Scheda film
Regia: Baltasar Kormàkur
Soggetto: Jon Krakauer, tratto dal libro Into thin air di Jon Krakauer
Sceneggiatura: Simon Beaufoy e William Nicholson
Fotografia: Salvatore Totino
Montaggio: Mick Audsley e Baltasar Kormákur
Scenografie: Gary Freeman
Costumi: Guy Speranza
Musiche: Daio Marianelli
Trucco: Matteo Silvi
USA, 2015 – Drammatico – Durata: 121′
Con Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Josh Brolin, John Hawkes, Robin Wright, Micheal Kelly, Keira Knightley, Sam Worthington, Emily Watson, Elizabeth Debicki, Martin Henderson, Tom Goodman-Hill, Naoko Mori, Thomas M. Wright, Mark Derwin, Clive Standen, Ingvar Eggert Sigurosson
Distribuzione: Universal Pictures
UScita: 24 settembre 2015
La scalata dell’aria sottile in 3D postumo, firmata Kormàkur
E’ nell'”aria sottile”. Nell’ampolla di affanno e luce intorno alla cresta. Nel corrispettivo ottico del traguardo, tra campo base e picco. E’ nel tremito delle palpebre inebetite dal vuoto irto e incustodito, dei ghiacci. E’ nel gradino mancante della scala sul crepaccio senza fondo. E’ nell’intercapedine invisibile tra realtà e desiderio sublimato. E’ l’urlo soave della grande bellezza. E’ la dead zone, il limbo in cui i parametri vitali degradano e il corpo diventa scatola di latta, alla quota di un 747. In cui la semplice atavica prova del limite diventa “valico” dimensionale. Ma è anche la dead zone in cui Everest, colossal atipico e barcollante, si erge e si (ci) abbandona, lasciando ai fruitori il compito della scalata 3D (qui artificio postumo).
Tutti verso l’abbraccio della “madre dell’universo”, come la definiscono i tibetani, sinapsi in connessione con gli elementi cardine del cosmo e insieme avamposto del suo mistero. Il mantello roccioso di una verità tanto temuta quanto bramata.
Dopo i magrissimi incassi in patria americana, Everest arriva in sala in Italia (anche location per il film, in parte girato in Val Senales, Trentino, per ricreare l’ambiente delle pendici della monumentale montagna nepalese). Ispirato ad una delle più grandi assurde ecatombi dell’alpinismo (commerciale) sulla più alta vetta della Terra, la settima terribile meraviglia delle Seven Summits, avvenuta nel maggio 1996, quando due spedizioni private di scalatori non professionisti salirono, in quella che sembrava una mattina tersa, alla vetta da cui solo pochi tra loro sarebbero scesi vivi, tra gravi disattenzioni pratiche e problemi di ossigeno. Agganciando (a tratti involontariamente) il parossismo della vicenda, firma il muscolare Baltasar Kormàkur, che pure, per origini, è abituato all’immaginario del “vertical limit”, alla lotta appassionata e irrinunciabile con le equazioni impassibili della Natura, con le culle e le insidie del suo grembo. Il regista islandese, già con Contraband nella scudera Working Title , casa coproduttrice del film, si inerpica ora tra biografismi spettacolarizzabili e illusionismo dei sensi, dirigendo, montando e producendo il suo Everest.
Film fuori concorso in apertura della 72esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, coprodotto dal Breashears che in quel 1996 realizzò il celebre documentario Everest con tecnologia Imax (quella Imax che a sua volta sponsorizza il film di Kormàkur e ne ha effettuato la rimasterizzazione per la proiezione in 3D, in questo caso funzionale, adrenalinico e privo di disarmoniche sbavature anche se posticcio). Everest segue il gruppo dell’integerrimo Rob Hall (mimeticamente compenetrato Jason Clarke), esperto, saggio e prudente scalatore, sposato e in attesa della prima figlia, proprietario della società di spedizioni Adventure Consultants, e quello del suo collega bukowskiano Scott Fisher (ottimo, sebbene schiacciato nel ruolo di comprimario barbuto bevuto, Jake Gyllenhaal), fine conoscitore della montagna ma anche debilitato dalla ossessionanate competizione mercantilistica delle spedizioni. Un 10 maggio affollato quello scelto da Rob e Scott, diversamente fautori di una solidarietà e di uno spirito di intraprendenza laicamente generoso che non potrà salvarli dalle bufere della montagna.
Kormàkur scandisce accademico, tra dolly ovviamente vertiginosi, carrellate epiche e piccoli sussulti tra baratri insondabili e qualche roccia in cartongesso, la sceneggiatura farraginosa di Simon Beaufoy e William Nicholson, in cui molti dei personaggi sono lasciati al caso (non solo) meteorologico, persi in linee narrative cieche o sotto valanghe sottaciute. Diretti al portale favoloso tra divine intangibilità e un al di qua di cementato da caste, depressioni, insoddisfatte attitudini e altitudini fittizie, i personaggi (dal postino allo sherpa passando per il giornalista freelance attaccato ai lampanti disarmanti “perché” dell’esistere verso l’Essere) decidono di prostrarsi alla metamorfosi chiesta della montagna, adattarsi alla morte a 8mila metri, a perdere brandelli si sé trincerndosi in un suicidio-rinascita dentro-dietro la barriera termica violata del corpo e la cancrena subdola della mente. Tutti a contatto con un sé che deve fare rete con l’altro e trasformarsi in suo arto, occhio, cellula per sopravvivere “insieme” e avvicinarsi allo sbalordimento del “tutto”.
Avventura sportivo-mitologica tra affetti familiari e Gatorade spremuti sulla neve, ramponi affondati nel ghiaccio pericolante e addii sussurrati al satellitare, in cui il contesto sociopolitico svanisce quanto alcune intersezioni logiche della trama (che se deliberatamente ambigue infittirebbero le domande su che cosa davvero non funzionò nella spedizione del 1996), aggrovigliata in uno script goffo e spesso inadempiente, quasi mutilo. Sulla montagna lottizzata dal dio denaro e perfino dai suoi adepti di-scaricata non c’è spazio per critica/crisi etica né per la riflessione sul rovello atavico dell’Ego e della ricerca dell’oltre umano, se non per il tormento intimo, seppur non meglio specificato, se non da qualche borbottio spirante sotto le coltri di neve e carni in ipotermia terminale.
Un film che potrebbe appigliarsi alla regia, al volo catartico e tecnico nell’appuntito ventre della Terra, ma che svia sbrigativo e impacciato le svolte del pathos, sovente devastandole con gaffe incredibilmente comiche. Così piovono polpette dai crepacci, mentre alcuni muoiono e basta, senza essere rammentati e altri semplicemente crollano giù burlandosi di se stessi.
La battaglia meta-fisica del proletario Doug, l’anti-ipocrisia alcolizzata di Scott e l’ardore egoistico e solitario di Beck (i caratteri chiave del film) restano appesi alle tempeste di vento, in un’opera che trae con dedizione cronachistica sebbene romanzesca i dettagli della storia reale, dimenticandone passaggi, per illuminare sbrigativamente l’eroismo fragile dei protagonisti e la maestà incorruttibile (?) della montagna, in un popcorn movie da intrattenimento altalenante. Per una scalata senza ossigeno di riserva.
Voto: 5 e ½
Vito Casale (SP)