GIURIA

Wong Kar Wai – PRESIDENTE

Susanne Bier

Tim Robbins

Shirin Neshat

Athina Rachel Tsangari

Andreas Dresen

Ellen Kuras

 Porn in the USA

Jon Martello (Joseph Gordon-Levitt), detto “il Don” per via delle sue origini italiane e delle doti dongiovannesche, è un bel ragazzo, dedito a casa, chiesa e famiglia, che, a differenza dei suoi amici un po’ sfigati, ha pure successo con le donne: basta uno sguardo in discoteca e le fanciulle si ritrovano magicamente a letto con lui. Jon ha però un particolare: nulla lo soddisfa più del porno. Masturbarsi davanti al computer – ormai solo l’ormai famoso suono d’accensione di una celebre marca di computer glielo fa, a suo dire, diventare duro – gli offre una gamma di emozioni ineguagliabili: può vedere le donne nelle posizioni che preferisce, riesce a dominare la situazione come vuole ed in sostanza non ha nessun obbligo. Insomma, Jon nel porno si perde. Quando conosce Barbara (Scarlett Johannson), crede di aver trovato la ragazza giusta: bella, bionda e dice quasi sempre sì. Ma la scoperta del suo vizietto la farà fuggire. Sarà solo Esther (Julianne Moore), una donna matura conosciuta ad un corso serale, ad insegnarli che cosa sia veramente il sesso. E l’amore.
Joseph Gordon-Levitt, attore tra i più attivi negli ultimi anni ad Hollywood, debutta nella regia con un film molto particolare, girato in grande disinvoltura come anche in estrema libertà: linguaggio sboccato, ma nessuna volgarità pruriginosamente mostrata; montaggio velocissimo per tenere alti l’attenzione ed il ritmo della pellicola; alcuni tormentoni ad hoc, come i fazzoletti gettati nel cestino dopo ogni rendez-vous con l’agognato porno o il “rituale audio-visivo” della scintilla che scocca ogni volta con la ragazza di turno.
Il problema è che se il protagonista non sembra averne mai abbastanza dei suoi video erotici, a noi poveri spettatori, forse per invidia (?!), molto presto questa rputine viene – si perdoni il gioco di parole – a noia. Tanto più che la spregiudicatezza formale e la verve del novello regista si scontrano con una trama banale ed assai prevedibile: Jon preferisce il porno perché è “un’analfabeta sentimentale”, non volendo o non riuscendo ad impegnarsi seriamente con una ragazza in carne ed ossa. E dove troverà riscatto? Ma naturalmente in una donna più grande!
Eh no, caro Joseph, (ancora) non ci siamo: il tuo debutto dietro la macchina da presa arriva alla sufficienza solo perché per un po’ riesci ad intrattenere e perché hai avuto il gusto di ritrovare una vecchia gloria come il Tony Danza di Taxi e Casalingo superpiù nel ruolo di tuo padre e di aver riscoperto un’eccezionale Julianne Moore, che da qualche anno ha rallentato le sue apparizioni sul grande schermo. Ma per il resto il tuo Don Jon, prima di riuscire a capire come perdersi realmente nell’altro sesso, rischia di aver perso, entro lo scadere della sua ora e mezza di durata, gran parte del vostro pubblico.

Voto: 6

Vito Casale

 Prima che l’amore tramonti

Prima dovevano correre poiché stava per arrivare l’alba, poi il tramonto. Adesso l’improbabile coppia formata da Jesse (Ethan Hawke), scrittore di successo, e Celine (Julie Delpy), attivista ambientale, e benedetta registicamente da Richard Linklater, dovrà restare insieme e fare i propri bilanci entro la mezzanotte, così come sancisce il titolo, anche se la scadenza non è stavolta così ferrea.
Nato per caso nel primo film del 1995, Prima dell’alba, e sopravvissuto fino al 2004 con il secondo capitolo Prima del tramonto, con un passaggio rituale sul grande schermo ogni nove anni, ecco che anche il duo franco-americano deve affrontare il momento della crisi. In vacanza in Grecia, dopo l’Austria e la Francia, la coppia riceve da amici una notte in regalo in un lussuoso resort sul mare durante la quale, invece di lasciarsi andare, liberi dalle figlie, alla passione più frenata, si metteranno in discussione, lasciando che molti nodi vengano al pettine. Ma l’amore mai sopito e l’abilità poetica dello scrittore Jesse forse avranno l’ultima parola…
La trilogia cominciata con Prima dell’alba, che si conclude con questo Before midnight – l’unico non tradotto, forse per evitare confusione con film preesistenti – è un curioso e raro esempio di franchise non legato a fini strettamente commerciali, come invece la stragrande maggioranza delle saghe che affollano i nostri cinematografi, ma originato dalla strana e singolare alchimia che fin dall’inizio ha legato un regista dal mestiere altalenante e due attori di solido talento, i quali hanno scritto tutti assieme il copione e che mai avrebbero pensato di arrivare fin qua.
I personaggi sono cresciuti negli anni con i loro autori ed interpreti, maturando per i diciotto anni che sono trascorsi tra il primo e l’ultimo episodio ed ogni volta che sono tornati sul grande schermo era perché tutti e tre avevano effettivamente qualcosa da dire.
La dimensione, soprattutto in questo Before midnight, è profondamente teatrale, assecondata da Linklater con lunghissimi piani sequenza che cercano di non interrompere i prolissi e fulminanti dialoghi – rigorosamente non improvvisati, ma scritti nero su bianco – che la coppia si riversa, se non vomita addosso.
Destinato a deliziare i fan delle due pellicole precedenti, il film è un grazioso esempio di commedia contemporanea, che non mancherà di incuriosire anche i neofiti, procacciando così nuovi adepti che non potranno desistere dal correre a recuperare gli altri episodi. Sono aperte infine le scommesse sul quarto capitolo.

Voto: 6 e ½

Vito Casale

 RECENSIONE DISPONIBILE A BREVE

Ambientato nel XVIII secolo, “LA RELIGIOSA” racconta della sedicenne Suzanne costretta dalla sua famiglia a prendere i voti, mentre la sua aspirazione è vivere nel “mondo”.
Fra le mura del convento deve confrontarsi con l’arbitrarietà delle gerarchie ecclesiastiche: madri superiore a volte benevole, a volte crudeli o colpevoli di troppo amore…
La passione e la forza che animano Suzanne, le permettono di resistere alla barbarie del convento e perseguire il suo unico scopo: combattere con tutti i mezzi per riconquistare la sua libertà.

Voto: * * *

Vito Casale

 Elegia di un tempo che fu

Qual era la visione della Gran Bretagna nel 1945? Qual’ era lo spirito che dominava l’Inghilterra post Seconda Guerra Mondiale?
The spirit of ’45 di Ken Loach sembra volerci dare una risposta attraverso un documentario a tesi che sceglie di dar voce e volto alla working class, a coloro che, reduci dal conflitto mondiale, hanno cercato di rialzarsi e far rialzare la nazione avendo in mente il principio del “bene comune”. Quando si è perso tutto non è facile conservare la speranza, eppure gli adulti e gli anziani che ci parlano oggi sono in grado di trasmetterci quella fiammella che, tra le macerie, gli ha permesso di ripartire.
Il regista di Riff Raff – Meglio perderli che trovarli(*) esplicita il taglio scelto sin dai primi minuti, manifesta il suo non essere neutrale – e in fondo non è una novità che Loach sia schierato a sinistra, non si nasconde e si prende le responsabilità delle proprie scelte.
Montando filmati d’archivio e registrazioni sonore con interviste contemporanee, The spirit of ’45 acquista uniformità grazie anche alla scelta fotografica di un bianco e nero storicizzante, funzionale nel far da ponte tra il passato e l’oggi. La parola è in bocca a ex minatori, ferrovieri, medici di base, infermieri, economisti e non solo, quasi tutti attivisti politici, quasi tutti hanno vissuto la povertà degli Anni ’30, sono stati storditi dal rumore delle bombe, hanno visto le case e gli edifici rasi al suolo e coloro che nel ’45 si chiedevano: «che futuro ci aspetta», hanno riposto ogni speranza nel partito laburista.
In base alla (ri)costruzione offertaci dal documentario tramite testimonianze ben selezionate, lo spettatore immagina che, con l’ascesa al governo del Labour Party, tutto abbia assunto connotati positivi perché coloro che detenevano il potere pensavano alla comunità e alla condivisione. Parola d’ordine era: “tutti insieme” e questo spirito guidava le riforme che si sono susseguite in quegli anni (vedi la nazionalizzazione del servizio sanitario, dei trasporti, dell’erogazione di gas ed elettricità). Con l’ascesa della Thatcher (’79), qualsiasi cosa sembra acquistare (nella rappresentazione filmica) un sapore amaro, si mette in scena la de-costruzione, partono gli scioperi di fronte alla privatizzazione e al venir meno dell’etica del servizio pubblico. Si passa «dalla culla alla tomba».
Ci preme ricordare che tra la fine degli Anni ’70 e gli inizi degli ’80, il regista britannico ha realizzato una serie di documentari in cui puntava l’obiettivo della macchina da presa sul governo Thatcher tanto da averne subìto la censura – attualmente questo problema non dovrebbe averlo. Con The spirit of ’45, scendendo in campo con lo stile asciutto e rigoroso che lo contraddistingue, Loach dimostra di saper muovere i tasti delle emozioni captando le vibrazioni di uomini e donne che hanno sofferto e che hanno lottato per un futuro migliore.
Non è nostro compito stabilire le verità storiche, è innegabile che con la Lady di ferro abbia preso piede il capitalismo e l’individualismo, ma, per quanto si possa esser vicini alle simpatie politiche di Loach, The spirit of ’45 sconfina i limiti di un documentario di parte sfociando in un’elegia di uno spirito che non c’è più e di un governo che non può aver fatto tutto alla perfezione. Non mettendo in luce anche le ombre del partito laburista – o almeno qualche contraddizione – si finisce per perdere un po’ di credibilità nonostante il ricorso all’ironia e al cuore di uomini che portano con sé i segni di anni che ci appaiono molto lontani. In questa apparente lontananza di tempi, è proprio lo spirito ad unire, o meglio, il regista lo auspicherebbe.
Ma ci sono ancora oggi i presupposti per vivere di quello spirito o degli elementi che lo riaccendano? Sarebbe al passo coi tempi? Idealisticamente tutti vorremmo che l’ottica del “bene comune” dominasse e fungesse da faro per chi ci governa, ma più passa il tempo e più appare un’utopia.

Voto: 6

Vito Casale

(*) In questo film di finzione, Loach metteva alla berlina la politica della Thatcher con un umorismo pungente che, di film in film, è diventato una delle sue cifre stilistiche.

Clip – Il fallimento del capitalismo
Intervista a Ken Loach
I danni delle privatizzazioni
La privatizzazione dei servizi pubblici
Trailer italiano

 Essere o non essere

Quasi contemporaneo de Il grande dittatore di Chaplin (1940), ne rispecchia lo stile e i codici di satira ironica e feroce contro il nazismo, mischiando momenti di perfetta ilarità ad altri di sincera commozione. To Be Or Not To Be di Ernst Lubitsch è commedia capolavoro della Hollywood classica che torna in sala in versione restaurata e rimasterizzata. Joseph Tura (Jack Benny) e la moglie Maria (Carole Lombard) dirigono una compagnia teatrale polacca, rimasta senza lavoro dopo l’occupazione tedesca del ‘39. Quando il tenente Sobinski (Robert Stack), corteggiatore di Maria, chiede loro aiuto per la causa della Resistenza, il talento dell’intera compagnia finisce al servizio di un esilarante ma sempre più rischioso complotto antinazista fatto di travestimenti e scambi di persona. Un congegno narrativo perfetto, un ritmo travolgente e un cast formidabile, guidato dall’affascinante Carole Lombard, hanno reso negli anni To Be Or Not To Be un’opera di culto, uno degli esempi più alti dell’arte di Lubitsch. Girato fra il 6 novembre e il 23 dicembre del ’41 (l’attacco giapponese a Pearl Harbor, che causò l’entrata in guerra degli Stati Uniti, avvenne il 7 dicembre, proprio durante la lavorazione), il suo è un film anti-isolazionista e interventista in piena regola. Ma di fronte al nazismo Lubitsch combatte con le armi che gli sono proprie, quelle della finzione e dell’illusione, in bilico tra commedia e tragedia. Un gioco pericoloso per l’autore e per i suoi personaggi. Il film all’epoca fu pesantemente criticato con l’accusa di aver creato figure di nazisti ingenue e semplici.
Emblematica la scena iniziale del film nella quale, Bronski, attore minore della compagnia che nella finzione teatrale impersona Hitler, scende nelle strade di Varsavia, volendo farsi passare per il führer e proprio quando il gioco sembra essergli riuscito basta una bambina che gli chiede l’autografo di attore a far cadere tutto il suo castello di carte.
Il film è un omaggio a Shakespeare e allo spirito di “resistenza” connesso con il cinema e l’arte scenica. Mostra infatti l’evoluzione di una compagnia teatrale, che scende nella vita vera, con la prontezza di spirito, la genialità e il coraggio che le sono proprie. Un gruppo di attori vanesi ed egocentrici, costretti a fare i conti con una realtà più grande di loro perché “Tutto il mondo è un palcoscenico”.
Un riferimento d’obbligo spetta a Carole Lombard qui nella sua ultima interpretazione prima della tragica morte. Tornando da un tour per vendere buoni di guerra nello stato dell’Indiana, si schiantò in aereo sulle montagne del Nevada. Era il gennaio del 1942 e lei fu la prima vittima americana della seconda guerra mondiale. Regina indiscussa della Screwball Comedy, genere al confine tra commedia sofisticata e farsa, Lombard, bionda, bella e divertente, fu il prototipo della star degli anni ’30. Una recitazione moderna la sua, che sfuggiva agli stereotipi imposti dalle majors, capace di coniugare gag clownesche con l’immagine di donna sexy e fatale.
RARO perché… niente storiè, è un capolavoro assoluto, da non perdere!

Voto: 10

Vito Casale

 Soderbergh ci conduce nei lati più oscuri della psiche

La vita tranquilla di Emily e Martin, una giovane coppia newyorkese, va in pezzi quando l’uomo viene arrestato con l’accusa di insider trading. Lui sconta la pena, lei lo aspetta a casa per quattro lunghi anni, ma il tanto atteso ritorno fra le mura domestiche del marito non aiuta Emily ad uscire dalla depressione, anzi la spinge verso un vortice di angoscia che la porterà ad un tentativo di suicidio.
Lo psichiatra Jonathan Banks dovrà occuparsi del caso. Un nuovo psicofarmaco sembra funzionare inizialmente sull’umore della donna ma ben presto gli effetti collaterali dirompono nelle vite di Emily, Martin e del dottor Banks.
Stavolta Soderbergh affronta il genere del thriller psicologico. La denuncia dell’abuso dei farmaci, che, soprattutto negli Stati Uniti, ha raggiunto dei numeri impressionanti, prende piede grazie alle parole dello psichiatra e mette in evidenza la dipendenza dell’uomo contemporaneo verso le sostanze chimiche, con uno sguardo critico per tutte le industrie farmaceutiche.
Se il film avesse proseguito in questa direzione invece di virare verso un registro puramente thriller, come avviene nella seconda parte, il livello sarebbe rimasto alto perché Soderbergh ha già dimostrato in lavori come Traffic di saper unire narrazione e impegno senza abbassare mai la guardia o senza far calare la tensione nella storia.
Il racconto, la coerenza, i colpi di scena, si perdono dinanzi ad un esercizio quasi perfetto di stile e bravura a cui il regista ci ha abituati nel tempo e di cui non si sentiva il bisogno. Il regista in una recente intervista ha parlato della narrazione come di una vera e propria gabbia dalla quale fuggire e, negli anni, ha spaziato tra i generi, dimostrando di essere capace di manipolare vari materiali sempre con una certa maestria, anche se a volte è incappato in facili passi falsi.
L’interpretazione di Jude Law vale quasi tutto il film, mentre Rooney Mara nei panni dell’instabile moglie depressa e Channing Tatum non convincono molto. Se sono vere le voci per cui Effetti Collaterali, nelle sale dal 1° maggio, sarebbe l’ultimo lavoro di Soderbergh, con grande dispiacere, non si potrebbe non ammettere che ci si aspettava molto di più: più thriller, più storia, più denuncia, insomma, più cinema.

Voto: * * *

Giada Valente

 #IMG#Soderbergh ci regala un trattato di “thriller-psichiatria”…

Soderbergh ci regala un trattato di “thriller-psichiatria” da manuale, con emozioni cerebrali e non di pancia, ma comunque emozioni. Il regista, avvalendosi di un cast da urlo, racconta la storia di una donna che sprofonda in una grave forma di depressione. Il rimedio sembra essere un nuovo psicofarmaco, ma gli effetti collaterali saranno devastanti… anche se non nel senso che potrebbe banalmente sembrare…
Dopo il modesto ma campione di incassi Magic Mike, il regista decide di cimentarsi su una storia basata sull’esperienza vera del suo sceneggiatore in un ospedale psichiatrico, di come gli psicofarmaci possano fare tanto male… Che i farmaci nascondano dei lati a volte potenzialmente oscuri e problematici, peraltro scritti nelle avvertenze, non lo scopriamo certo grazie a Soderbergh.
Il film ha quindi i suoi meriti maggiori nel buon meccanismo a orologeria costruito da regista e sceneggiatore per tenere incollati gli spettatori alla poltrona, in un susseguirsi di colpi di scena piuttosto cerebrali ma certamente intensi.
Un film di buona fattura, che merita una visione anche per il trip nel mondo della psichiatria, dove vediamo come l’elettroshock ad esempio sia tornato in auge come metodo terapeutico, dopo anni di errori e oscurità.
Dopo la rinascita dell’Ipnosi come terapia, un altro indizio sui trend del momento.
Certamente poi fa riflettere l’abuso di tematiche psichatriche al cinema recentemente, evidentemente in questi tempi difficili, buoni spunti cinematografici possono arrivarci anche da questa disciplina così difficile e complessa, che cerca di curare l’organo più incomprensibile di ogni essere umano: il cervello.

Voto: * * *

Vito Casale

 Un paio di flash dal Festival

CHILD’S POSE (Pozitia copilului)

GLORIA

Dal nostro inviato Vito Casale

 Yidai Zongshi

Sui biblici tempi di lavorazione di The Grandmaster, si è ironizzato persino nelle commedie hongkonghesi: oltre dieci anni di gestazione e cinque di lavorazione, trascorsi tra riprese interminabili e rimontaggi. Partendo da un montaggio iniziale di quattro ore, Wong ha ridotto il film a 130 minuti, versione uscita nelle sale cinesi, per poi togliere altri 15 minuti e sostituire alcune sequenze nella versione presentata al Festival internazionale del Cinema di Berlino. A scanso di equivoci, il film non è un biopic su Ye Wen, in cantonese Ip Man, maestro di Wing Chun e insegnante di arti marziali di Bruce Lee. A questo, infatti, aveva già provveduto Wilson Yip con i due film, di acceso nazionalismo, che vedevano protagonista Donnie Yen, per tacere del prequel apocrifo perpetrato dal solito Herman Yau e del terzo film della serie con Anthony Wong.
A quasi vent’anni dal dedalo borgesiano di Ashes of Time (1994), sublime costruzione intellettuale sorta sulle ceneri (appunto) del romanzo di Jin Yong, Wong Kar-wai indaga valori, etica e filosofia del “wu lin”, il mondo delle arti marziali, e non sorprende che Ip Man, in giacca e cravatta nella Hong Kong degli anni ’50, rammenti da vicino Chow Mo-wan, lo scrittore di romanzi wuxia di In the Mood for Love. Tre sono i livelli di eccellenza a cui può aspirare un maestro di arti marziali, come spiega il vecchio Gong Yutian, i quali corrispondono a tre livelli di crescita individuale, sintetizzati nella massima: “Guarda te stesso. Guarda il mondo. Guarda l’umanità”. Tre sono gli stili di wushu dei maestri: il Wing Chun di Ip Man, il Baguazhang di Gong Er, il Bajiquan di Yi Xian-tian, il personaggio interpretato da Chang Chen, talmente sacrificato in fase di montaggio da rendere le sequenze che lo vedono protagonista pressoché incomprensibili. Un tale connubio di arti marziali e filosofia non si vedeva sullo schermo dai tempi di A Touch of Zen (1971), il capolavoro di King Hu, e i dialoghi estremamente letterari di Xu Haofeng e Zou Jingzhi danno la misura del grado di consapevolezza che sottintende all’intera operazione.
Ma soprattutto The Grandmaster, alla maniera ellittica ed estetizzante di Wong Kar-wai è un labirinto di rifrazioni che elidono scientemente qualsiasi costruzione narrativa, per affrontare i temi cari al maestro hongkonghese: l’azione nefasta del trascorrere del tempo sugli uomini e sui sentimenti, gli amori irrealizzati, la melanconia, la perdita, l’oblio. Wong alla ricerca del tempo perduto, un tempo sognato e/o immaginato ma per questo più vivido nel ricordo, all’ombra della fanciull(a) in fiore, la luminosa Zhang Ziyi, la quale s’impone come la vera protagonista di The Grandmaster. Ip Man e Gong Er, “In the Mood for Love”, si affrontano in una sfida intrisa di sensualità repressa al Padiglione d’Oro, si sfiorano, si perdono, vengono separati dal tempo e dalla Storia, si incontrano di nuovo per sancire il definitivo distacco, e alla fine non rimarrà che una ciocca di capelli arsa dalle fiamme, un sogno oppiaceo accompagnato dalle note di C’era una volta in America, perché non è detto che l’ultimo a restare in piedi sia anche il vincitore.
Ritorna la stasi che imprigiona i protagonisti di Wong, l’azione implacabile del tempo che congela Ip Man in ricorrenti istantanee, racchiudendolo nello spazio claustrofobico circoscritto dai bordi taglienti di una fotografia. Ip Man è già uno spettro in senso barthesiano, le fotografie di gruppo un “ritorno del morto”. Anche le mosse armoniose del Wing Chun rappresentano un falso movimento, infrangendo solo apparentemente tempo e spazio. Quello tra Ip Man e Gong Yutian è uno scontro di filosofie tutto interiore, quello tra Ip Man e Gong Er un corteggiamento ritualizzato, quello tra Gong Er e Ma San, responsabile della morte del padre e collaborazionista, un’allucinazione onirica durante la quale il tempo smarrisce le sue coordinate, in una stazione che sembra sorgere alle pendici del Feng Du, il reame dei morti, tra sbuffi di vapore e treni fantasmatici. Nelle inquadrature successive all’incontro con Gong Er, Ip Man è invariabilmente sdoppiato/scisso/riflesso. Pur mantenendo un rapporto epistolare con la donna, è frenato dagli obblighi familiari, gli stessi obblighi che Gong Er sceglie di infrangere quando rinuncia al matrimonio, come vorrebbero gli anziani del suo clan, per inseguire la vendetta contro Ma San.
Nel cinema contemporaneo solo Wong Kar-wai è in grado di tessere immagini così abbacinanti, quali il tableau vivant “lirico” al Padiglione d’Oro o il funerale in Manciuria, di un estetismo che non è mai fine a se stesso, ma intimamente necessario. Se Feng Xiaogang per descrivere l’invasione nipponica ha bisogno di mostrare colonne di profughi mitragliati dai caccia giapponesi, a Wong è sufficiente inquadrare un “Hinomaru” fuori fuoco, una mano insanguinata che affonda in una pelliccia, un riflesso in una pozzanghera. L’acqua è l’elemento principe di The Grandmaster, in particolare nelle sequenze più spettacolari. Una pioggia scrosciante si abbatte sui combattenti, appena intuiti in un parossismo di close-up, campi lunghi e sequenze in slow motion, perché la memoria, la storia individuale e quella collettiva sono destinate all’impermanenza, allo stesso modo di un’increspatura sulla superficie dell’acqua.
Tony Leung, tutto rassegnato stoicismo e sorriso onnisciente, è un’icona in Panama bianco, ma la sorprendente Zhang Ziyi è l’autentica forza propulsiva del film, anche perché è l’unica a manifestare le emozioni che la attraversano, mentre Tony Leung è condannato dal personaggio a un autocontrollo che rasenta l’impassibilità. Inutile dire che il comparto tecnico è a livelli d’eccellenza, dalla sontuosa fotografia di Philippe Le Sourd alle maestose coreografie di Yuen Woo-ping (che interpreta il maestro del piccolo Ip Man), fino alle scenografie barocche di William Chang, che delineano una Cina ai limiti dell’astrazione, e alla malinconica colonna sonora di Umebayashi Shigeru, che mescola Morricone e canzoni cantonesi.
La versione italiana è quella di 123 minuti presentata a Berlino e presenta alcune varianti di montaggio rispetto all’edizione cinese. Tra le scene tagliate, alcune sequenze con Ip Man e Gong Er, l’incontro tra Ip Man e Jiang a Hong Kong e la scena, importantissima, in cui Jiang consegna a Ip Man la scatola con le ceneri dei capelli di Gong Er, che quest’ultima gli ha lasciato in suo ricordo. Tra le aggiunte, un flashback nel quale la piccola Gong Er si allena col padre e, a beneficio dell’occidentale beota, alcune scene che ci rammentano che Ip Man fu il maestro di Bruce Lee. Stendiamo invece un velo pietoso sull’anodino doppiaggio italiano e sul raffazzonato montaggio di scene d’azione piazzate dopo i titoli di coda, con il protagonista che ammicca allo spettatore, neanche fossimo in un film con Jackie Chan. Inutile dire che queste manipolazioni, che comprendono lo slittamento di intere sequenze, danneggiano gravemente il ritmo e l’atmosfera del film, che può essere apprezzato pienamente solo nell’edizione originale. E a questo punto non resta che augurarsi che Wong Kar-wai prenda in considerazione l’ipotesi di un “The Grandmaster Redux”, magari portato a termine in tempi più ragionevoli.

Voto: 7 (V.O.: 8)

Vito Casale

 #IMG#L’eleganza del gesto

The Grandmaster si cala interamente nella corrente del cinema asiatico che abbraccia la filosofia orientale delle arti marziali, lo fa tematicamente ma soprattutto strutturalmente, rompendo completamente con la linearità tipica dei racconti del cinema occidentale (d’autore e non) e strizzando l’occhio a capolavori del passato come La Tigre E Il Dragone, ma anche ad altri film meno riusciti come La Foresta dei Pugnali Volanti, che comunque mantengono questa voluta scomposizione drammaturgica.
Il film ruota sostanzialmente attorno alla storia di due personaggi, nella Cina di fine anni trenta, poco prima dello scoppio della guerra tra Cina e Giappone: colui che in futuro diventerà il maestro di Bruce Lee, Ip Man, nel periodo in cui venne scelto come erede del Grande Maestro Gong Baosen, ormai anziano ed in cerca di un successore, e la figlia del Gran Maestro, Gong Er, esperta anche lei nelle arti marziali, ma impossibilitata a succedere al padre a causa del suo sesso.
Ecco che dunque il regista Wokng Kar-Wai, oltre che mostrarci con dovizia molte delle tecniche delle molteplici arti di combattimento orientali, in sequenze dove la messa in scena è studiata con dei rallenty mai esagerati e con effetti visivi decisamente suggestivi ed eleganti, anche se forse già visti (vedi per esempio il rallentio della pioggia e l’amplificazione dei colpi dei combattenti, che riprende un po’ l’effettistica che i fratelli Wachowski fecero loro negli ultimi due Matrix, il coreografo dei combattimenti infatti è lo stesso), conferma la sua volontà nel volerci far addentrare in una panoramica della violenza che si accosta in più occasioni al mero fine estetico ed artistico, cercando di trasformare il Kung Fu in una vera e propria opera d’arte (i parallelismi tra le arti marziali e l’Opera musicale orientale sono spesso richiamati nel film). Tuttavia questo proposito non viene perpetuato portando le scene di violenza fino all’estremo, come invece succede con registi come Nicholas Winding Refn, che ricercano sì un accostamento tra arte e violenza, ma con l’intento di scuotere il pubblico, ma bensì confezionandola in angoli suggestivi e raffinati, puntando sugli agili movimenti e colpi da maestro dei protagonisti.
Se quindi dal punto di vista della messa in scena il film risulta quasi perfetto, il lato più ostico e difficile da analizzare, risulta senz’altro quello dell’evoluzione narrativa, come già accennato. Le vicende all’interno della storia infatti, procedono esclusivamente per ellissi temporali, non seguendo neanche per un secondo la successione cronologica degli eventi. Questo seppur lodevole e coraggioso intento di “scomponimento drammaturgico” tuttavia, alla fine del film purtroppo sacrifica i personaggi complementari dello stesso: due dei co-protagonisti infatti, uno l’antagonista della figlia del Gran Maestro, che si appropria dell’eredità della scuola di arti marziali ingiustamente, l’altro un agente segreto del governo che decide di abbandonare le fila dei servizi segreti, vengono tratteggiati in maniera piuttosto incompleta; soprattutto il secondo incamera una vicenda a sé, che sebbene all’inizio sembra incrociare gli eventi principali, alla fine del film finisce per seguire una evoluzione del tutto autonoma, che forma un buco abbastanza consistente all’interno della sceneggiatura, che non può essere giustificato neanche se inserito in una corrente stilistica, quale quella dei film di arti marziali asiatici degli ultimi quindici anni.
Se quindi l’intento artistico di Kar-Wai da un punto di vista visivo risulta riuscito più che bene, da un punto di vista narrativo le eccessive ellissi e rimandi temporali finiscono per lasciare indietro parti della storia che, se analizzate, avrebbero sicuramente contribuito a rendere il film più completo ed interessante, anche se questo avrebbe portato The Grandmaster verso le tre ore. Qualche scena aggiunta tuttavia non ci spaventa, se il film ne risulta arricchito. Consiglio spassionato per Kar-Wai.

Voto: 6 e ½

Mario Blaconà

 I cari vecchi principi di una volta

Un’altra storia di crisi economica, un’altra testimonianza di smarrimento sociale nella provincia americana, che è poi la vera America, quella lontana anni luce dalle grandi metropoli.
In Promised Land, Matt Damon è un agente di vendita che lavora per una grossa società, nato in un paesotto di campagna dello zoccolo più duro degli States, del quale sembra essersi lasciato alle spalle il retaggio, ma che dovrà tornare per lavoro proprio in una di queste cittadine, per riuscire a convincere i suoi abitanti ad aderire ad un progetto di estrazione di gas naturale. Tuttavia una volta arrivato si troverà, insieme alla sua collega Sue Thomason (una sempre bravissima Francis McDormand, che riesce a giostrarsi bene nel ruolo di collega cinica, ma allo stesso tempo anche di madre affettuosa e apprensiva), di fronte ad una inaspettata e tenace resistenza che piano piano prenderà piede nella gente del luogo.
Il conflitto morale viene inserito da subito al centro, portando lo spettatore a riflettere su una contrapposizione netta tra due scelte: conservare le proprie radici e quindi difendere la propria terra (una terra colpita profondamente dalla crisi economica), oppure prendere i soldi e magari ricominciare altrove? E l’equilibrio tra i punti a favore e i punti contro a queste due opzioni risulta essere proprio la forza trascinante di questo film, non permettendo quasi mai di potersi schierare da una parte piuttosto che da un’altra. Ecco però che ad un certo punto della storia, come un pugno nello stomaco, la fastidiosa tendenza di un certo cinema americano buonista si fa sentire prepotentemente. L’intento del regista infatti, a quanto pare, sembrerebbe quello di creare a tutti i costi un finale “politically correct”, che francamente fa spegnere un po’ gli entusiasmi, suscitati durante quasi tutto il tempo, oltre che dal dilemma morale, anche da attori molto in gamba, da dei dialoghi mai scontati e da un’ambientazione della provincia americana molto accurata e credibile. La scelta di Gus Van Sant (che si conferma un regista nettamente a due velocità, riuscendo a dirigere magistralmente film dalla forte impronta indipendente e sperimentale come Elephant e Paranoid Park e dall’altra parte rifugiandosi nei classici di sceneggiatura hollywoodiani come Scoprendo Forrester, Will Hunting e lo stesso Promised Land) e di Matt Damon, che oltre a recitare ha scritto la sceneggiatura insieme a John Krasinski (anche lui presente nel cast artistico), è quella di inserire, alla fine dei conti, questo film nel filotto dei racconti moralmente giusti, portandolo così un po’ a spegnersi con l’evolvere della storia. Forse un proseguo un po’ più arcigno e disincantato, che ci risparmi il solito sacrificio dell’eroe visto e rivisto in mille salse, avrebbe aiutato lo spettatore ad identificarsi un po’ di più con la realtà odierna, che a quanto pare di moralmente giusto non ha proprio nulla. O forse siamo solo noi che ai lieto fine non crediamo più così tanto.

Voto: * *½

Vito Casale

 #IMG#A tutto gas

Come ai tempi della corsa al petrolio, negli Stati Uniti, le multinazionali sono disposte ad acquistare terreni apparentemente senza valore a prezzi fuori mercato. Perché? È presto detto: sperano di poterne estrarre gas naturale. Come? Con procedimenti di trivellazione tra i più invasivi e violenti mai sperimentati, causa di gravi e letali danni all’ambiente e in particolare alla falde acquifere, a loro volta fonte di vita e sostentamento per esseri viventi, vegetali e animali, tra cui proprio l’uomo. Un problema questo abilmente insabbiato dai governi a stelle e strisce, almeno fino a quando Josh Fox non li ha portati a galla nel 2010 con l’agghiacciante Gasland, un feroce reportage con il quale il giovanissimo videomaker americano si è portato a casa una meritatissima candidatura all’Oscar per il miglior documentario. Autentico pugno allo stomaco, il film di Fox non è solo un compendio di dati e cifre, ma un intervento sul campo determinato e risoluto, portato avanti dall’autore con l’amara sfrontatezza di un Michael Moore. Il risultato finisce con lo squarciare il sipario dietro il quale si annida l’avidità senza scrupoli delle Corporation, mentre documenta inesorabilmente i danni micidiali alla salute e all’ambiente che esse provocano.
Sul fronte dell’incisività non si può dire purtroppo la stessa cosa di Gus Van Sant e della sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Promised Land, nelle sale nostrane a partire dal 14 febbraio con BIM a pochi giorni dalla presentazione in concorso alla 63esima edizione della Berlinale. A metà strada tra il pamphlet ecologista e il dramma sociale, che ha sull’argomento illustri precedenti (da Erin Brockovich a Michael Clayton, passando per A Civil Action), il film potrebbe apparire come una sorta di prequel che anticipa gli effetti devastanti mostrati in Gasland. Van Sant ci porta al seguito di Steve Butler, un ragazzo di campagna divenuto un agente di vendita in carriera di una grossa compagnia energetica, specializzata in estrazione di gas naturale. La sua vita però prende una piega inaspettata quando viene inviato dall’azienda con la collega Sue Thomason in una cittadina della Pennsylvania di nome McKinley. La zona è stata colpita duramente dalla recente crisi economica degli ultimi anni e i due consumati agenti di vendita credono che i cittadini accetteranno facilmente l’offerta della azienda per cui lavorano – decisa a ottenere i diritti di trivellazione sui terreni di loro proprietà – come sollievo alle loro difficoltà economiche. Ma quello che sembrava un lavoro facile e un breve soggiorno diventa per entrambi un complicato groviglio, sia da un punto di vista professionale sia sul versante personale, quando, complice lo zampino di un furbo attivista ambientale, i cittadini decidono di resistere alle tentazioni di guadagni facili, convinti che i metodi di estrazione del gas siano altamente tossici.
Il regista americano firma una pellicola anonima, fatto assolutamente inedito per un autore che sin dagli esordi con Mala Noche e Drugstore Cowboy ha dimostrato di saper personalizzare la materia narrativa con la quale di volta in volta entra in contatto. Da sempre attento alle psicologie dei personaggi ma anche alle storture sociali e culturali del suo Paese, soprattutto nei confronti delle minoranze, Van Sant qui sembra non entrare in contatto fino in fondo né con la storia che racconta né con coloro che la animano dall’interno. Eppure è di minoranze e di esistenze messe a rischio che si parla, perché è in quelle categorie che vanno a iscriversi i cittadini di McKinley, costretti a decidere se morire più rapidamente ma con qualche soldo nelle tasche o aspettare inesorabilmente che il decesso arrivi a causa della crisi imperante. Fatto sta che il regista di perle come Elephant e Will Hunting – Genio ribelle, stavolta non si dimostra all’altezza di una materia in grado di aprire squarci nella coscienza di un pubblico il più delle volte assuefatto e assopito. Tratta la materia sfiorandola appena e sembra che si sia limitato solamente a mettere insieme i pezzi, lasciando alla porta le implicazioni emotive, l’introspezione e in primis lo scavo nel dramma umano e sociale. Che si tratti dell’uno o dell’altro, solo di rado tira fuori qualcosa che smuove il tracciato piatto della narrazione, come nel caso del monologo finale nel quale Butler conclude il proprio percorso di redenzione. Nei suoi confronti resta però un’anaffettività palese, che se pensiamo ai protagonisti di Milk o Scoprendo Forrester ci appare davvero impensabile possa accadere in un film firmato da Van Sant. Nonostante la prova maiuscola di Matt Damon (alla terza collaborazione con il regista americano dopo Will Hunting e Gerry), aiutato da bravissimi comprimari, in Butler non troviamo nessun appiglio alla quale agganciarci perché irrisolto: un venditore di morte che ci fa pure tenerezza, combattuto e capace di scrupoli di coscienza, ma che a conti fatti non sappiamo se amare o continuare a detestare.
Il cineasta ha il demerito di non raccontare i personaggi con la stessa lucidità dimostrata in passato, senza compiacimenti né moralismi, con una forza visiva di grande efficacia nella sua scioltezza, suggerendo le radicali scelte esistenziali che sono all’origine della loro vita. Il limite più evidente è l’incapacità dell’autore di penetrare al di sotto della mera superficie delle cose e dei fatti, come mai prima di adesso. In altalena tra stereotipi hollywoodiani e finezza di annotazioni, viene meno anche il raffinato senso figurativo e le belle invenzioni stilistiche di un regista che ha saputo parlare alla platea con la sola potenza delle immagini, come nel caso di Elephant, Gerry o Last Days (l’uso di lunghissime inquadrature e del piano sequenza così come l’espediente di mostrare la stessa scena più volte da punti di vista diversi). Qui a catturare l’occhio sono solamente le frequenti riprese aeree che tramutano le strade di cemento ritagliate nel verde della vallata in arterie e vene di una terra ancora sana, ma prossima all’avvelenamento. Insomma, l’alchimia e il dialogo con gli elementi drammaturgici che compongo Promised Land appaiono inspiegabilmente cristallizzati, privi di quella potenza empatica che caratterizza il modo di fare e concepire la Settima Arte per Gus Van Sant. La stima che proviamo nei suoi confronti ci fa pensare che si tratti solo di una fisiologica battuta d’arresto.

Voto: * *½

Francesco Del Grosso

Alcuni materiali del film:

CI BATTIAMO PER LA GENTE
FRACKING, UN AFFARE POCO PULITO
L’AMORE PER LA TERRA
IL POTERE DELLE MULTINAZIONALI
CLIP 1
CLIP 2

TRAILER
BLOG
Intervista a John Krasinsky
Intervista a Gus Van Sant
Intervista a Matt Damon
FEATURETTE

 Le conseguenze dell’amore

Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è un antiquario in là con gli anni, molto noto come tenutario d’aste, che, aldilà della forma, ha molte difficoltà ad interagire col prossimo, nascondendosi dietro la propria ritrosia. Il giorno del suo sessantatreesimo compleanno riceve la prima di una serie di telefonate dalla giovane Claire (Sylvia Hoeks), che gli chiede di aiutarla a dismettere il proprio ingente patrimonio ereditato dai genitori scomparsi. Ma al primo appuntamento la ragazza non si fa viva, continuando a mancare anche gli incontri successivi, rivelando una serie di ossessioni che da anni la hanno portata a rinchiudersi dentro casa, senza vedere più nessuno. Dapprima Virgil cercherà di rinunciare all’incarico, ma poi si troverà sempre più coinvolto ed invischiato nel rapporto con la singolare giovane. Tra i suoi pochi amici, il fidato compare Billy (Donald Sutherland) e Robert (Jim Sturgess), un abile restauratore in grado di riparare qualsiasi cosa, che diventerà il suo consigliere. Ma Virgil, che non l’ha mai conosciuto veramente, ignora come l’amore possa fare bruttissimi scherzi…
A quattro anni di distanza da un film estremamente italiano, anzi, siciliano, come il fallimentare Baarìa, Giuseppe Tornatore segna una cesura e gira, pur sempre con maestranze nostrane, un raffinatissimo thriller dal cast e dall’ambientazione internazionali, ricollegandosi in parte alla sua opera ancora precedente, La sconosciuta ed all’ormai lontano Una pura formalità. Come ha affermato lo stesso protagonista Geoffrey Rush, la pellicola vuole essere un confronto tra la vecchia ed imbolsita Europa e quella nuova, con i suoi giovani stati che si affacciano nell’unione.
Il letteralmente anziano Virgil (questo il significato del suo cognome), è un uomo pieno di paturnie e fissazioni: quella per il tempo che passa, che lo porta a tingersi i capelli; quella per il contatto con gli altri, che gli fa indossare guanti di protezione e porre fazzoletti intorno a telefoni e a qualsiasi oggetto entri in contatto col resto del suo corpo; quella per i ritratti femminili, che, tramite la complicità del socio Billy, glieli fa aggiudicare alle aste in maniera non esattamente legale. In questo humus l’infatuazione per la giovane donna che, come lui, soffre di non pochi problemi di relazione con gli altri, arriverà come lo strike di una palla da bowling su di un gruppo di birilli.
Non molto altro si può dire di questo film, senza distruggere l’intricata intelaiatura tessuta dal regista e sceneggiatore, che verrà dissolta come una bolla di sapone dal finale. La rivelazione non sarà neanche esibita, ma appena accennata, poiché lo spettatore, lungamente ed adeguatamente preparato nello scorrere del racconto, saprà da solo mettere insieme tutti i pezzi del puzzle. Qualche lungaggine (la durata supera le due ore) si avverte qua e là e la tensione in effetti a volte cala, ma la sontuosità e la complessità della macchina narrativa, che arriva a citare perfino Jacques de Vaucanson ed i suoi automi settecenteschi, le giustifica sufficientemente.
L’intera pellicola, col suo irrivelabile mistero, tra ritratti e macchine antropomorfe e con la messa in scena delle aste, che con i loro riti e consuetudini costituiscono un piccolo teatro, assurge dunque a metafora della narrazione cinematografica. Chi vedrà, capirà.
La migliore offerta rialza così le quotazioni di Giuseppe Tornatore, che, tra l’altro, sfida temerariamente il botteghino uscendo per sua stessa volontà il primo giorno del nuovo anno. Potrà lo spettatore trovare in sala quel giorno una migliore offerta? Ne dubitiamo.

Voto: * * *½

Vito Casale

Alcuni materiali del film:

Spot TV – Le parla attraverso una porta chiusa

Spot TV – Ossessione

Spot TV – Il Cast

Spot TV – Chi è veramente

Spot TV – Nessuno la vede

Spot TV – Parla attraverso una porta chiusa

Spot TV – “Il Cast”

Clip – “Claire, perché si nasconde”

TRAILER ITALIANO UFFICIALE [HD]

TEASER TRAILER

 Verso il sole

Il cinema d’animazione continua inarrestabile il proprio percorso evolutivo, speculare e parallelo a quello che sta investendo anche il live action. Entrambi sono impegnati in una rivoluzione tecnologica che riguarda gli hardware e i software a disposizione. In particolare, nel caso dell’animazione si punta a una composizione dell’immagine all’insegna del fotorealismo, oltre che a un disegno computerizzato sempre più sofistico e vicino alla perfezione della risoluzione. In tal senso, con un film come I Croods, Kirk De Micco e Chris Sanders dimostrano quanto questi obiettivi siamo ampiamente alla portata dello staff della DreamWorks Animation. Lo Studio statunitense affida alle mani esperte di due dei più importanti esponenti del genere, una creatura che, quanto a impatto visivo, stacca di gran lunga la nutrita e agguerrita concorrenza, portando sullo schermo una pellicola che è spettacolo puro per gli occhi dei grandi e dei piccini. Il risultato è di altissimo livello, tanto da ridurre drasticamente un possibile e ulteriore margine di miglioramento. Naturalmente tutto è possibile e tutto è migliorabile, non a caso la Settima Arte è anche conosciuta come la fabbrica dei sogni per antonomasia.
L’approccio tecnico-stilistico alla materia nell’opera di De Micco e Sanders, che all’attivo possono contare su titoli di rilievo come Lilo & Stitch, Dragon Trainer o Space Chimps, è a giudicare da quanto ammirato sullo schermo senza alcun dubbio impeccabile, anche grazie a una componente stereoscopica che ne esalta ancora di più la fruizione. Il tutto si traduce in uno show totale che avvolge e fagocita lo spettatore attraverso una serie di scene che, sfruttando appieno le potenzialità interattive del 3D, non può che regalare momenti davvero entusiasmanti, come nel caso della pirotecnica cattura dell’uovo con tanto di partita di rugby al seguito oppure il divertente flipper umano che vede impegnate le dispettose scimmie e la famiglia dei Croods.
Eppure c’è qualcosa in questa mirabolante creatura del cinema d’animazione che nessun software o hardware esistente, per quanto ultra-tecnologico possa essere, potrà mai e poi mai partorire artificialmente e quel qualcosa si chiama emozione. I Croods è un film che ne è sprovvisto. Sotto la scintillante e pregevolissima confezione che lo caratterizza, infatti, si sviluppa una narrazione esile, una drammaturgia ridotta all’osso e un plot che potrebbe tranquillamente esaurirsi nel giro di una trentina di minuti, ma che al contrario viene dilatato in maniera ingiustificata per altri sessanta. Tuttavia il ritmo incalzante con cui viene proposto il tutto non è da gettare. Lo script si snoda lungo traiettorie, dinamiche e situazioni poco elaborate dal punto di vista drammaturgico, popolate da personaggi che per carattere e funzione nulla aggiungono alla galleria di figure animate apparse sugli schermi fino a questo momento. A dimostrazione che dietro progetti realizzati con tecniche tradizionali e vecchio stile, per non dire “povere”, non ci sia di default una minore o maggiore compensazione ed equilibrio tra la forma e il contenuto (Studio Ghibli docet).
De Micco e Sanders provano a catturare l’attenzione della platea mescolando l’azione e la comicità a tematiche ricorrenti nella filmografia DreamWorks, come ad esempio il conflitto generazionale, la paura del futuro e del cambiamento o la love story tra gli innamorati di turno, per poi calare il tutto in un’odissea familiare divisa tra sopravvivenza ed estinzione. A causa di un cataclisma, i Croods sono costretti ad avventurarsi in luoghi a loro ignoti e a riorganizzare la propria vita. Lungo la strada incontrano Guy, le cui sorprendenti nuove scoperte – come il fuoco e le scarpe! – scuotono la loro visione del mondo in modo del tutto inaspettato. La maggior parte della famiglia, e in particolare Eep, accoglie con entusiasmo ciò che Guy chiama “domani”, mentre Grug intravede un’altra grande calamità all’orizzonte: quella di un affascinante ragazzo che insidia sua figlia! Sinossi alla mano è facile accorgersi di quanto tutto abbia il sapore inconfondibile del già sentito, un sapore che non può che rievocare nella mente un mix piuttosto riconoscibile di caratteri ed ingredienti che precedentemente hanno fatto la fortuna de L’era glaciale, Alla ricerca della valle incantata, Dinosauri e soprattutto della serie di cartoni di Hanna & Barbera conosciuta come I Flintstones (sulle due trasposizioni con attori in carne e ossa dirette da Brian Levant preferiamo invece stendere un velo pietoso).

Voto: * *½

Vito Casale

Alcuni materiali del film:

Trailer I

Intervista Chris Sanders
Clip – Meet Guy
Clip – Shoes

Featurette – Modern Family

“DADDY CROODS” VIDEO CLIP
“DADDY COOL” VERSIONE ORIGINALE

Clip – Punch Monkeys
Featurette – Brain vs. Brawn

Clip – Road Trip
First Moment – Lifterator

First Moment – Shades

Clip – Family Portrait
I Croods tv spot Greatest Event 15″
I Croods tv spot Greatest Event 30″
Clip – Hunting

Poster animato

Trailer italiano