati e resi attuali, sia nei meccanismi che in chiave semiologica. In particolare mi sono sembrate davvero ottime alcune scene. Una, per esempio, e’ quella in cui per la prima volta vediamo la bambina malata , dove Douglas,entrando nella sua stanza, sembra andare incontro ad uno scontro fisico che ha qualcosa di soprannaturale. Una tensione micidiale, orchestrata in maniera eccellente, dove ogni momento sembra che la ragazzina stia per saltare addosso al povero dottore, per quasi sbranarlo. Bello. Un’altra scena davvero cupa e coinvolgente, e’ quando sparisce la bambina del dottore: lo spettatore, che ha già quasi capito trattarsi di un rapimento (meccanismo tipicamente hickcochiano, quello di far sapere allo spettatore cose che il protagonista non sa, ma che scoprirà con orrore da solo nel film senza che lo spettatore possa, anche volendo,aiutarlo), e’ portato a provare un vago senso di malessere, dovuta all’immedesimazione di situazioni come quella (la bambina poteva essere caduta dal balcone??).
Anche qui tanto di cappello per la resa, anche registica, di tutte queste sequenze. Molto belle anche le scene in cui la moglie di Douglas riesce a salvarsi passando da vittima a carnefice. Se però tutto l’impianto narrativo risulta intrigante (flashback, vari filoni dell’intreccio che solo verso la fine vengono uniti), molte cose lo sono molto meno. Mi riferisco a tutta la parte finale, che perde molto smalto non solo per via dell’intreccio ormai poco originale e fin troppo prevedibile, ma anche e soprattutto per il vertiginoso calo della tensione che invece si era riusciti ad ottenere nella prima parte del film. In questo modo resta un film che lascia l’amaro in bocca perche’ sa molto di occasione sprecata (in un certo senso, anche se per motivi molto diversi, mi ricorda la performance di Raimi in The Gift). D’altra parte non me la sento di bocciare in toto un film fatto da un regista che da circa 10 anni fa la gavetta televisiva, lavorando per lo piu’ per telefilm di genere. Se tra i primi lavori di Gary Fleder c’e’ un episodio di “Tales from the crypt”, non e’ di certo un caso, e anzi questo si vede molto nel suo stile registico e narrativo (nel senso che il film in molti momenti sembra virare con molta dimestichezza nel clima di un film horror, anche visivamente). Davvero, peccato.
Barryz