Recensione n.1
“Storia d’amore e de cortelli”
3 anni di preparazione invece che 1 significano sempre qualcosa…di solito che il film non è quel che hai pensato…questo è uno dei casi più eclatanti.
Filmone per eccezione, grandi scenografie e migliaia di comparse, molto movimento e buon ritmo, molti carrelli e panoramiche, costumi grandiosi, ricostruzione storica un po’ disneyana…
Sullo sfondo storico, molto sfondo del periodo della nascita di New York, si affrontano le due gang dominanti, un cattivo (Lewis) uccide il buono, il buono ha un figlio piccolo (Di Caprio) che medita vendetta. Il bambino cresce ed in una rinnovata New York in cui sbarcano orde di Irlandesi alla ricerca di un posto in cui vivere, in cui il potere politico manipola tutto e corrompe qualsiasi cosa, in cui il caos è volutamente reso tale, il bimbo cresciuto, diciamo “bimbone” conosce il “macellaio” il cattivo che ha ucciso il padre che non sa’ nulla della sua provenienza. Si affeziona al ragazzotto (un po’ come accade nell'”Isola del tesoro” di Stevenson) ma il ragazzotto -che medita vendetta- viene tradito dal suo migliore amico per via di una donna ( Cameron Diaz)… da quì il seguito immaginabile..
Non ci è interessato questo filmone, che ci è parso “pompato” e ammiccante soprattutto nella scena dei disordini civili a New York, messi forse per dare una vena politica al film e “spiazzare” con questo “baroccamento” la povertà della storia e dell’interpretazione.
Ugualmente l’uso del “cattolicesimo” mi è parso “strumentale” e abbastanza integralista.
Scorsese è un ottimo regista, ma i 90 milioni di dollari spesi mi sono parsi “sprecati” per una storia “de cortelli” , super “americana” con la celebrazione finale della New York che si trasforma nell’odierna megalopoli con le torri gemelle che si stagliano nel cielo. Le torri gemelle non esistono più, Scorsese ha “dimenticato” che tutto cambia, nel bene e nel male e nulla è indistruttibile. Nemmeno L’ AMERICA.
Nicola Guarino
Recensione n.2
Amsterdam, bambino irlandese, assiste allo scontro fra le gangs dei conigli morti (irlandese) e quella dei nativi. Suo padre, il prete, guida la prima e viene ucciso in battaglia da Bill il Macellaio (leader della seconda). Amsterdam rimasto orfano viene rinchiuso in un riformatorio.Lo ritroviamo, sedici anni dopo, a fianco di Bill.
Con destrezza diventa il suo braccio destro, gli salva la vita, ma non dimentica il suo scopo: la vendetta.
Non è facile riassumere in poche parole un film sognato da una vita dal maggiore regista americano vivente: Martin Scorsese.
Fin dagli anni settanta, subito dopo la lettura del libro di Herbert Asbury, sulla vita criminale nel quartiere dei Five points nella New York di metà ottocento, il regista ha coltivato il sogno di portare sullo schermo, attraverso un Kolossal epico, la storia della nascita della città che ama, New York. Assieme ad essa, la storia della nascita di un popolo (quello americano) e il racconto di una delle pagine più buie, la guerra civile e i riots (i quattro giorni di scontri a New York contro la chiamata alle armi, i più violenti della storia Americana).
Con un budget di 100 milioni di dollari, dopo estenuanti litigi con il produttore, Scorsese ha coronato il suo sogno, realizzando probabilmente l’ ultimo Kolossal in ” cartapesta”del cinema, l’ ultimo baluardo analogico e materico in un’ età figlia del digitale. E’ ovvio che la stupefacente ricostruzione della New York dell’ epoca, operata da Dante Feretti, è indispensabile fondale di un film fatto di corpi, sangue, sudore e polvere.
Il sottosuolo della città brulica di una babele di popoli e di lingue, che si combattono con una violenza barbarica e primitiva per ottenere lo spazio vitale e il diritto di cittadinanza. Nei gironi infernali, dentro il ventre della città vivono prostitute senza denti, assassini, mendicanti, marinai beoni. In u vaso davanti al bancone di un bar si gettano orecchie e nasi, orrendi trofei strappati ai nemici. La vita si svolge nelle bettole e nei bordelli, sulle strade polverose, e nelle caverne sotterranee dove gli uomini si spartiscono bottini frutto di razzie e violenze. Questo è il medioevo della New York del 1863. Le gangs sono vere e proprie tribù metropolitane, si rifanno ad antichi valori che li accomunano (la religione, la lingua, il colore della pelle), attraverso la violenza brutale affermano la propria esistenza.
Nella stupefacente scena iniziale, assistiamo alla chiamata alle armi e alla successiva lotta, combattuta a colpi di mazze e coltelli. Scorsese gira in modo sontuoso, attraverso volè della camera, continuamente mostra il particolare e il generale della battaglia. Alla fine della stessa il colore candido della neve è ormai diventato rosso per il sangue. Sangue come humus per le radici della città.
Tutta la pellicola sarà un continuo alternarsi fra il particolare (come la storia d’ amore fra Di Caprio e la Diaz) e il generale, con un centinaio di personaggi che entrano a far parte dell’ affresco. I sentimenti, le ambizioni degli individui come fulcro della Storia.
L’ ambizione è grande, far rivivere l’ intera storia di un popolo raccontandola ” dal basso”.
Una storia che non s’ insegna. Scorsese usa tutte le carte in suo possesso, alterna i registri che vanno dal drammatico, al melò, al farsesco. Esce ed entra dal quadro generale, stringendo ed allargando l’ obiettivo. Racchiude nel racconto le gangs, i mendicanti, le prostitute, ma anche i ricchi ignari che visitano five points come fosse uno zoo. I politici che ” usano”gli immigrati come bacino di voti, ” comprano le elezioni comprando gli scrutatori”. Così facendo Scorsese demolisce i falsi valori di un popolo, che si celebra continuamente come unico detentore della democrazia e della libertà. Dopo l’ undici Settembre, il progetto appare davvero sfrontato ed è ovvio che non sia stato gradito dal pubblico americano. Tutto il lungometraggio ruota attorno alla violenza, una violenza ineludibile. Valvola di sfogo delle tensioni e contrapposizioni sociali e razziali, di quel laboratorio di convivenza che era ed è New York.
Vengono alla luce due importanti spunti: la nascita di una nazione, giovane, bagnata e battezzata dal sangue e la paura che governa il tutto. Solo attraverso la paura sembra governabile ciò che appare ingovernabile. Vi attingono a piene mani sia le gangs che i poliziotti, i criminali ed i politici. L paura come unico motore sociale (come nel documentario Bowling for Columbine di Moore).
Le derive del racconto sono tantissime, l’ abilità del regista è ammirevole e inarrivabile, così come la sua sfrontatezza che lo accomuna a Griffith (” nascita di una nazione”) e a Ford. Il film che ne viene fuori è potente, epico, lirico, bello nella sua incompiutezza. Resterà sicuramente nella storia del cinema, anche se in molti ci chiederemo cosa vi fosse nell’ ora di tagli ope
rata dal regista. Con un ora in più Scorsese avrebbe potuto mantenere l’ arioso ritmo epico della prima mezz’ ora del film. Le tematiche così varie e importanti forse non sarebbero state compresse nella seconda parte. Rimane comunque molto. La nascita di una nazione, nata orfana (come orfani sono i due protagonisti), figlia della violenza e del sangue degli immigrati che hanno cercato di edificarla e il sogno di un uomo (Martin Scorsese), che grazie alla sua abilità nella manipolazione delle immagini, ha coltivato la speranza di racchiudere nella pellicola inorganica (di celluloide), la vita e la morte.
Paolo Bronzetti
Recensione n.3
Gangs of New York – Il teatro, il mito, le radici di una nazione.
Piace vedere un’opera che respira di saggezza letteraria, costruita intorno a decine di antiche invenzioni artistiche, tappe di centinaia d’anni di tradizione culturale. Monumentalità e passione. Queste sono le due bacchette magiche con le quali Scorsese anima la sua creatura. Lungo quasi tre ore di pellicola si passa agilmente dall’epica dell’Iliade, con i suoi capi guerrieri che capeggiano e insieme rappresentano eserciti di soldati senza nome, alla tragica passione degli scontri di Braveheart, ma colorati di una drammaticità inedita che è tutta della tragedia greca. E brulicando nello stretto intreccio con lo sfondo storico, da meritare addirittura l’accostamento a Guerra e Pace, si sviluppano trame shakespeariane e battaglie di colori tra le avvampanti bolgie degli interni e la fredda realtà degli esterni. Insomma, nel portare in scena la travagliata nascita di una nazione, il regista decide di prendere di petto il tema ricorrendo a tutta la potenza visiva della macchina da presa: utilizza dolly e gru nelle scene di raccordo e di attesa, fa palpitare il cuore con la camera a mano durante le battaglie, stringe sui primi piani per entrare nei bollori che ardono negli occhi dei protagonisti.
Incastrata a perfezione fra tanto sfarzo visivo sta l’interpretazione di Daniel Day-Lewis, nei panni di Bill Poole, un pirata di fine Ottocento, ultimo patriarca di una società sulle cui ceneri sorgeranno gli Stati Uniti d’America. Il sorriso sarcastico lo rende spietato, lo sguardo carismatico lo rende condottiero, la camminata tentennante rende alla perfezione la malfermità di un imperatore che tieni in pugno il suo impero col terrore del suo nome. Accanto a lui, brilla la fioca luce di un Di Caprio poco convincente. Se nella prima parte il suo sguardo non riesce a caricarsi dell’audacia di cui la trama lo doterebbe, nella seconda parte, nella quale deve trasformarsi in leader…beh, proprio non ci siamo. Lo sostengono l’ottima sceneggiatura e la sempre brava Cameron Diaz.
In ogni caso, Scorsese dipinge la pellicola con l’intensità di un quadro di Tiziano, e per favore, che non lo si chiami estetismo: dall’incipit drammatizzato e grandioso della battaglia fra clan fino all’epilogo sentimentale e patriottico degli U2, scorre tutta la voglia di valorizzare le radici del proprio Paese, trasportandolo in una dimensione teatrale e mitica. Perché sotto quei grattacieli così sofisticati e glaciali, sembra voler dire Scorsese, giacciono le fiamme e le spoglie di eroi che si sono contesi un tempo gloria e potere.
Francesco Rivelli
Recensione n.4
Il sangue delle generazioni che hanno fatto l’America.
Questo vuole rappresentare Martin Scorsese nel suo ultimo film.
“Gangs of New York” non è altro che l’affresco di una realtà cruda, violenta, vera…ciò che la più maestosa e drammatica metropoli americana nasconde nel suo passato.
E’ il fardello di un’eredità scomoda che Scorsese è riuscito a sviscerare, non in modo puntuale, preciso e perfetto, ma con ardore. Un ardore che si arma di lame affilate e scatena la più terribile delle guerriglie.
Lo sfondo è quello della placida baia newyorkese, la prima zona ad essere colonizzata, teatro delle barbarie con cui i discendenti di immigrati vogliono liberarsi degli immigrati più recenti, gli irlandesi. Ma quella che può sembrare una primitiva guerra all’ultimo sangue per la conquista del territorio, è in realtà ambientata nel XIX secolo e tratta da una cronaca del 1929.
Dalla pellicola emerge una democrazia-non democrazia di metà ottocento, basata sulla corruzione politica, sulla legge del più forte e sullo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi.
Abolite le leggi razziali, i neri non sono ancora accettati, domina la recessione e il paese è in guerra. Mentre dei vecchi soldati tornano a casa soltanto i cadaveri, le nuove reclute vengono arruolate prima con il denaro poi con la forza.
Intanto la città cresce ed è contesa tra le bande (le tribù come vengono chiamate nel film). Sono proprio due di queste, i “Nativi”, comandati da uno straordinario Daniel Day Lewis, e gli irlandesi “Conigli morti”, capitanati dai Vallon (prima Liam Neeson e poi Leonardo di Caprio), che si sfidano per la conquista di Five Points, sobborgo infernale ma anche nucleo vitale della città (che oggi chiama Wall Street).
C’è tutto in Gangs of NY. C’è il desiderio di violenza di un ragazzino che vede uccidere il padre sotto i suoi occhi, ma c’è anche l’intelligente introspezione della crisi di coscienza di quel ragazzino che comincia a vedere nel nemico il padre che non ha potuto avere e che prima di arrendersi al suo affetto cerca di dar sfogo alla rabbia.
Ci sono infinite caratterizzazioni politiche. Dal concetto di mafia che tutto comanda alla forma dell’attentato come principale metodo di eliminazione dei rivali. C’è lo stato nella sua più bieca accezione e i più fantasiosi possono persino vedere, nella folla disperata che assalta i negozi e le case, i black block dei giorni nostri, impegnati a rivendicare uno o nessun diritto.
E’ la guerriglia urbana che trascina il film, vittima di una, a volte , inesistente trama. Il collante è il sangue perché si ha la sensazione che nel percorso della non facile regia venga meno un filo logico, quel qualcosa che tiene insieme le continue esplosioni di violenza che hanno comunque il pregio di mantenere accesa la tensione.
Manca qualcosa per poter parlare dell’ultima fatica di Scorsese come di un capolavoro. Eccelsa per gli affreschi epici che regala, per la foga e la paura che crea e per qualche geniale intuizione che il regista disegna sulla pelle dei suoi personaggi, l’opera rimane, a tratti, povera di anima.
In questo dipinto storico e politico sulle origini della Grande Mela c’è di certo la sensazione di trovarsi di fronte a un lavoro immenso e immensamente ben riuscito (meravigliose sono infatti le scenografie realizzate a Cinecittà), ma calato il sipario, sulle note di Hands that built America degli U2, rimane un senso di incompiutezza, giustificato dal fatto che la pellicola in effetti è stata tagliata di circa un’ora.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il vero protagonista della storia.
Senza nulla togliere a un Di Caprio ben inserito nel suo ruolo e a una Cameron Diaz, per l’occasione lievemente imbruttita, lo scettro del migliore spetta a un eccezionale Day Lewis, il Macellaio di Five Points, che più di tutti suscita emozioni vere.
Nonostante le imperfezioni e la confusione narrativa che ne deriva, Gangs of New York è e rimane un magnifico scorcio di passato, molto attuale nelle paure che scatenano le guerre di oggi.
Reale è infatti il senso della paura che affiora sullo schermo e ancora di più lo è quel misto di angoscia e sbigottimento che si lascia scivolare sui titoli di coda.
Giorgia Zamboni
Recensione n.5
Il mito americano di un’equa società multietnica, la leggenda di una nazione che si forma dal basso, per contratto sociale tra i cittadini, va in pezzi nel kolossal di Martin Scorsese, che torna al film-monumento alla Casinò dopo gli episodi di Kundun e Al di là della Vita. Proprio come in Casinò Scorsese va a caccia di falsi miti e contraddizioni del tessuto sociale USA, portando, questa volta, la propria indagine al secolo scorso ed effettuando il percorso inverso: se la rievocazione della Las Vegas degli anni d’oro era in Casinò un po’ nostalgica e romantica, qui la vecchia New York di metà ‘800 è una città violenta e caotica, percorsa da violentissimi odi razziali, etnici e religiosi e governata da bande rivali che si sostituiscono allo stato. Questa sarebbe l’origine degli States, una spirale di violenza su cui lo stato, prima ipocritamente assente, impone dall’alto la propria giustizia. Vacilla il concetto di “nativo americano”, che indica, in realtà immigrati inglesi di seconda e terza mano, che disprezzano e combattono i nuovi arrivi irlandesi, in nome di un non meglio identificato diritto sulla terra. Questo nucleo di interrogativi di stampo sociologico, di grande attualità nella rigida america dell’era Bush, costituisce proprio il cuore di un film che solleva, invece, molte perplessità rispetto alla forma espressiva. La prima impressione è infatti quella di un film incompiuto, incompleto, caratterizzato da una sceneggiatura zoppicante e un po’ imprecisa. Se è vero che Scorsese, anche in difficoltà, rimane di gran lunga sopra la media qualitativa dei sui colleghi (e la prima straordinaria mezz’ora di Gangs of New York ne è un esempio scintillante), dall’altro lato non vengono completamente rispettate quelle attese senza dubbio lecite rispetto ad ogni suo nuovo fil. Difficile comprendere l’utilità di alcune sequenze narrative, di alcuni personaggi, di alcune concessioni ad un cinema un po’ patinato che non possono che stonare. Il rapporto tra i frastornati Leonardo Di Caprio e Cameron Diaz, spesso decisamente fuori posto, risulta superficiale e a volte solo malamente abbozzato, e la sequenza finale della battaglia nella rivolta, tanto suggestiva in alcuni punti, quanto caotica e approssimativa in altri, “arricchita” da particolari abbastanza grotteschi (come l’elefante che improvvisamente attraversa la città in rivolta. Perché?). Insomma, siamo ben lontani dalla sinfonia morbida ed avvolgente di Casinò o di Quei Bravi Ragazzi, e ci troviamo di fronte ad un’opera discontinua che alterna momenti straordinari ed epici a vertiginose cadute. Da rilevare, però, altri due elementi estremamente positivi: in primo luogo la straordinaria prova di Daniel Day-Lewis, che evita tutti i cliché del personaggio malvagio e regala al suo “Macellaio” un’ambiguità e una profondità che fanno completamente sparire Di Caprio, la Diaz e gli altri attori; il secondo elemento sono le sfavillanti scenografie di Dante Ferretti, bellissime, affascinanti, straordinariamente espressive.
Simone Spoladori
Recensione n.6
L’America macellaia di Martin Scorsese
Un film furente e tutto sopra le righe, dove più che documentare le origini del suo paese, Scorsese le ricrea a colpi di coltello.
Se 11 settembre 2001 era risultato alla fine un po’ tiepidino, un po’ timido, con questo film Scorsese, italoamericano nato a New York, fa il suo film su quell’evento.
Se 11 settembre aveva, nel complesso – e con le dovute eccezioni – un tono lirico-critico, Gangs of New York. è un ruggito, un’esplosione, un boato. E’ “L’urlo e il furore” del cinema americano.
Dietro l’epopea degli irlandesi immigranti di metà Ottocento si cela infatti la genesi violenta di una nazione, una nazione che ancora oggi si illude di possedere un’identità definita e che è invece il risultato di un crogiolo di razze mai assortito, nel cui inconscio collettivo giacciono mostri.
Se in Mean Street il prevalere del rosso era ancora omaggio al suo maestro putativo Michael Powell, in Gangs of New York il rosso è il sangue che scorre sulla superficie di un film che è fatto di carne e sudore, il film forse più “sensoriale” di Scorsese: se infatti l’impatto visivo è fortissimo e a momenti quasi insostenibile, sono gli odori che colpiscono, i suoni e gli accenti – irrimediabilmente perduti nella versione italiana; il senso del tatto, della penetrazione delle lame nella carne di corpi umani o di maiali. La carne cruda macellata dal “macellaio” Cutting (“tagliare”).
Ancora una volta lo stile fa la differenza. Un film che avrebbe potuto somigliare a tanti altri sull’epica americana, che avrebbe potuto spegnersi in una sceneggiatura tutt’altro che eccelsa, valica invece il crinale dell’equilibrio comodo, della catarsi prevedibile, e trascina tutti in un inferno di carne e sangue, quale solo Bosch o Clive Barker hanno saputo immaginare. Qui impariamo a conoscere il coltello, come nei film di Peckinpah conoscevamo il proiettile: il sibilo, l’urto, la ferita, lo strazio. Il coltello è la volontà disperata fatta acciaio di uomini tutto sommato marginali (Five Points è la zona portuale di New York) che lottano tra loro per segnare il territorio.
La scena del primo combattimento dove muore il “Prete” è uno dei momenti chiave dell’opera scorsesiana, da confrontare con la gelida perfezione della battaglie delle “Due Torri”. Il film è più grande dei suoi attori, tutti piuttosato bravi, ma tutti sostituibili tranne il farsesco Daniel Day-Lewis, azzaccata immagine-simbolo di un paese dove da sempre violenza efferata e retorica da palco vanno a braccetto.
Vittorio Renzi