Vi seguiamo giorno per giorno durante il festival con recensioni e commenti di Luca Baroncini
In diretta dal Lido di Venezia
Anche per il 2014, immancabile, l’appuntamento quotidiano con una sorta di diario semiserio di quello che succede al Lido nei 10 giorni più affollati dell’anno, quelli del Festival cinematografico più importante d’Italia. Cominciamo subito con le note polemiche. Un tempo Venezia avrebbe potuto ambire a essere il festival più importante d’Europa, ultimamente, però, la decadenza dei luoghi sembra riflettere quella della manifestazione, surclassata di sicuro da Cannes, festival snob per eccellenza, esclusivo, per addetti ai lavori e invitati di lusso, ma tallonato anche da Berlino, sempre più al centro del mondo del cinema. Speriamo che questo sia l’anno della definitiva rinascita, anche se l’atmosfera di quiete che si respira al Lido nelle prime giornate lascia più presagire un’annata soft e tutt’altro che aggressiva. Vedremo nei prossimi giorni.
i primi giorni (da mercoledì 27 a venerdì 29 agosto)
Come da personale tradizione ho perso il film di apertura, Bidrman di Alejandro González Iñárritu, che pare, incredibilmente, avere messo d’accordo i più. Anche chi di solito non apprezza la grevità del regista messicano, perché si tratta non di un dramma senza speranza, ma di una commedia, sembra anche piuttosto ardita dal punto di vista tecnico (un unico “finto” piano-sequenza). Che si ripeta il copione dell’anno scorso in cui Gravity aprì Venezia per poi prenotarsi un posto di rilievo nella notte degli Oscar? Chissà! Intanto vediamo se Birdman riuscirà a conquistare qualche premio, magari per gli attori, pare che Michael Keaton ed Edward Norton siano bravissimi! Ma siamo solo agli inizi ed è un po’ presto per lanciarsi in azzardate previsioni.
Tra i film presentati è stato apprezzato The Look of Silence, il seguitodi The Act of Killing, sempre per la regia di Joshua Oppenheimer. Non sembra invece avere lasciato particolare traccia Tales, sempre in concorso, dall’Iran, per la regia di Rakhshan Banietemad. È andata meglio la giornata di venerdì con due film che sono riuscito a recuperare il giorno successivo, cioè sabato. La prima giornata al Lido è sempre un delirio di sollecitazioni, devi capire come gira il festival e inserirti in corsa. Anime nere di Francesco Munzi ha l’apparenza del tipico film di mafia, nello specifico ‘ndrangheta, mentre in realtà è più che altro un fosco dramma familiare. È uno di quei film che mentre lo guardi pensi che in pochi lo vedranno perché si pone a livello tematico in modo poco originale, però è un’opera solida e ben costruita, con un grande lavoro di scavo antropologico che cerca di riportare la verità dei luoghi e delle dinamiche (ambientazione inevitabilmente calabrese), ben recitato e costruito. Per ora, quindi, l’Italia non delude. Tiepidi gli applausi della stampa, più generosi quelli del pubblico. Succede anche con 99 Homes, il film di Ramin Bahrani con Andrew Garfield e Michael Shannon che prova a dare una forma narrativa allo scandalo economico legato ai mutui subprime, cioè i prestiti erogati a clienti definiti “ad alto rischio” che ha messo in crisi la società americana rischiando l’effetto contagio in tutto il mondo. Bahrani sa dove mettere la macchina da presa, riesce perfettamente a coinvolgere e a creare contrapposizioni forti in cui credere, però pare anche avere la verità in tasca. Il film prende infatti presto la strada dell’opera morale in cui le banche brutte e cattive si fanno gioco dei poveri correntisti, buoni e indifesi. La problematicità è quindi solo apparente e la tesi è dietro l’angolo. Uno sguardo più problematico e meno manicheo avrebbe senza dubbio aiutato a capire meglio la situazione e le ragioni dei personaggi. Ottimo, comunque, il cast che include Michael Shannon, Andrew Garfield e Laura Dern.
Raccoglie più entusiasmi del dovuto anche She’s Funny That Way, presentato Fuori Concorso, di Peter Bogdanovich, che ha il pregio di riportare in vita la commedia sofisticata in auge negli anni ‘30 e ’40 in America, ma lì si ferma. Come omaggio funziona, ma gli ingredienti non sono certo di primo pelo e le risate risentono della macchinosità della sceneggiatura. Ricco il cast (Imogen Pots, Owen Wilson, Jennifer Aniston), che pare essersi divertito molto. Fa piacere vedere in conferenza stampa un rilassato Wilson, e la mente torna al 2007, quando dovette saltare la presentazione al Lido di Il treno per il Darjeeling per un tentato suicidio in seguito, pare, a una depressione. Sembrano passati secoli, probabilmente anche a lui.
Fa scalpore, sempre Fuori Concorso, Im Keller dell’austriaco Ulrich Seidl, bizzarro documentario che indaga cosa succede nelle cantine di una galleria di personaggi decisamente sopra le righe. Sarebbe anche divertente, come sguardo dietro le apparenze, se Seidl non giudicasse i suoi personaggi trasformandoli in macchiette risibili dando vita a una discutibile galleria degli orrori. Eppure a molti ha illuminato.
Tra le cose passate senza lasciare particolare traccia anche la madrina del festival, la bella Luisa Ranieri, sicuramente professionale ma non in grado di rendersi emblema della Settima Arte, forse perché volto più televisivo che cinematografico, oppure perché legata a un cinema più commerciale che d’autore. E se fosse mai la volta di un padrino? Giusto per uscire dai cliché!
30 agosto 2014 (sabato)
Come spesso accade in tutti i festival internazionali, è nel primo week-end che si gioca il tutto per tutto. È subito necessario che del festival si parli. Impossibile recuperare terreno se il primo week-end c’è poca attenzione mediatica. Ecco quindi la consueta parata di divi. Quest’anno il sabato è la giornata di Al Pacino, mattatore assoluto con ben due film. Uno in Concorso, Manglehorn, e uno Fuori Concorso, The Humbling. Entrambi poca cosa, ma in grado, in ogni caso, di mostrare il talento indiscusso di uno dei più grandi attori americani ancora vivente. Un mito grazie a film celeberrimi interpretati nel passato ma, come spesso accade, non in grado di mantenere la stessa qualità nella scelta dei progetti nella contemporaneità. Manglehorn racconta la quotidianità di un uomo che ha perso la voglia di vivere e cerca un riscatto, ma vaga nel noto, confermando la sopravvalutazione del regista David Gordon Green, da più parti un po’ eccessivamente acclamato. In The Humbling, invece, Pacino è un attore che finisce per confondere vita e Arte perdendosi in un limbo indefinito dove i confini si assottigliano. Anche in questo caso un’idea piuttosto usurata che non trova nuova luce nel tocco di Barry Levinson. Difficilmente i due film arriveranno in sala, a meno di non trovare un distributore autolesionista, trattandosi infatti di opere destinate a sicuro insuccesso. E non per colpa del pubblico!!
Giornata piuttosto tiepida anche per quanto riguarda l’altro film in concorso, il francese Tre cuori. In regia Benoit Jacquot. Nel cast nientepopodimeno che Benoît Poelvoorde, Chiara Mastroianni, Charlotte Gainsbourg e Catherine Deneuve. Il film parte bene, creando un’atmosfera perturbante nel rapporto misterioso che si crea prima tra due sconosciuti e poi tra lo stesso uomo e la sorella della donna incontrata per caso. Il problema è che gli sviluppi non sono all’altezza delle premesse e scelgono la strada pi facile, quella della grevità gratuita, cadendo, ahimè, nel ridicolo involontario. Buone atmosfere, tracce di verità, ma incapacità di chiudere il cerchio. Più che altro culinario il contributo della Deneuve, in teoria madre chioccia e possessiva, in realtà mostrata unicamente a cucinare, servire a tavola e mangiare. Comunque eccessivi i fischi alla proiezione per la stampa. Cosa ci faccia in Concorso è il tormentone che ricorre.
Per fortuna che in Orizzonti c’è Franco Maresco con il finto/vero documentario Belluscone. Una storia siciliana.
31 agosto 2014 (domenica)
Giornata di delusioni, ma solo in parte. Cominciamo dalle cose positive. Intanto l’Italia continua il suo percorso positivo. Oggi è stato infatti il giorno di Saverio Costanzo e del suo Hungry Hearts, un film che non sembra italiano, ma ambisce a un mercato internazionale: ambientazione newyorchese fuori dai luoghi comuni della Grande Mela, due attori così agli antipodi da risultare compatibili, la nostra regina dei rapporti affettivi disfunzionali Alba Rohrwacher e il futuro divo Adam Driver (adesso dite Adam chi?, ma aspettate che esca il nuovo Guerre Stellari e vedrete), oltre a una storia in grado di captare un sentire contemporaneo. Si parla di una famiglia come tante in cui l’arrivo di un figlio, oltre a destabilizzare equilibri, porta la coppia ad allontanarsi. Lui posato e ragionevole, lei via via disturbata nello stabilire un legame morboso con il nuovo nato: impone regole ferree legate all’alimentazione, diffida dei pediatri, rifiuta le medicine, vive in simbiosi con il figlio. Un rapporto che progredisce nel patologico creando un baratro tra i genitori, sempre più incapaci di comunicare. Costanzo ogni tanto esagera con le inquarature sghembre ma non giudica i personaggi, sceglie la strada dell’horror dei sentimenti e la sua visione inquieta e pone domande. Peccato per quel finale così secco e risolutivo in mezzo a una materia magmatica e in divenire, ma all’origine c’è il romanzo ”Il bambino indaco” di Marco Franzoso. Dalle prime impressioni direi che è un film che divide, ma i sostenitori sembrano in maggioranza rispetto ai detrattori. In ogni caso l’appeal internazionale potrebbe per una volta colpire la Giuria, non sempre in grado di entrare nelle atmosfere dei film italiani, molte volte legati a un sentire locale di difficile esportazione.
Parlavamo delle delusioni. I bookmaker davano The Cut tra i favoriti per il Leone d’Oro. Tutto ciò, però, prima che il film fosse visto. Parliamo dell’ultima fatica del turco Fatih Akin, già vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2004 con La sposa turca, del premio per la migliore sceneggiatura a Cannes 2007 con Ai confini del paradiso e del Leone d’Argento con Soul Kitchen a Venezia 2009. Ogni film un premio in qualche festival. In questi cinque anni Akin ha girato il documentario Der Müll im Garten Eden, ma si è probabilmente soprattutto concentrato su un progetto davvero ambizioso: il racconto del genocidio degli Armeni del 1915. Purtroppo il film è una successione di scene madri recitate maluccio (anche il protagonista, divo in ascesa, Tahar Rahim non pare all’altezza del ruolo), didascaliche, scolastiche e pedestri, dove Storia e storie si amalgamo con evidenti forzature. Alla domanda che ho rivolto in conferenza stampa al regista sull’uso della lingua inglese (anche nei dialoghi tra armeni) è seguita una risposta un po’ seccata in cui Akin ha difeso la sua scelta (”Anche Bertolucci lo ha fatto ne L’ultimo imperatore e nessuno ha detto niente”) soprattutto per rendere il film esportabile ovunque. A proposito, pare sia già stato acquistato per l’Italia. Scelta infausta, perché si rivelerà un autogol e non appena il passaparola si scatenerà sarà un fuggi fuggi generale. Questa la sensazione a caldo, vedremo che succederà. Una cosa pare certa, però, per la prima volta Fatih Akin tornerà a casa da un festival a mani vuote.
Fuori Concorso oggi è stato il giorno dell’atteso Boxtrolls, di Anthony Stacchi e Graham Annable. Il team produttivo è Laika, lo studio di animazione statunitense che grazie ai successi di Coraline e la porta magica e ParaNorman si è ritagliato una posizione di rilievo nella produzione di film in stop-motion, ma il nuovo tuffo nel passo-uno questa volta produce più sbadigli che fascino. Sarà che l’umorismo non scatena l’empatia, che la storiellina sembra esile esile per reggere un lungometraggio, che quando si esce ci si sente più frastornati che convinti? Tra l’altro il film pare deficitario di quella trasversalità che garantisce un seguito unanime all’animazione. Qui, infatti, si rischia di spaventare i più piccini e di annoiare i grandi. Vedremo come si comporterà nelle sale. L’uscita pare sarà wide negli States.
In Orizzonti, sezione tornata un po’ anonima che finisce per sembrare un concorso di serie B, arriva Ami Canaan Mann con Jackie & Ryan. Dopo avere realizzato il thriller Le paludi della morte, dimostrando di avere appreso la lezione paterna (è figlia del mitico Michael Mann), Ami Canaan Mann prende le distanze dal cinema di genere (e forse anche dai natali illustri) per raccontare una storia piccola piccola in punta di piedi, quasi come fosse una favola. L’ambientazione è nello Utah, quindi grandi spazi e magnifici scorci, visto attraverso gli occhi di due personaggi quanto mai distanti. Lui è un moderno cantante folk che gira l’America con lo zaino sulle spalle preoccupandosi unicamente della sua musica. Lei è una donna sofisticata, in procinto di separarsi, che è tornata nella casa di famiglia con la piccola figlia scappando da New York per decidere cosa fare del proprio futuro. Li unisce la passione per la musica, perché anche lei, prima di perdere il treno giusto per il successo, era un’affermata cantante country. Che la sceneggiatura non brilli per originalità lo si capisce già dal primo incontro. Cupido prende infatti le sembianze usurate di un incidente automobilistico. Ma la Mann, anche sceneggiatrice e produttrice, non si preoccupa troppo di dare credibilità agli snodi e ciò che sembra premerle è soprattutto la capacità dei personaggi di dare una svolta al proprio destino seguendo un imprescindibile sentire. La regista dimostra sensibilità nel connotare i luoghi, permeando l’atmosfera con sonorità folk che ben si addicono al contesto rurale in cui si muovono i personaggi. Ciò che manca, e che alla lunga acquista peso, è la totale mancanza di ombre. Lui e lei, nonostante siano agli antipodi, si incontrano, si piacciono e si amano. Tutto molto lineare e senza quei chiaroscuri che contribuiscono a dare verità all’irrazionalità che il più delle volte le scelte si portano dietro. Per tacere della presunta contingenza che bussa alla porta della protagonista, che piange miseria ed è “costretta” a vendere i gioielli per pagare l’avvocato divorzista quando poi si scopre possedere un appartamento a New York ai piedi dell’Empire State Building. Aspetti pragmatici che inficiano non poco la credibilità della liason, per carità, carina e piacevole come i due protagonisti, ma priva di carne e sangue. Come il lieto fine, fino all’ultimo solo sfiorato e invece necessario perché la svolta di vita dei personaggi diventi non solo nutriente, ma anche vincente. Non c’è che dire, al di là della pacatezza della confezione, molto rough american style.
Giornata davvero serrata Più vuoti che pieni, ma anche questo fa parte delle emozioni da festival. Da domani comincerà il fuggi fuggi della stampa internazionale per raggiungere Toronto, dove comincerà uno dei festival più importanti del Nord America, e del mondo, a partire dal 4 settembre. Solita coincidenza infausta con le date veneziane, ormai un classico. Ma ora, dopo tante immagini, la retina chiede a gran voce riposo.
1 settembre 2014 (lunedì)
Oggi tutta l’attenzione è per il nuovo film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato alla figura di Giacomo Leopardi. L’attesa è quasi spasmodica dopo che Noi credevamo è stato celebrato dalla critica ma non premiato quando fu presentato a Venezia. L’allora presidente di Giura, Quentin Tarantino, dichiarò di non avere capito il film. E come dargli torto, aggiungo io. Non facile districarsi nel Risorgimento, con le coordinate lanciate da Martone, per un italiano, figurarsi per uno straniero. Con la nuova opera, Martone si mantiene fedele al suo stile teatral/televisivo. Reazione più che positiva alla proiezione per la stampa, conferenza stampa di lodi, e un’uscita strategica già posizionata dalla 01 Distribution per il 16 ottobre. Che dire del film, essendo una mosca bianca prometto di ripensarci, ma mi è sembrato non particolarmente riuscito, soprattutto a livello visivo. Nemmeno l’interpretazione del volenteroso Elio Germano coglie nel segno, non riuscendo a evitare in più occasioni la caricatura. Ciò che resta impresso sono i versi di Leopardi, ma della loro bellezza e potenza già si sapeva. Ripeto, essendo in netta minoranza, mi riservo la facoltà di ripensarci, anche se la prima impressione suggerisce di smussare, e di parecchio, i superlativi.
Ma oggi è anche la giornata di Lars von Trier e di Frances McDormand, due pesi massimi del cinema mondiale.
Il regista danese, grande assente dalle conferenze stampe, dopo che a Cannes venne dichiarato persona non gradita in seguito alle sue dichiarazioni considerate antisemite, interviene telefonicamente e affida l’interpretazione delle sue parole a Stellan Skarsgård. Come al solito si fa beffe di tutto e di tutti. L’occasione è la presentazione di Nymphomaniac volume 2 in versione integrale. Come sicuramente sapete, nelle sale è uscita, sia per il primo che per il secondo volume, una versione tagliata (autorizzata da Lars, però), mentre ai festival internazionali più prestigiosi è stata riservata la versione integrale. Si è cominciato a Berlino con il volume 1 e si prosegue ora a Venezia con l’ultimo capitolo. Beffardo che protagonista indiscussa della passerella al Palagalileo sia stata Uma Thurman, a Venezia per altri motivi e subito reclutata, in assenza di star, per accendere i riflettori sul festival. Pioggia di applausi e pubblico, quindi, per una star che ha un breve ma significativo monologo nella prima parte, ma nella seconda non compare proprio. L’esperienza integrale del secondo capitolo riserva comunque parecchie sorprese. Oltre a sequenze più esplicite nei contenuti sessuali, c’è un aborto autopraticatosi dalla protagonista davvero disturbante. Ne è una riprova il fuggi fuggi del pubblico davanti a scene davvero difficili da sopportare. Un film che si conferma da non perdere, in grado di dire tante cose, non solo sulla sessualità, ma anche su arte, religione, storia, quotidianità, insomma, sulla vita. Peccato per il finale, che banalizza un po’ il tutto. Meglio, comunque, e più perturbante, il secondo capitolo rispetto al primo, probabilmente anche a causa della presenza di Charlotte Gainsburg, ormai icona della disfunzionalità affettiva. Stacy Martin è graziosa ma niente di più. Non ha il carisma della Gainsbourg e il distacco del suo personaggio non pone interrogativi ma pare più che altro un limite espressivo. Debuttare con un ruolo così controverso è comunque senza dubbio un buon biglietto da visita per una brillante carriera. Vedremo se la giovane promessa diventerà star.
Dopo la full immersione nella vita di Joe (ghiotta anche l’opportunità di recuperare pure il primo capitolo), un’altra full immersion, di quelle che finiscono per coinvolgerti e confonderti, facendoti dubitare di essere ancora nella tua vita. È infatti il momento della grande Frances McDormand, a Venezia per ritirare il Personal Tribute to Visionary Talent Award e presentare l’anteprima mondiale di Olive Kitteridge, miniserie televisiva in quattro parti per circa quattro ore di visione. L’origine è l’omonimo romanzo del 2008 di Elizabeth Strout. Attraverso il racconto di una vita qualunque, un’insegnate di matematica sposata a un farmacista in una piccola cittadina del Maine, il film ambisce a farsi emblema di tutte le vite, con le difficoltà, le gioie, le rabbie, i lutti, gli entusiasmi, le disillusioni, le rinunce, gli sgomenti e i piccoli momenti di felicità. E ci riesce. Per quattro ore, infatti, si è testimoni di un personaggio con cui non è sempre facile empatizzare perché dotato di una forte personalità e di un brutto carattere. Ma mantenersi alla giusta distanza aiuta a restare lucidi senza perdersi nel melodramma. Mi ha ricordato, forse per il flashforward iniziale, le casalinghe disperate di Wisteria Lane. Da non perdere.
Ed è con il cuore gonfio e tante emozioni da sedimentare che la giornata finisce. Un lunedì davvero vario e interessante. Pochi film, ma in grado di imprimersi nella memoria. Martone a parte, già dimenticato.
2 settembre 2014 (martedì)
Arrivati a martedì ormai appare chiaro. Venezia ha perso non tanto il fascino, quello è impossibile, ma un po’ di prestigio. Poca gente in giro, alla sera il deserto. Anche all’hotel Excelsior, fulcro del passeggio e vetrina obbligata per chi capita al Lido, alla sera è un mortorio. Non aiuta il clima, un po’ rigido per il periodo. Soprattutto nelle sale, in cui l’aria condizionata sparata al massimo sta già causando i primi malanni ai festivalieri. I tipici colpi di tosse sono già nell’aria e fanno da colonna sonora alla poetica sigla di apertura del Festival disegnata da Simone Massi. Ma veniamo alla giornata odierna, in cui cercherò di seguire un percorso trasversale.
Si comincia con un titolo che piacerebe a Lina Wertmüller, perché chilometrico: En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron (A Pigeon Sat On A Branch Reflecting On Existence), per la regia dello svedese Roy Andersson. Terza parte della “Trilogia vivente”, cominciata nel 2000 con Canzoni del secondo piano, vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes, e proseguita nel 2007 con You, the Living, vincitore del Nordic Council Film Prize, il terzo e conclusivo capitolo colpisce come elogio del paradosso attraverso contrasti irresistibili. In ogni sequenza, e sono 39 i piani sequenza che compongono la narrazione, c’è qualcosa che stride, un gesso sulla lavagna dei luoghi comuni, una piacevole, calcolatissima, follia, un caos studiato a tavolino. La trama è secondaria, anche se c’è (vedi sotto), ciò che colpisce è lo stile beffardo e irrisorio con cui la vita, le sue gioie e le sue meschinità, vengono irrise e celebrate. Si ride di gusto, anche amaro, e la taverniera Lola la zoppa è già entrata nell’immaginario dei festivalieri. Vedremo cosa ne penserà la Giuria.
Trama:
In un non precisato paesaggio occidentale, un venditore e un ritardato mentale intraprendono un viaggio. Un percorso fatto di incontri e situazioni inaspettate, che diventano strumento per offrire un punto di vista originale sulla società attuale, caratterizzata dalla supremazia della vanità. Il film è stato descritto dall’autore stesso come un mix di tre romanzi classici: Don Chisciotte di Cervantes, Uomini e topi di John Steinbeck e Delitto e castigo di Dostoevskij.
Fuori Concorso è stata poi la volta di Hwajang (Revivre), di un autore che non conosco e di cui ho sentito dire un gran bene. Im Kwon-taek non è molto noto agli spettatori italiani (poche le sue opere arrivate a noi, tra cui Ebbro di donne e di pittura), ma è regista molto prolifico (103 film in 78 anni) in Sud Corea, sua terra natia, dove è passato dal cinema prettamente commerciale ad opere più intime e meno inclini al mero compiacimento dei gusti del pubblico. Hwajang risente di questa doppia anima perché registra con professionalità le dinamiche del mondo del lavoro in una grande azienda, improntate alla competitività, spruzza di commedia dissidi e tensioni, ma si sofferma con sensibilità sui non detti e dettaglia senza edulcorazioni le conseguenze della malattia nella moglie del protagonista. Una donna come tante, in una famiglia benestante come tante, che si trova costretta da un male incurabile a seguire il protocollo di cure devastanti che le rendono gli ultimi quattro anni di vita un calvario. Il film adotta il punto di vista del marito, uomo coscienzioso, dirigente dalle molte responsabilità, ma anche compagno di vita premuroso e fedele, eppure distaccato, come se l’amore avesse preso altre strade. È una nuova collega di lavoro, giovane e molto bella, ad accendere le sue fantasie, smuovendo sensazioni probabilmente sepolte da strati di consunta quotidianità. Tutto resta nell’ambito puramente mentale e anzi, non appena il concreto bussa alla porta, il senso di colpa, unito a problemi fisici (qualche inconveniente alla prostata) e forse anche alle difficoltà di accettare psicologicamente un cambiamento, allontanano qualunque possibilità di appagamento. Il film registra i moti dell’animo con linearità, acuendo i contrasti tra il sentire del protagonista, l’attrazione costantemente negata, e la contingenza del presente, soffermandosi sui dettagli più penosi della malattia della moglie. Non si capisce se per dare vigore al suo senso di colpa o sottolineare il suo bisogno di spensieratezza. L’incedere è pacato, senza particolari picchi e, se da una parte ha il pregio di affidarsi alle immagini per trasmettere l’interiorità dei personaggi, dall’altra non osa granché limitandosi a girare intorno allo stesso interrogativo per tutto il film. Interrogativo la cui irremovibile risposta finale lascia più stupiti che soddisfatti.
Probabilmente per meglio comprendere l’opera occorre collocarla nei luoghi in cui è ambientata, dove alcuni codici comportamentali possono risultare poco comprensibili al pubblico occidentale.
Dopo il Nord Europa e la Corea del Sud si torna a casa con I nostri ragazzi, che Ivano De Matteo trae dal romanzo “La cena” di Herman Koch. Un libro che sembra scritto per una piece teatrale, ma che ben si adatta anche alla dimensione cinematografica. De Matteo adatta la storia perdendo la scansione prevista nel libro, tutto ambientato durante una cena, dall’antipasto al dolce. Peccato perché il ritmo dato dalla successione delle portate all’incalzare del racconto era piuttosto originale. Nonostante ciò, e altri cambiamenti (le professioni dei protagonisti, il sesso degli adolescenti), il film di De Matteo resta tutto sommato fedele allo spirito del romanzo: un’invettiva contro la perdita di valori della contemporaneità, dove il vuoto degli adulti si riflette in quello dei figli. Un film che rende inevitabile il dibattito a posteriori, ma che De Matteo riesce a contenere grazie all’efficacia delle contrapposizioni. Peccato per quel didascalico prologo iniziale. Nel cast Alessandro Gassmann e Barbora Bobulova sono meglio di Luigi Lo Cascio (un po’ troppo declamante ed esagitato) e Giovanna Mezzogiorno (ormai del tutto priva di allure).
E per concludere la giornata, cosa c’è meglio di un documentario su un regista celeberrimo come Robert Altman? Il canadese Ron Mann non osa più di tanto, a partire dal titolo (l’essenziale Altman), ma ha il dono della sintesi e la capacità, non scontata, di far rivivere un autore attraverso le sue opere e gli artisti che hanno collaborato con lui. Un piacevole e istruttivo excursus per capire il significativo dell’aggettivo “altmaniano”. E se ti dedicano un aggettivo, un segno lo hai per forza lasciato. Con l’eco di titoli immortali (Nashville, America oggi, I protagonisti, Gosford Park), vado a letto felice.
3 settembre 2014 (mercoledì
Ormai siamo ben oltre il giro di boa e, nonostante ancora qualche freccia da scagliare, si può dire che il più è fatto. Che dire, un festival, soprattutto in un luogo magico come Venezia, è un dono prezioso da non dare per scontato, però l’annata non è delle migliori. Certo, fra tante immagini qualcosa resta, ma sono lontani i tempi in cui il Leone d’Oro andava ex aequo ad America oggi e Film blu (era il 1993). In questa edizione è già difficile trovare un titolo papabile…e purtroppo non ho visto Birdman, che da quel che sento è il migliore proposto finora. Ma andiamo avanti con la giornata odierna. Ad aprire gli schermi per il Concorso è Sivas, ambientato in Anatolia e diretto dal turco Kaan Mujdeci. Questa la sinossi, come da catalogo:
In un villaggio nell’Anatolia, Sivas racconta la storia di un ragazzino di undici anni, Aslan, e di un cane da combattimento acciaccato, Sivas. Tra loro si sviluppa un legame dopo che Aslan trova Sivas abbandonato e ferito in un fosso. Uno spettacolo scolastico di Biancaneve e i sette nani fa da sfondo alla storia: Aslan è molto deluso per aver perso il suo ruolo di principe contro Osman, suo rivale in amore nonché figlio del capo del villaggio. Mentre Osman cerca di conquistare Ayse, la “principessa” del villaggio, Aslan cerca di impressionarla con il suo nuovo amico, Sivas. Il cane nel frattempo ha trovato una casa e inizia a vincere un combattimento dopo l’altro.
E questo il commento del regista, sempre dal catalogo;
Sivas è figlio di se stesso, un film che si genera lentamente, mentre si svolge. Si potrebbe definire un film dotato di una grammatica cinematografica sperimentale. Tuttavia, il mio scopo non è quello di una sperimentazione fine a se stessa, ma di tentare di rispecchiare fedelmente la vivacità della vita nell’Anatolia rurale. Probabilmente, l’immagine stereotipata che si ha della campagna in Turchia, o nel resto nel mondo, è quella di un ambiente statico, che non cambia, diversamente da quanto accade, ad esempio, in città. Le immagini “artificiali” dei film che rappresentano la vita nei villaggi mostrano degli insediamenti presumibilmente “sonnolenti”, con un personaggio che non vede l’ora di andarsene. Con Sivas volevo evitare questo cliché. Sivas è un film sul carattere e la vita in continua evoluzione di un ragazzino e di un piccolo villaggio. Ho volutamente tenuto bassa la posta in gioco: non c’è un amore epico o una lotta epica o le solite cose che vediamo nei film che riguardano la vita rurale anatolica. Sivas non cattura, ma lascia volentieri che i suoi personaggi principali, interpretati da attori non professionisti, e la sua ambientazione naturale si sviluppino liberamente, restando allo stesso tempo saldamente ancorato alla sua trama.
Ovviamente l’opera deve gran parte della sua resa alla spontaneità del giovane protagonista, in giro per il Lido con sorrisi e pugni trionfanti in aria ad ogni flash, ma se si apprezza l’approccio antropologico, volto a trovare un’anima nei luoghi e nelle usanze locali, si deve riscontrare anche una certa furbizia nel proporre due elementi, il bambino e l’animale, di facile presa nei confronti del pubblico, anche se scafato come quello dei festival. Siamo ancora dalle parti del neorealismo, ma in terra turca. Molti già parlano di premi. Troppa grazia, direi.
Altro film passato oggi in concorso è Le Dernier Coup De Marteau della francese Alix Delaporte. Questa la trama, da catalogo:
Camargue. Victor, ragazzo di quattordici anni, abita con la madre in una comunità limitrofa a quella dei gitani. Quando entra per la prima volta al teatro dell’Opera di Montpellier non sa nulla di musica classica. Né sa nulla riguardo suo padre, Samuel Rovinski, che si trova lì per dirigere la 6° sinfonia di Mahler. Per cambiare il corso del suo futuro, improvvisamente incerto, per sua madre Nadia, per Luna, la ragazza di cui si è innamorato, Victor decide di uscire dall’ombra e di trarre il meglio dalle opportunità che ha trovato sul suo cammino.
E questo il commento della regista:
Nei miei film non ci sono molti dialoghi. Non è un obiettivo che mi sono posta, semplicemente avviene così. Non si tratta di silenzio ma piuttosto di un terreno vergine. Proprio come Victor che sta per diventare quattordicenne. Con lui volevo sentire l’assenza di un padre e la paura di perdere una madre. Volevo scoprire con lui la musica classica e immergerlo in un’orchestra nel mezzo delle prove. Ma quello che più mi interessava era portare questo ragazzo a provare la sua prima emozione artistica.
Un’opera diretta con sensibilità e capace di arrivare dritta al cuore senza cedere a toni lacrimevoli, con attori in stato di grazia e atmosfere, silenzi, non detti, sguardi, molto comunicativi. Forse uno dei film più riusciti visti finora. Qualche dubbio solo sulla sua presenza in Concorso, perché piuttosto convenzionale sia nella forma che nei contenuti, anche se i sentimenti sono universali e la capacità di metterli in scena non è mai da dare per scontata. Una scommessa, quella della Delaporte, decisamente vinta.
Per quanto riguarda le altre opere incontrate durante questo mercoledì, inciampo in Nobi di Shinya Tsukamoto, per alcuni la sua opera definitiva, per me il suo ennesimo delirio, qui in versione war-movie, decisamente bollito. Schivo La trattativa di Sabina Guzzanti e resto conquistato da Laurent Cantet e dal suo Retour à l’Ithaque, non in Concorso ma nelle Giornate degli Autori. Una terrazza a Cuba, a pochi passi dal Malecòn, il celebre lungomare di L’Avana, cinque amici che si ritrovano dopo tanti anni, e molta, moltissima, vita. Una sorta di “grande freddo” in salsa cubana che deve tanto agli interpreti straordinari e alla sensibilità di un regista curioso e inafferrabile, capace di cogliere i non detti, evitare le didascalie, arrivare dritto all’essenza dei personaggi, al loro sentire, dolente, nostalgico, cinico, disilluso, ma anche vitale. Un teatro en plein air che supera le barriere di unità di tempo e spazio grazie a una regia in punta di piedi che sa come valorizzare i dettagli e curare la progressione. Un film da non perdere che non avrebbe sfigurato in Concorso e che evidenzia la versatilità di un regista fuori da schemi ed etichette e di una sezione, Giornate degli autori appunto, in grado come ogni anno di proporre chicche degne di nota. In Italia Retour à l’Ithaque dovrebbe arrivare nelle sale tra novembre e dicembre.
4 settembre 2014 (giovedì)
C’è grande attesa per Abel Ferrara e il suo Pasolini. Il problema, da ciò che ho avuto modo di sentire in giro in questi giorni, è che ognuno pare avere già chiaro in testa il film che vedrà. I detrattori si atteggiano da detrattori e gli entusiasti da entusiasti. Avrà il film la forza per scardinare preconcetti e concetti sedimentati perché confermati film dopo film? La risposta a tra poco…
…visto Pasolini. Un’unica certezza: preconcetti e concetti sedimentati resteranno tali. Il film, infatti, non ha la forza per scardinare alcunché. Vada non scegliere la strada del classico biopic, evitando quindi il realismo e trasformando il film in un contenitore pseudo onirico di suggestioni, ma il risultato vaga senza ispirazione inanellando episodi che inciampano in gag risapute, o banali, o prive di alcun mordente e valore aggiunto rispetto al noto. Giudizio un po’ drastico, me ne rendo conto, come sempre rivedibile a freddo, quando il nulla arrivatomi stempererà nel ricordo, o nel vuoto totale. Ancora una volta sarà il tempo a far capire il valore dell’opera. Per ora siamo dalle parti del ”No, grazie!”. La sceneggiatura prova a fondere i fatti dell’ultimo giorno di vita di Pasolini, quindi la mera cronaca, con i progetti lasciati incompiuti (il romanzo “Petrolio” e il film “Porno – Teo – Kolossal”, entrambi incompiuti) e i pensieri dell’uomo, ma l’effetto recita scolastica non abbandona mai la messa in scena. Lo stesso protagonista Willem Dafoe ha carisma e riesce a dare credibilità a un ruolo difficile, ma non evita la sensazione di carnevalata. L’aderenza fisica, infatti, non diventa mai verità, interpretazione, suggestione, catarsi. Unica eccezione Maria de Medeiros negli improbabili panni di Laura Betti, ma la de Medeiros sarebbe credibile anche nel ruolo di un posacenere.
Dopo la delusione di Abel Ferrara, da tempo incompreso, o incomprensibile a seconda dei pareri, la giornata continua a non brillare.
Non ha convinto Michael Almereyda con Cymbeline, proposto in Orizzonti, ennesima rivisitazione di un testo di Shakespeare. Questa volta tocca appunto a Cymbeline, opera del drammaturgo inglese considerata minore, o semplicemente meno nota. Nella trasposizione operata da Almereyda si adotta la strategia (sai che novità!) di attualizzare. La vicenda è infatti ambientata nell’America dei nostri giorni. Ecco la trama nel dettaglio, come da catalogo:
La giovane figlia del leader di una gang decide di disobbedire al padre e sposare l’uomo che ama. Ma il padre non si dà per vinto e costringe la figlia a divorziare: l’uomo amato dalla ragazza partirà per l’esilio mentre lei rimarrà reclusa nelle sue stanze finché non si deciderà a sposare il prescelto del padre.
Dopo 14 anni da Hamlet 2000, Almereyda ed Ethan Hawk tornano a lavorare insieme, ma l’occasione non permette al testo di trovare nuova linfa nella modernizzazione e il contrasto si limita a stridere. Perde presto vigore il dramma, risultano spaesati gli attori, le scene madri non sortiscono alcun effetto e il pasticcio domina sull’ensemble.
Non convince neanche l’infaticabile James Franco, Fuori Concorso con The Sound and the Fury, adattamento dell’omonimo romanzo di nientepopodimeno che William Faulkner. Per molti opera intraducibile a causa della struttura labirintica e complessa. Franco si approccia alla materia in modo sperimentale, mantendosi fedele al testo di origine e mostrando la prospettiva al racconto dal punto di vista, differente e non lineare, dei diversi protagonisti. Un’opera, quindi, non facile da seguire e James Franco non riesce a sciogliere la complessità, ma in essa resta intrappolato. Discutibile, poi, la scelta di Franco di non limitarsi alla regia, ma di interpreatre anche uno dei fratelli, ruolo che occupa interamente il primo, eterno. Una scelta che pare sottintendere un forte narcisismo, evidente nel contrasto tra il divo, bello e impossibile, e il ruolo del fratello handicappato, abbruttitto, sgradevole e, diciamolo, decisamente calcato. Un compiacimento che non può non saltare all’occhio e inquinare la credibilità della messa in scena. Il film ha comunque trovato estimatori, forse abbagliati dalla difficoltà del testo di origine.
Il ”delusion day” si conclude con Burying the Ex, in teoria omaggio di Joe Dante a tutto ciò che ama, citando classici e meno classici e mostrando la sua passione per tutte le declinazioni dell’horror e per i B-Movie, in realtà, però, operina piuttosto modesta che esaurisce presto nello scherzetto e niente più la sua ipotetica carica eversiva. Anche il divertimento non è granché. Particolarmente favorevole il pubblico, quasi estasiato da un film finalmente di genere, dalla presenza della sex bomb Alexandra Daddario, dall’ironia sottesa al progetto, dalla disamina caustica del rapporto di coppia. Tutto apprezzabile, ma più nelle intenzioni che durante la visione. Non si va oltre la nostalgia e l’omaggio, di idee nuove, o anche vecchie ma affrontate con originalità, nemmeno l’ombra. Deboli anche le interpretazioni. Difficile che esca nelle sale. Lo immagino già nel cestone delle offerte di un ipermercato di periferia.
Con Joe Dante si conclude una giornata di ”molto fumo e poco arrosto”. Ma, come dice e continuerà a dire per sempre Rossella O’ Hara, ”domani è un altro giorno!” e siamo sicuri che sarà cinematograficamente migliore di oggi!! Sperem!
5 settembre 2014 (venerdì)
Siamo al giorno prima del verdetto della Giuria. Ne parliamo ormai da una settimana e non l’abbiamo ancora presentata. Anzi, le abbiamo presentate. Perché di giurie ce ne sono varie. Ecco quindi giunto il momento di chiarirne una volta per tutte la composizione, pardon, le composizioni:
il Concorso ufficiale è presieduto dal compositore Alexandre Desplat che dovrà decidere i premi più prestigiosi insiema a Joan Chen, Philip Gröning, Jessica Hausner, Jhumpa Lahiri, Sandy Powell, Tim Roth, Elia Suleiman e Carlo Verdone.
Riuscirà il nostro Carlo a convincere la giuria nei confronti di qualche opera italiana? Le premesse sembrano buone perché tutti i film italiani hanno in un modo o nell’altro colpito favorevolmente e nessuno è stato criticato per il suo inserimento in Concorso. Difficile che la spunti Il giovane favoloso, Martone non ha l’ampio respiro in grado di mettere d’accordo una platea ampia e geograficamente diversificata. Anime nere ha il problema di trattare un argomento arci-noto, ma a ben vedere è più un dramma familiare che una storia di mafia, comunque sia è opera solida e coinvolgente. Hungry Hearts gode di uno sguardo più internazionale, e non solo per l’ambientazione americana, però la dimensione intimista potrebbe penalizzarlo.
Tra gli altri film, pochi superlativi in una selezione stritolata da troppi festival in concorrenza l’uno con l’altro. Pochi gli assi nella manica di Barbera, ma ben giocati. Birdman in apertura è stato un colpaccio e potrebbe essere il film che mette d’accordo tutti (mannaggia averlo perso). Roy Andersson con il suo ”piccione” qualche premio lo conquista senz’altro, se non altro per il rigore della messa in scena e l’originalità dello sguardo. In mezzo a tanti film tiepidi si distingue anche Le dernier coup de marteau, sensibile nel trattare un tema sentimentale abbastanza usurato (ma quale tematica non lo è?) senza cadere nello stucchevole. Qualche possibilità ce l’ha anche Andrei Konchalovsky con Belye Nochi Pochtalona Alekseya Tryapitsyna (The Postman’s White Nights), presentato proprio oggi e rigoroso quanto basta per colpire la giuria.
Vedremo!
Per quanto riguarda Orizzonti, sezione non particolarmente seguita che sta rischiando di perdere la propria identità sperimentale, di terreno di ricerca e scoperta, configurandosi più che altro come Concorso di serie B, la Giuria è così composta: Ann Hui (Presidente), mentre i membri sono Moran Atias, Pernilla August, David Chase, Mahamat-Saleh Haroun, Roberto Minervini e Alin Tasçiyan. Qui è più difficile fare previsioni, perché i film che ho visto sono molti meno rispetto al Concorso. In genere quando per un motivo o per l’altro un film in Concorso si perde si prova a spaziare nelle altre sezioni e tra ciò che ho visto in Orizzonti nulla mi ha particolarmente colpito.
E per ultima la Giuria Opera Prima, presieduta da Alice Rohrwacher (Presidente) e composta da Lisandro Alonso, Ron Mann, Vivian Qu e Razvan Radulescu.
Oggi, è stato, come abbiamo detto, il giorno di Andrei Konchalovsky con Belye Nochi Pochtalona Alekseya Tryapitsyna (The Postman’s White Nights). Questa la trama, come da catalogo:
In un villaggio russo dimenticato dal resto del mondo, l’unico modo per raggiungere terre abitate è quello di attraversare il lago. L’unico contatto che gli abitanti hanno con il mondo esterno è rappresentato da un postino che fa la spola. Nonostante la presenza di una base aeronautica vicina, gli abitanti dei dintorni vivono come se fossero nell’era neolitica. Non hanno governo, servizi sociali o lavori. Una donna, di cui il postino è innamorato, lascia la vita del villaggio e va a vivere in città. La barca del postino si rompe e lui non può più consegnare la posta. Il modo in cui era scandita la sua vita è rovinato. Segue la donna in città, ma dopo non molto torna al villaggio senza un reale motivo. La sceneggiatura è basata su storie vere e le persone del villaggio recitano la loro parte nel film.
E questo il commento del regista:
Negli ultimi anni ho cominciato a pensare che il cinema moderno stia cercando di liberare lo spettatore da qualsiasi forma di contemplazione. Negli ultimi anni mi sento travolto dal dubbio di aver realmente compreso l’essenza del cinema. Questo film è il mio tentativo di scoprire le possibilità alternative che si nascondono nell’immagine in movimento accompagnata dal suono. Il tentativo di vedere con gli occhi di un “neonato” il mondo che ci circonda. Il tentativo della “lettura lenta” della vita. La contemplazione è lo stato d’animo dell’uomo che si sente tutt’uno con l’universo. Forse questo film è il tentativo di affinare il mio udito per ascoltare il quieto sussurro dell’universo.
E in mattinata sono riuscito a recuperare Chuangru Zhe (Red Amnesia). Ecco la mia recensione:
Il maggiore pregio dell’opera del cinese Wang Xiaoshuai è quello di spiazzare. Inizia come una sorta di film di genere, in cui una donna anziana, nonna e madre di due figli, dopo la morte del marito comincia a ricevere telefonate anonime. Si profila all’orizzonte il thriller, la possibilità che un ladro si aggiri per quel quartiere di Pechino in cui tante persone sole condividono una mesta quotidianità. Si inserisce però anche un’altra possibilità, che la donna si sia immaginata tutto, che il lutto che sta vivendo l’abbia fatta sragionare, ma il thriller continua moderatamente a fare capolino quando anche altri sono testimoni delle telefonate. Sarebbe un peccato raccontare gli sviluppi, perché colgono nel bersaglio di cambiare completamente registro e punto di vista sulla vicenda introducendo scheletri nell’armadio che hanno origini con la Rivoluzione Culturale Cinese. Non male l’idea di affrontare una tematica politica e sociale sfiorando il genere. Tante le domande sollecitate dal racconto che lascia intendere iniquità, sacrifici e sofferenza alla base del processo di modernizzazione del paese e che si fa specchio di una società dove passato e presente convivono ma sono ancora ala ricerca di un equilibrio tra le rassicuranti certezze del passato e un futuro pieno di incognite e interrogativi. Certo, qualche lungaggine in meno avrebbe giovato, ma il film riesce comunque a dare voce a un disagio profondo senza cadere nel didascalico. Contribuisce al risultato l’interpretazione intensa di Lü Zhong, che conferisce alla protagonista tutta la fragilità e la determinazione di una donna che ha subito e inflitto la Storia senza rendersene conto più di tanto finendo in un limbo esistenziale dove il passato torna ad avere un peso nel quotidiano. Ed è questo uno degli aspetti che sembra più premere al regista: la perdita della coscienza, che da singola diventa collettiva grazie all’amplificazione offerta dal mezzo cinematografico.
Domani giornata di recuperi in attesa del verdetto.
6 settembre 2014 (sabato)
Ed ecco i premi, che hanno caratterizzato l’ultima giornata di festival.
LEONE D’ORO per il miglior film a:
EN DUVA SATT PÅ EN GREN OCH FUNDERADE PÅ TILLVARON
(A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE)
di Roy Andersson (Svezia, Germania, Norvegia, Francia)
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
Andrej Koncalovskij
per il film BELYE NOCHI POCHTALONA ALEKSEYA TRYAPITSYNA
(THE POSTMAN’S WHITE NIGHTS) – (Russia)
GRAN PREMIO DELLA GIURIA a:
THE LOOK OF SILENCE di Joshua Oppenheimer (Danimarca, Finlandia, Indonesia, Norvegia, Regno Unito)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione maschile a:
Adam Driver
nel film HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo (Italia)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione femminile a:
Alba Rohrwacher
nel film HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo (Italia)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a un giovane attore o attrice emergente a:
Romain Paul
nel film LE DERNIER COUP DE MARTEAU di Alix Delaporte (Francia)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Rakhshan Banietemad e Farid Mostafavi
per il film GHESSEHA (TALES) di Rakhshan Banietemad (Iran)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
SIVAS di Kaan Müjdeci (Turchia, Germania)
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (“LUIGI DE LAURENTIIS”) a:
COURT di Chaitanya Tamhane (India)
ORIZZONTI
nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.
PREMI ORIZZONTI
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a:
COURT di Chaitanya Tamhane (India)
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a:
Naji Abu Nowar
per THEEB (Giordania, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Regno Unito)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a:
BELLUSCONE. UNA STORIA SICILIANA
di Franco Maresco (Italia)
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE MASCHILE O FEMMINILE a:
Emir Hadžihafizbegovic
nel film TAKVA SU PRAVILA (THESE ARE THE RULES)
di Ognjen Svilicic (Croazia, Francia, Serbia, Macedonia)
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
MARYAM di Sidi Saleh (Indonesia)
VENICE SHORT FILM NOMINATION FOR THE EUROPEAN FILM AWARDS 2014 a:
PAT – LEHEM (DAILY BREAD) di Idan Hubel (Israele)
PREMI VENEZIA CLASSICI
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a:
ANIMATA RESISTENZA di Francesco Montagner e Alberto Girotto (Italia)
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a:
UNA GIORNATA PARTICOLARE di Ettore Scola (1977, Italia, Canada)
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2014 a:
Thelma Schoonmaker
Frederick Wiseman
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER AWARD 2014 a:
James Franco
PERSOL TRIBUTE TO VISIONARY TALENT AWARD 2014 a:
Frances McDormand
Poco da dire per quanto riguarda i premi. La Giuria ha salvato il salvabile. L’unico colpo di scena è stato il premio agli attori, soprattutto Adam Driver, in parte sicuramente ma non in grado di bucare lo schermo. Meglio, anche a causa del ruolo più sfaccettato, la sua compagna di schermo Alba Rohrwacher. E colpisce che Birdman sia rimasto a bocca asciutta. Si continuano a chiamare film americani di spessore per aprire la manifestazione, in modo da far parlare e ottenere risalto dalla stampa, ma li si snobba poi quando c’è da attribuire i premi. Va a finire che gli americani non vengono più. Chissà.
Si conclude nella mestizia un’annata che non resterà nella storia del festival. Ma le edizioni che fanno volume sono inevitabili. Un cambio di rotta, un aggiustamento di strategie, una selezione più forte, sono necessari per fare in modo che il festival di Venezia resti competitivo e non sia schiacciato da concorrenti meno illustri ma più astuti.
Un’ultima cosa, questa davvero inspiegabile. Che senso ha avuto consegnare due Leoni d’Oro a due personalità enormi come Thelma Schoonmaker e Frederick Wiseman senza prevedere, non dico una retrospettiva, ma almeno un assaggio del loro celebrato talento? Invece nemmeno un loro film ha seguito la cerimonia di premiazione. I misteri di Venezia.
Anche per quest’anno dal Lido è tutto. È stato come sempre interessante condividere ancora una volta questo spazio insieme a voi su Centraldocinema e l’invito è di continuare a leggere, vedere film, parlare di cinema, contagiare gli altri con il proprio entusiasmo, porsi e porre domande ascoltando le tante risposte. Buone visioni, quindi, a tutti!!
RECENSIONE LEONE D’ORO
LE PAGELLE DI VITO CASALE
NYMPHOMANIAC VOLUME I (LONG VERSION) DIRECTOR’S CUT | 9 |
NYMPHOMANIAC VOLUME II (LONG VERSION) DIRECTOR’S CUT | 9 |
OLIVE KITTERIDGE | 8 |
THE LOOK OF SILENCE | 8 |
LE DERNIER COUP DE MARTEAU | 7,5 |
EN DUVA SATT PÅ EN GREN OCH FUNDERADE PÅ TILLVARON (A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE) | 7,5 |
BELYE NOCHI POCHTALONA ALEKSEYA TRYAPITSYNA (THE POSTMAN’S WHITE NIGHTS) | 7 |
GHESSEHA (TALES) | 7 |
GOOD KILL | 7 |
I NOSTRI RAGAZZI | 7 |
ICH SEH ICH SEH (GOODNIGHT MOMMY) | 7 |
IM KELLER (IN THE BASEMENT) | 7 |
SHE’S FUNNY THAT WAY | 7 |
SIVAS | 7 |
THE CUT | 7 |
99 HOMES | 6,5 |
BURYING THE EX | 6,5 |
HEAVEN KNOWS WHAT | 6,5 |
IL GIOVANE FAVOLOSO | 6,5 |
LOIN DES HOMMES | 6,5 |
MANGLEHORN | 6,5 |
THE HUMBLING | 6,5 |
THE SOUND AND THE FURY | 6,5 |
THEEB | 6,5 |
CHUANGRU ZHE (RED AMNESIA) | 6 |
CYMBELINE | 6 |
HWAJANG (REVIVRE) | 6 |
LA ZUPPA DEL DEMONIO | 6 |
NOBI (FIRES ON THE PLAIN) | 6 |
O VELHO DO RESTELO (THE OLD MAN OF BELEM) | 6 |
SENZA NESSUNA PIETÀ | 6 |
THE SMELL OF US | 6 |
WORDS WITH GODS | 6 |
ANIME NERE | 5 |
BYPASS | 5 |
TSILI | 5 |
HUNGRY HEARTS | 4 |
PASOLINI | 4 |
3 COEURS | 2 |
MEDIA | 6,397435897 |