Spoiler alert: si racconta anche la trama del film
Girata in pellicola e video digitale (poi riversato su pellicola e pesantemente ritoccato) e montata con Final Cut Pro (un software che gira su un qualsiasi Mac), arriva in Italia l’ultima opera di Soderbergh, reduce da una sfilza di successi a dir poco invidiabile (Erin Brockovich, Traffic, Ocean’s Eleven).
Il film segue le storie di alcuni personaggi (una pubblicitaria in crisi, la sorella massaggiatrice, il marito sceneggiatore e giornalista, un drammaturgo, l’attore e l’attrice del film Rendezvouz) che in qualche modo ruotano intorno al produttore Gus e al suo party di compleanno. Il tutto in una Los Angeles fredda e indifferente.
Full Frontal si propone di gettare uno sguardo disincantato e spesso ironico su un’umanità varia, vagamente legata al mondo del cinema. Ma le ambizioni alla Altman, una sceneggiatura noiosa e prevedibile, lo stile composito e nervoso (una videocamera digitale che si sposta di qua e di là, un montaggio pieno di tic, voice over, assenza di musiche di commento) costituiscono un quadro disomogeneo e fatalmente fallimentare, accolto con ben poco calore anche dal pubblico e dalla critica americana.
Il contrasto tra il mondo fittizio e convenzionale del “film nel film” – cioè Rendezvous – e il mondo reale in cui personaggi annaspano, è marcato stilisticamente dalle immagini: patinate e “costruite” quelle del primo; sciatte, sgranate e mosse (la videocamera a mano è d’obbligo) quelle del secondo. Che questa antitesi voglia simboleggiare un’ovvia e incolmabile lontananza tra la “finzione” e la (presunta) “realtà”, viene messo in dubbio dall’ultima inquadratura, in cui vediamo il quadro ingrandirsi sempre più, grazie ad una carrellata all’indietro che ci svela la troupe al lavoro, le attrezzature, il set.
Dunque, tutto è finzione? Mah.
Sta di fatto che la pellicola di Soderbergh – da molti considerata un ritorno alle atmosfere di Sesso bugie e videotape – appare davvero poco digeribile, pretenziosa nell’assunto, fiacca nei risultati. E rappresenta forse uno dei punti più bassi della carriera di un regista dalla filmografia quasi schizofrenica, risollevandosi soltanto in alcuni momenti – spesso gratuiti – di pura comicità (irresistibili i passi di breakdance provati dalla coppia di finte SS). Veramente poco, visto che per farsi due risate bisogna sorbirsi 110 minuti di confuso e banale polpettone.
Recitato con scarsa convinzione da un nutrito gruppo di interpreti, in un clima à la Dogma (spazio lasciato all’improvvisazione, attori in scena con gli stessi vestiti indossati per raggiungere il set), il film registra anche la presenza di altri volti noti e meno noti, in piccolissimi ruoli di contorno o in semplici apparizioni nella parte di loro stessi: Brad Pitt, David Fincher, Harvey Weinstein, Terence Stamp. Quest’ultimo, già protagonista dell’Inglese – forse uno dei migliori Soderbergh di sempre – appare proprio in un’inquadratura che cita letteralmente il film del ‘99. E l’autocompiacimento del regista sembra per un momento ridimensionarsi, soltanto quando egli stesso appare sulla scena, con un vistoso quadro nero sul volto (che abbia avuto paura di farsi guardar in faccia dall’annoiato pubblico in sala?).
Insomma una riflessione, in forma di commedia amarognola, sul cinema nel cinema nel cinema nel cinema, di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Sasha Di Donato