In quelle rare occasioni in cui la realtà fisica dell’America d’oggi compare su uno schermo cinematografico l’effetto è sempre orribile, quasi osceno. Ma non succede quasi mai, nemmeno in quei film che si presumono ‘real’ o che pretendono di farci vedere come vivono i poveri. Quando un documentarista come Zwygoff o come Michael Moore in Bowling a Columbine, o Christopher Guest nel delizioso finto-documentario Campioni di Razza (e aggiungiamo recenti libri come Una Paga da Fama, della Ehrenreich, o Fast Food Nation, di Schlosser) ci fanno vedere l’America che abbiamo visto come turisti nei vasti spazi fra un posto da vedere e l’altro e ci confermano che sì, è proprio così, non abbiamo capito male, e possiamo ringraziare di non viverci. Possiamo anche pensare che questo sia un giudizio ingiusto.

Che il problema degli USA sia l’abisso gigantesco fra l’immagine che quella nazione ha di se stessa e la sua realtà effettiva, che di suo non sarebbe affatto male e che una rappresentazione appena realistica finisce per apparirci come una rivelazione ed uno shock. Non mi riferisco alla miseria ma allo squallore ed alla banalità, alla ristrettezza ed al grigiore, alla bruttezza fisica degli ambienti e delle persone. Sia Zwygoff, autore di un celebre documentario su Robert Crumb, che Daniel Clowes, il genio del fumetto americano ed autore della sceneggiatura tratta da una sua graphic novel, hanno un occhio acuto per questa particolare bruttezza americana. Ghost World è un film deprimente da tutti i punti di vista: non brutto, anzi. Deprimente. Nei ristretti confini del suburb californiano e quasi nel sottogenere del teen movie riesce ad essere una tragedia più di qualsiasi altra cosa vista di recente. La tragedia è quella di Enid, ben interpretata da Thora Birch (già in American Beauty che, per quanto bello, non riusciva ad essere veramente una tragedia). Enid è sensibile ed intelligente, ma non abbastanza. E’ in grado di rendersi conto della falsità e della pochezza di quanto la circonda ma non di costruire una alternativa o anche solo un atteggiamento pragmatico e ipocrita per sopravviverci. Si difende per mezzo di una hipness portata all’estremo, uno snobismo che giudica assurdo quasi tutto tranne pochi gusti e oggetti e atteggiamenti (simbolo: musical ‘rock’n’roll’ indiani degli anni 60). Non snobismo dall’alto, in nome di una cultura alta – di cui in Enid non c’è traccia; certo non lo snobismo di massa della pubblicità; ma quello snobismo laterale che si crea feticci di cose di per se’ abbastanza insignificanti se non come citazioni ironiche: but irony can take you only so far. Enid non vuole rapporti umani falsi e finisce per non averne nessuno e rovinare la vita sua e di quanti la circondano. Al centro del film la relazione con Seymour (uno splendido Steve Buscemi), che le mostra il suo futuro: un uomo privo di fascino, prigioniero di interessi snob che ormai detesta, che ha rifiutato il mondo ma che ormai ha accettato il fatto che il mondo rifiuta lui. Non c’è dubbio: i suoi amati 78 giri originali di bluesman leggendari sono meglio di quanto offerto dal mercato musicale d’oggi ma Seymour ha finito per imparare quanta poca felicità si possa trarre dai gusti giusti. Ma l’irruzione di Enid nella sua vita finirà per sconvolgere il suo faticoso equilibrio.

SPOILER
Ho come il sospetto che il finale del film possa rappresentare simbolicamente la morte di Enid, completando la tragedia fino alle sue ultime conseguenze. Ma adesso mi dicono che mi sono perso qualcosa alla fine dei titoli – che cosa?

Stefano Trucco