Grande annata alla Berlinale 2014! Qui trovate le nostre recensioni
Il tempo visto dall’alto
Luchino Visconti una volta disse che il suo sogno era quello di riprendere l’intera giornata di un uomo, dall’alba fino alla notte, senza sosta. Per molti aspetti è proprio questo lo spirito di cui è pervaso quest’ultimo lavoro di Richard Linklater: riprendere la vita di un comune ragazzo americano, dagli otto ai vent’anni. Usare il cinema come uno specchio.
Il film segue la vita del giovane Mason, dagli otto anni, quando frequenta la scuola elementare, fino ai vent’anni, quando entra al college, raccontando il rapporto con i genitori divorziati, i traslochi, le nuove scuole, i matrimoni falliti della madre, il rapporto conflittuale con la sorella Samantha, la nuova relazione del padre, seguendo anche l’evoluzione degli oggetti d’uso quotidiano, tecnologici e non, e i cambiamenti culturali, sociali e politici degli anni.
La lavorazione di quest’opera ha richiesto ben dodici anni, durante i quali il regista ha seguito gli attori, o meglio i loro personaggi, nella crescita fisica ed emotiva, documentando quindi niente di più che la quotidianità di una famiglia medio borghese americana, con i suoi grandi e piccoli drammi e la sue grandi e piccole gioie. Guardando un film così non può altro che venire in mente come la settima arte possa essere, se strutturata in un certo modo, una perfetta estensione della realtà: Linklater infatti ha voluto addentrarsi proprio in questo ampio campo di riproposizione del quotidiano. In Boyhood non sono presenti i picchi emotivi da “mansionario del cinema classico”, come ci si aspetterebbe da un film hollywoodiano ad ampia portata, ma le emozioni rimangono sempre sotto pelle, anche nei momenti più intensi e drammatici, in modo tale che sia il ricordo di essi a portare dei cambiamenti nel modo di relazionarsi dei protagonisti, esattamente come succede dall’altra parte dello schermo, nella vita vera. In questo lungometraggio, il tentativo costante è quello di bucare la quarta parete, senza però parlare direttamente al pubblico, come ha sempre fatto Woody Allen, né applicando la tempistica degli eventi reali documentando ogni gesto ed ogni momento della giornata, come è successo in alcune pellicole sperimentali, per esempio di Andy Warhol (ed è qui che il film si allontana un po’ dal sogno di Visconti), bensì intervenendo sul concetto di tempo ad ampio raggio, conformandosi alle tempistiche biologiche, trovando quella credibilità che solo un film unico ed irripetibile nel suo genere può riuscire a scoprire.
I riferimenti al passare del tempo (più che evidenti in quasi tutto il film, vedi la musica ascoltata dai protagonisti, o l’evoluzione politica degli USA in più di dieci anni), sottolineano questa forte volontà di testimonianza perenne e, mentre in un altro tipo di film sarebbero risultati pedanti, qui assumono perfettamente il ruolo di custodi del tempo, riprendendo un altro scopo che il regista si è preposto: quello di contestualizzare. Sì, perché non è solo l’idea di raccontare la storia di una famiglia qualsiasi quella che viene fuori quasi subito, ma anche quella di rappresentare specificatamente una famiglia americana, e tramite essa, un’intera nazione. Attraverso la storia della famiglia di Mason, Linklater racconta la stranezze, l’ipocrisia, la cattiveria, ma anche l’onesta semplicità, la creatività e la curiosità di un intero popolo. Verso la fine tuttavia, da particolare (per quanto particolare possa essere la realtà di un intero continente) il racconto diventa universale, facendo uscire da se stesso quasi spontaneamente i temi dell’esistenza che circondano ognuno di noi, attraverso tutto il mondo, lasciando ad intendere che forse, visto dall’alto, il tempo non è altro che un’illusione e che le nostre mille variabili sono sempre state in noi, attraverso gli anni e anche più in là.
Voto: 9
Mario Blaconà
In ordine di sparizione
Divertente noir pulp nordico, in salsa tarantiniana e forse kitaniana (dei tempi che furono) in ordine di sparizione era al festival di berlino 2014, dove ha divertito la critica tra un film impegnato e l’altro.
Nils, lavora su uno spazzaneve in una sperduta cittadina della norvegia. Muore il figlio per overdose e da li Nils si inabisserà in un delirante tunnel della vendetta, degna del miglior Park Chan Wook.
La vendetta passerà per un banda di mafiosi serbi e non avrà limiti di ogni genere.
In ordine di sparizione, come dice anche il titolo, è la sequenza dei personaggi “cattivi” che scompaiono dallo schermo uno dietro l’altro. Con uno schema ritmico in parte tarantiniano in parte palsemente teatrale. Siparietti simpatici ad ogni sparizione e ilarità in sala. La coppia Stellan Skarsgård-Bruno Ganz eccelle ed eleva il livello del film. Päl Sverre Hagen disegna un cattivo da fumetto iperrealistico che il cinema americano non può che invidiare. Il protagonista nemmeno troppo nascosto di questo film, comunque è il panorama innevato che fa netto contrasto al nero e al sangue che scorre.
In un periodo di particolare fulgore per la letteratura nordica, il regista qui vuole soffermarsi invece solo in minima parte sulla società nordica, o sul welfare nordico, quanto piuttosto divertirci in modo sorprendente.
Voto: * * *
Vito Casale
Kreuzberg
Kreuzberg è il nuovo Lourdes made in germany o meglio ancora, una sorta di interessante mix tra “La moglie del poliziotto” di Philip Gröning e la sua dinamica per capitoli, i temi religiosi di Lourdes, sulla redenzione e i miracoli sulla terra, e un film sui tableau vivant, che avrebbe fatto impazzire Pasolini! una delle rivelazioni migliori della Berlinale 2014, il film narra la via crucis di una ragazza nata e cresciuta in una famiglia cattolica integralista, con rigidi vincoli che la costringono ad esempio ad odiare la “demonica” musica pop… il film pone una visione estremizzata e volutamente provocatoria di un cattolicesimo estremistico molto raro ma potenzialmente presente nella società occidentale moderna, in una maniera quasi macchiettistica e manichea. Il giudizio è palesemente negativo sin dal primo episodio, in cui un prete estremista ci introduce a questo mondo fatto di sofferenze, penitenze e rinunce, portando all’eccesso una certa visione estrema del cattolicesimo.
Il disegno è dichiaratamente di parte e geometrico, ciononostante il film risulta potente e ipnotico nel rappresentare questa discesa in un mondo “fuori dagli schemi” del mondo tradizionale fuori da ogni regola comune del vivere civile. Violenta e perfida l’immagine di una famiglia apparentemente perfetta, in realtà costruita su delle figure famigliari negative e oppressive (la madre), completamente assenti (il padre) o malate (il bimbo piccolo che non vuole parlare).
L’impatto è forte seppur gelidamente costruito a tavolino e il film certamente lascia il segno.
Voto 7
Una storia
Nell’Europa del 1920, Gustave H, un concierge che lavora in un leggendario Hotel di Praga, diventa amico di uno dei suoi collaboratori più giovani, Zero Moustafa, il quale crescerà fino a diventare il suo protetto. La storia coinvolge il furto e il recupero di un dipinto rinascimentale inestimabile e la battaglia per un enorme patrimonio di famiglia.
Se uno studioso di cinema dovesse scrivere un’opera monografica sul cinema di Wes Anderson la prima cosa che dovrebbe fare sarebbe vedere questo film, che riassume in sé stesso l’intera poetica che il regista texano ha sempre affrontato nei suoi lavori: un’attenzione maniacale per l’estetica delle proporzioni (la centratura perfetta dei personaggi all’interno delle inquadrature e il posizionamento degli oggetti); un uso dei colori atto a suscitare emozioni ben precise, come teorizzò Kandinsky (la passione di Anderson per la pittura e per la fotografia è innegabile) e dei personaggi che fanno del contegno, dell’umorismo british e spesso della timidezza una delle loro caratterizzazioni più forti. Troverete tutto questo in Grand Budapest Hotel, uno scrigno di un tipo cinema unico nel suo genere, che fa dell’originalità e della settima arte fine a se stessa il suo punto di forza maggiore.
E proprio di cinema fine a stesso si parla qui: Anderson infatti non cerca riferimenti esterni o richiami di educazione civile, rappresentativi del periodo in cui viviamo (tendenza che è ormai dilagante nel cinema di oggi), ma si distacca volutamente da tutto questo e cerca semplicemente di raccontare una bella storia di amicizia, inserendoci anche un po’ di nostalgia nel finale, lasciando sullo sfondo un rimpianto dei bei tempi passati, proprio perché forse fare solo del cinema e non anche della socio-politica è un lusso che oggi non ci si può più permettere.
Sulla scia di questo “qualunquismo buono”, se così vogliamo chiamarlo, si riesce a parlare anche di temi cupi come la morte, il tradimento e il rimpianto, in modo prettamente favolistico e fumettistico, riuscendo a delineare una vera e propria fiaba per adulti, tentando di far dimenticare per un paio d’ore i problemi del mondo esterno, senza per forza incorrere nel rischio di avvallare una tendenza alla superficialità che molte commedie oggi giorno purtroppo portano con sé.
Un ultimo punto, che è forse quello più innovativo di questo film, rispetto agli altri lavori di Anderson, è la concentricità dei racconti. L’arco narrativo di sviluppa su tre racconti concentrici: una studentessa ai giorni nostri legge un libro davanti alla statua di uno scrittore, il libro si intitola “Grand Budapest Hotel” e all’interno della storia raccontata da questo libro un altro narratore racconta un’altra storia, che si dimostra essere il cuore di tutto il lungometraggio. Come a voler dire che il piacere di raccontare una storia non finisce mai e si sviluppa lungo i decenni, crisi o non crisi. Se poi la storia è raccontata bene, ancora meglio. Questo sembra proprio essere uno di questi fortunati casi.
Voto: 8
Mario Blaconà
NYMPHOMANIAC: Vol I
Riecco quel geniaccio di Lars von Trier, che come suo consueto provoca e sorprende come non mai in questa prima parte “uncut” di Nymphonanic.
Il film annunciato da tempo come un hard d’autore, è tutto tranne un porno, genere di cui peraltro Lars è conoscitore nonchè produtture. Nota infatti la sua collaborazione nella produzione di film hard “al femminile” come Constance, di cui si parla qui.http://www.xrate.it/hard-project/constance/
L’opera è un viaggio clamorosamente psicanalitico e ironico, nella vita di una “ninfomane da due anni”, che già a dirla cosi, fa ridere che racconta la sua vita a un pacioso signore amante della pesca, che la ritrova ferita in strada.
Lars vuole lasciarsi alle spalle la sua depressione, che ha prima somatizzato ed esorcizzato poi con Melancolia, divertendosi e divertendoci a distrugguere tutti i luoghi comuni sulle relazioni di coppia e sul sesso, con totale leggerezza e simpatia.
Niente più messaggi universali alla Dreyer, redenzione, peccato, qui siamo dalle parti di una esplosiva miscela postmoderna, con il peccato che forse non è peccato, (grandissima la Ganisborough) e l’amore che forse non è poi cosi tanto meglio del peccato! cast spettacolare, solo in parte “veramente” impegnato in alcune scena hard sul set, e una grandissima uma thurman, che in una scena al limite del paradossale ci regala un meraviglioso quadro di donna tradita dalla ninfomane.
Ottima la giovane protagonista, “giovane e bella”.
Le citazioni del cinema di Lars o amato da lars si sprecano lungo tutto il film, che sembra una summa dissacratoria di tutto il suo cinema precedente.
Emblematiche alcune scene che rimandano a le 5 variazioni, ma soprattutto la colonna musicale, che da sola spiega le profonde motivazioni del film più della sceneggiatura.
Rammstein, una delle band considerate spesso al cinema emblematiche del nichilismo o del postmodernismo, Bach con il famoso pezzo ripreso da Tarkovsky in “Solaris”, la emblematico evocatore del mondo dei ricordi, qui beffardo compagno nella via per comprendere “sesso e amore”, sempre raccontati in forma di ricordo, ma in modo beffardo.
Per finire l’ovvia citazione dalla Jazz Suite di Sostakovic, quella che piaceva tanto al Kubrick del Doppio Sogno, Eyes wide shut. Cosa meglio di questo brano, ormai evocativo a livello mondiale dell’essenza stessa del tradimento?
Bravo lars! aspettiamo con ansia il seguito, di questo che in realtà., è un potentissimo e ironico affresco della vita di coppia, ma ancor più della caoticità e assurdità delle relazioni umane.
Voto: * * *
Vito Casale
Dietro le quinte
Dall’icona all’uomo: è questa la linea guida sulla quale Jalil Lespert ha costruito Yves Saint Laurent, bio-pic dedicato al leggendario stilista francese, autentico rivoluzionario dell’haute-couture e del pret-a-porter su scala mondiale. Un viaggio che scava nell’intimità di un uomo timido e fragile, preda delle insicurezze e degli sbalzi umorali, silenzioso custode di un talento creativo di rara purezza: Yves Saint Laurent racconta la repentina ascesa al successo di un disegnatore appena ventiquattrenne cui venne affidata la direzione artistica della più grande casa di moda francesec- Dior – e delle mille traversie che lo portano dapprima a creare la propria maison e poi a conquistare il mercato globale, affermandosi definitivamente come una delle firme più prestigiose del panorama internazionale.
Patinato e inevitabilmente pervaso dall’approccio “glamorous” al racconto, Yves Saint Laurent è però un prodotto onesto, sufficientemente impermeabile alla potenzialità “gossippara” della storia: Laspert, pur senza mai nascondere la fascinazione per l’estro e la genialità dello stilista franco-algerino, non mistifica il personaggio, non lo trasforma in una caricatura di se stesso ma anzi cerca di esaltarne le sfaccettature e le incongruenze, tratteggiandone un ritratto sensibile. Il film tuttavia fatica a trovare una propria dimensione: il regista prescinde dagli schemi del biopic tout-court ma allo stesso tempo non sembra riuscire a trovare una lettura davvero originale della storia. A dispetto di quanto ci si sarebbe potuto aspettare anche la contestualizzazione della narrazione nell’“universo della moda” finisce per essere portata sullo schermo in maniera atipica, ritagliandovi uno spazio piuttosto marginale negli equilibri della pellicola: così l’evoluzione del contesto professionale in cui si mosse Saint Laurent finisce per essere suggerita sbrigativamente, rendendo più sfumata e meno incisiva la cronaca dell’impatto dell’industria YSL sulle dinamiche del settore.
D’altronde Lespert più che ai successi professionali dello stilista (che nel film ha il volto di Pierre Niney) è interessato all’umanità del suo protagonista e ben presto il film punta i riflettori sull’inquieta ma imperitura storia d’amore che legò lo stilista a Pierre Bergé (interpretato da Guillaume Gallienne), l’imprenditore cofondatore dell’azienda che per tutta la vita gli rimase accanto, assecondandone le spigolosità caratteriali, accudendolo nei momenti di difficoltà e celebrandone orgogliosamente i trionfi: il film è stato realizzato con il consenso e la partecipazione dello stesso Bergé, che ha aperto i suoi archivi personali e quelli della maison per consentire al regista di avere una visione d’insieme della “famiglia YSL”.
A quattro anni da Yves Saint Laurent – L’Amour Fou di Pierre Thoretton, il cinema continua a voler raccontare i mille volti dell’uomo che aprì gli armadi femminili ai classici capi basici del guardaroba maschile, che seppe tradurre nel linguaggio immediato e mutevole della moda i grandi classici della storia dell’arte. A breve peraltro dovrebbe arrivare sul grande schermo un altro biopic (Saint Laurent) incentrato su una specifica fase della carriera dello couturier, quella dal 1965 al 1976: il film – che pare non abbia potuto contare sulla stessa disponibilità dimostrata da Bergé nei confronti della produzione di Lespert – avrà la regia di Bertrand Bonello e nel cast sono annoverati Gaspard Ulliel, Jérémie Renier, Léa Seydoux, Louis Garrel e Jasmine Trinca.
Voto: 6
Priscilla Caporro
Chi non si accontenta del tramonto
Discusso, contestato, apprezzato e deprecato: Lars Von Trier infiamma – per l’ennesima volta – il dibattito fra estimatori e detrattori, e torna dietro la macchina da presa con un progetto ambiziosissimo e controverso, che chiude la sua Trilogia della Depressione (iniziata con Antichrist e proseguita con Melancholia) e che sintetizza alcuni dei tratti fondanti del suo cinema lavorando sull’accumulo di idee e suggestioni, di autocitazioni e parallelismi.
Distribuito in due parti (Volume I e II) e in due versioni (una “edulcorata” della durata di 4 ore e una integrale da 5 ore e mezza, che dovrebbe raggiungere le sale per la fine del 2014) Nymphomaniac è un lungo viaggio emotivo, ironico, drammatico e dissacrante nella vita di una donna che si definisce un “pessimo essere umano”, apparentemente glaciale, distaccata, cinica e del tutto disinteressata alle conseguenze che le proprie azioni determinano nei confronti degli individui che la circondano: la sua unica forma di soddisfazione – egocentrica, sottilmente egoistica ma non per questo non sofferta – è l’appagamento sessuale, che insegue costantemente in bilico fra “metodo” e compulsività.
Due minuti di oscurità accolgono lo spettatore e lo accompagnano nella storia: le immagini si aprono poi sulle gocce di pioggia e i fiocchi di neve che cadono copiosi e infine su Joe che è riversa in terra, insanguinata e con evidenti segni di percosse, abbandonata in strada fra i vicoli stretti e deserti di una zona residenziale periferica: si accorge di lei Seligman, che la soccorre e la invita in casa propria per prestarle una prima assistenza. La curiosità dell’uomo nei confronti di quella donna dall’aria misteriosa è però incontrollabile e ben presto Joe comincerà a raccontare la sua storia, dall’infanzia fino alla maturità, passando in rassegna i tanti e variegati incontri della sua vita.
Nymphomaniac Vol. 1 presenta i primi cinque capitoli degli otto che costituiscono il progetto ed è davvero difficile formulare un giudizio compiuto su una porzione visibilmente tronca di un racconto: la sensazione che si ha – avvalorata dalla rapida selezione di immagini del secondo volume che accompagna i titoli di coda – è che la deflagrazione effettiva delle potenzialità del film sia ancora tutta in divenire, e che solo a fronte degli ultimi tre capitoli sarà possibile comprendere a fondo il disegno di Von Trier. Tuttavia è evidente che siamo lontanissimi da tutte le speculazioni mediatiche che si erano accavallate nel corso degli ultimi mesi in attesa della presentazione ufficiale del film: Nymphomaniac è tutt’altro che un porno, quanto meno nella versione più corta (sebbene non siano risparmiate scene di sesso anche piuttosto esplicite). Il film – dolentissimo ma meno plumbeo di quanto ci si potesse aspettare – si inserisce con coerenza nella filmografia di Von Trier e si incastra con precisione nelle dinamiche dell’ideale trilogia cui fa riferimento: seguendo un percorso certamente poco uniforme, che alterna segmenti molto riusciti a parentesi nettamente più deboli, Nymphomaniac insegue una trattazione sardonica (ma non per questo meno partecipata) di alcuni temi universali, contrapponendo istinto e razionalità, spirito e carne, astrazione e concretezza.
Tra letteratura, pesca, matematica e musica, Von Trier racconta la solitudine di Joe e la sua vita “monotona e senza senso” – come la definisce amaramente lei stessa – , la necessità di colmare il suo disagio, la difficoltà nei rapporti umani con gli altri e la fredda consapevolezza di come l’utilizzo del proprio corpo e della seduzione non la aiuti a trovare una risposta alle proprie difficoltà ma anzi le amplifichi. Nel lungo e teatrale dialogo fra la donna e Seligman, un ebreo ateo garbato e poco incline ai giudizi affrettati, Nymphomaniac parla del sesso, dell’amore, del rapporto fra uomo e donna, di morale, di dolore e lo fa con un atteggiamento duplice, in una vera e propria full-immersion di auto-analisi (che presumibilmente va di pari passo a quella dello stesso regista).
Adesso non resta che attendere il secondo volume, la cui uscita in Italia è prevista per il 24 Aprile.
Voto: SOSPESO in attesa del II capitolo
Priscilla Caporro
Tesoro d’un nazista
1943. La guerra infuria in Europa, le truppe americane sono già sbarcate e si impegnano duramente a fronteggiare il Terzo Reich. Il professor Frank Stokes (George Clooney) oltreoceano si preoccupa del destino dell’immenso patrimonio artistico del vecchio continente, oggetto di depredazione da parte dei nazisti. Organizza perciò un improbabile plotone di sette tra direttori di museo, curatori e storici dell’arte, addestrati alla bell’e meglio e spediti alla ricerca di capolavori a rischio di sparire per sempre: una vera, assurda caccia al tesoro. Per quanto, come ammonito da Stone, una vita umana non valga un’opera artistica, l’impresa si rivelerà fin da subito tutt’altro che facile e richiederà molti sacrifici…
Al quinto lungometraggio, tra il debutto con un gioiellino quale Confessioni di una mente pericolosa ed il recente piccolo capolavoro Le idi di marzo, George Clooney sceglie un soggetto molto forte ed importante, tratto dal libro storico “Monuments men. Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della storia” di Robert M. Edsel e Bret Witter, edito in Italia da Sperling & Kupfer. La storia dei tanti uomini di cultura mandati in Europa, qui ridotto ad un gruppetto di sette, è un soggetto sulla carta vincente e forse troppo spesso ignorato – oltre alle numerosissime vite umane annientate, la follia nazista ha minacciato pesantemente una delle espressioni più alte dell’uomo – sostenuto da un altrettanto solido cast, sul quale però Clooney si adagia fin troppo, sceneggiando col fido Grant Heslov, anche produttore.
Partito bene, Monuments men mantiene per tutta la sua durata il tono ironico e sornione tipico di un marpione qual è il suo regista, complici anche le musiche di Alexandre Desplat che omaggiano palesemente quelle di Malcolm Arnold ne Il ponte sul fiume Kwai. Il buon George però non è David Lean e, pur ispirandosi a Quella sporca dozzina di Aldrich e indirettamente alle bande, alle armate ed alle combriccole monicelliane, riempie di inutili siparietti, dilatandolo oltremodo, un film che in più punti arranca e in sostanza non sa dove andare. Salvo poi accelerare in maniera estrema negli ultimi venti minuti, sbilanciandolo così in compattezza. A completare il quadro non mancano infine nazisti e russi da operetta ed un beffardo tributo all’inizio della guerra fredda.
Monuments men si salva soprattutto grazie ai meravigliosi attori di cui Clooney ha saputo contornarsi, lasciando loro carta bianca e libertà d’azione: il sorriso smagliante di Jean Dujardin, la rassicurante corpulenza di John Goodman, l’irresistibile accento francese di Cate Blanchett e lo sguardo assente ma capace di rompersi in commozione di Bill Murray contribuiscono alla tenuta di un film imperfetto, ma godibile e senz’altro dovuto.
Voto: 6 e ½
Paolo Dallimonti
La rivoluzione non è un treno in corsa
Anno 2014, per salvare la terra dal riscaldamento globale, finalmente ammesso, le principali nazioni liberano negli strati dell’atmosfera il composto CW-7, al fine di abbassare le temperature. L’esperimento ha però un risultato nefasto, causando la glaciazione dell’intero pianeta e l’estinzione di tutte le forme di vita.
Anno 2031, un lunghissimo treno viaggia su un percorso circolare, compiendolo per intero una volta l’anno, con a bordo tutti i sopravvissuti alla catastrofe mondiale. Il convoglio è il frutto del genio di Mr. Wilson, che in previsione della catastrofe lo ideò per salvare la razza umana. Dalla coda verso la testa del treno si estendono le classi sociali, con la “feccia” nelle ultime posizioni ed i benestanti in cima. Quando la misura è colma, i poveri dell’ultima classe guidati dall’anziano Gilliam (John Hurt) e dal suo naturale erede Curtis (Chris Evans) si ribellano ed iniziano la scalata verso la locomotiva…
Il regista coreano Bong Joon-ho, autore degli inediti in sala Mother e The host, ma usciti da noi rispettivamente in TV ed in home-video, si cimenta con il suo primo film in coproduzione con gli Stati Uniti e soprattutto in lingua inglese e – incredibile quanto raro a dirsi – non sbaglia il colpo! La vicenda di un futuro alternativo, con un sotto-tema ecologico, è ispirata al fumetto francese “Le Transperceinege” di Jean-Marc Rochette e sarebbe molto piaciuta a Terry Gilliam, al cui stile alcune sequenze come quelle nella testa del treno – la parte benestante – ed in particolare quella della scuola sembrano essere ispirate.
Sulla storia di un’umanità prossima alla fine e quasi allo sbando – che evoca solo lontanamente il millenarismo de L’alba del giorno dopo e di 2012 di Emmerich – si innestano le tematiche di un metaforico microcosmo, della lotta di classe affogata nei giochi di potere, di una dittatura quale unica, apparente soluzione alla sopravvivenza del genere umano, del gattopardesco “che tutto cambi affinché nulla cambi”, di un misticismo tecnologico – la locomotiva è considerata sacra ed in un certo senso le vengono offerti sacrifici umani al fine di sostituire i pezzi che negli anni si usurano – come anche verosimilmente futuribili accadimenti quali la glaciazione e lo sfruttamento degli insetti come fonte di proteine, comunque sempre meglio di quella adottata in 2022: I sopravvissuti (Soilent Green) di Richard Fleischer.
Al ritmo di un’azione sostenuta tipica dei film d’azione orientali, hongkonghesi o coreani che siano, che regala alcune sequenze memorabili come ad esempio il combattimento al buio della galleria e quello a suon di armi da fuoco nel vagone-scuola, si muovono egregiamente giovani leve quali Chris Evans e Jamie Bell, mentre attori eccellenti quali John Hurt e Tilda Swinton immolano il loro talento, il primo privato di quasi tutti i quattro arti, la seconda praticamente irriconoscibile sotto un trucco pesantissimo, con tanto di dentiera che ad un certo punto metacinematograficamente si toglie pure. A questo proposito, il regista ha dichiarato che l’attrice inglese avrebbe interpretato anche un altro ruolo, in una differente sezione del treno, truccata in maniera ancor più irriconoscibile. La caccia all’identificazione è aperta!
Note: passato Fuori Concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2013.
Voto: 7
Paolo Dallimonti
SNOWPIERCER
#IMG#Dopo l’arrivo di una nuova era glaciale che ha condotto all’estinzione la razza umana, i superstiti hanno trovato asilo a bordo dello Snowpiercer, un treno in moto perpetuo che circumnaviga il globo terrestre. Ma il treno è rigidamente diviso in classi, e i passeggeri dei vagoni di coda preparano una rivolta per assumere il controllo della locomotiva.
Tratto dalla graphic-novel francese “Transperceneige” di Jacques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette, Snowpiercer è la prima produzione in lingua inglese di Bong Joon-ho, che si affaccia sui mercati esteri grazie al notevole sforzo produttivo della CJ Entertainment. E bisogna ammettere che, rispetto ai deludenti exploit internazionali dei suoi connazionali Kim Jee-woon e Park Chan-wook, Bong ha ottenuto un risultato invidiabile, senza scendere a compromessi o rinunciare alle proprie esigenze artistiche. Se The Last Stand era uno svogliato action-movie girato col pilota automatico e Stoker era azzoppato da una sceneggiatura di rara idiozia, Snowpiercer fila come un treno (appunto), e il regista riesce nell’ardua impresa di realizzare un blockbuster intelligente (un vero e proprio ossimoro).
Lo Snowpiercer è un microcosmo della vecchia società, quella che si è estinta con la glaciazione, e ne ripropone la medesima struttura classista, che tende per sua stessa natura al collasso entropico. I diseredati, quelli che sono stati ammessi a bordo senza biglietto, sono ammassati come animali nei vagoni di coda, nutriti con miserande barrette proteiche d’incerta provenienza. Il Quarto Stato, segregato in un tenebroso antro, un accumulo di letti a castello, stracci e cianfrusaglie che rammenta un incubo di Dickens, sogna però la rivolta contro le élites, che abitano i vagoni di testa. Guidati da Curtis e dal suo mentore Gilliam (un ottimo John Hurt), gli umiliati e offesi si apprestano a scatenare una ribellione, che gli permetta di assumere il controllo della Sacra Locomotiva. Ma la sceneggiatura di Bong e Kelly Masterson elude le soluzioni troppo semplicistiche (vedi l’affine Elysium di Neill Blomkamp), e non dimentica di insinuare che le rivoluzioni possono anche essere orchestrate dall’alto, al fine di mantenere lo status quo.
Inoltre Bong e Masterson tratteggiano perfettamente i personaggi in fase di scrittura, con una verve ironica che surclassa il Terry Gilliam dei tempi migliori. Dal fascistoide Primo Ministro Mason, con tanto di dentiera e querulo accento britannico (una superba Tilda Swinton), all’esperto di sistemi di sicurezza tossicodipendente Namgoong Minsu (un sublime Song Kang-ho), la cui figlia Yona possiede doti di chiaroveggenza, fino al cinico (o realistico?) Wilford di Ed Harris, il multimiliardario che ha ideato il treno, il quale vive asserragliato all’interno della Sacra Locomotiva come un hobbesiano Mago di Oz, tutti possiedono la nitidezza di una corrosiva acquaforte all’acido nitrico.
Se inizialmente la struttura orizzontale, l’attraversamento di un treno alla Runaway Train di Konćalovskij, appare claustrofobica e limitativa, Bong sfoggia talmente tante invenzioni di regia, che ad altri basterebbero per dieci film. Dopo lo scontro iniziale all’arma bianca con i miliziani di Mason, risolto come una sinfonia di colori di stampo impressionista, una sequenza nella quale si contrappongono il biancore abbagliante della neve, il verde marcio dei visori notturni, il baluginare rossastro delle fiamme, ogni vagone riserva una sorpresa. Come lo stesso Snowpiercer, ogni vagone è un ecosistema chiuso, ma via via che ci si avvicina alla testa del treno l’atmosfera s’incupisce. Dopo l’aula scolastica nella quale un’invasata Alison Pill magnifica le qualità del munifico Wilford ai bambini, con un intermezzo musicale degno di un Disney sotto l’effetto del kronolo, Curtis, Minsu e Yona sprofondano in una decadente atmosfera da Overlook Hotel (“Shining” è esplicitamente richiamato nella colonna sonora con la canzone “Midnight, the Stars and You”), in cui si svolge una festa che non avrà mai fine. Macabro preludio sia all’agghiacciante confessione di Curtis (un sorprendente Chris Evans) che a una conclusione tutt’altro che consolatoria.
Con buona e defintiva pace di Marx, molteplici stilettate d’humour nero affondano nel cuore della lotta di classe; ritorna il gusto del regista per il pamphlet satirico ibridato con il film di genere (vedi The Host), nonchè l’irresistibile eccentricità di alcune invenzioni (la metafora della scarpa, il capodanno, il sushi), tutti elementi che sono il vero carburante che alimenta i motori hi-tech dello Snowpiercer. Il piacere del grottesco e dell’arabesco non riesce però a celare un marcato pessimismo di fondo, riassunto nella splendida inquadratura finale, in cui la miseria umana si specchia nello sguardo sognante di un orso polare.
Girato a Praga, con il fondamentale contributo dello scenografo Ondrej Nekvasil, del direttore della fotografia Hong Kyung-Pyo e della colonna sonora di Marco Beltrami, Snowpiercer travolge sferragliando almeno dieci anni di fantascienza americana. Per nostra fortuna, la locomotiva Bong Joon-ho non accenna ad arrestarsi.
Voto: 7 e ½
Nicola Picchi