Recensione n.1
Un tema non nuovo come la caduta del Muro di Berlino trova, nel film di Wolfgang Becker, un’interpretazione leggera e simpatica. Si racconta, infatti, di un ragazzo che deve assistere la madre, fervente attivista politica, risvegliatasi dopo un coma di otto mesi causato da un infarto. Il problema e’ che nel frattempo la Germania e’ uscita dall’Est per andare incontro all’Ovest, con conseguente caduta del regime socialista. La madre e’ molto debole, un piccolo trauma potrebbe esserle fatale, e il ragazzo decide di proteggerla emotivamente facendo finta che nulla sia accaduto. Ricostruisce cosi’, tra le mura di casa, una sorta di “repubblica democratica privata”. Come in “Truman Show”, a dominare e’ la finzione: tutto cio’ che la madre ritiene naturale e ovvio, naturale e ovvio non lo e’ affatto, dai cetriolini Spreewald, sostituiti da altri di importazione olandese, ai telegiornali di propaganda, ricostruiti grazie all’amicizia con un aspirante regista.
Ma in “Good Bye Lenin”, a differenza del film di Weir, non c’e’ una critica al cinismo degli spettatori televisivi e alla spietata avidita’ dei mezzi di comunicazione, affamati solo di audience e inserti pubblicitari. La commedia degli equivoci, infatti, e’ piu’ che altro un pretesto per raccontare lo smarrimento del popolo tedesco pre e post unificazione, con la descrizione di un evidente disagio (pre) che sfuma in una liberta’ solo formale (post). Il protagonista finisce cosi’ per credere a un ideale che la realta’ ha sempre smentito e, piu’ che alla madre, la surreale messinscena a cui da’ vita serve a lui stesso, per dargli un’identita’ politica, un senso di appartenenza al mondo che lo circonda e in cui fatica a riconoscersi. L’idea di sdrammatizzare un tema a forte rischio retorica si rivela vincente e il film centra l’obiettivo di sensibilizzare attraverso il sorriso e la malinconia. L’unico problema e’ che la “commedia” e la “tesi” rischiano piu’ volte di stritolarsi a vicenda. Lo spunto alla base del film e’ forte e comunicativo, ma gli sviluppi narrativi non sono sempre all’altezza del soggetto, con trovate ora buffe, ora commoventi, ora semplicemente didascaliche o dispersive. Il teatrino che ne deriva, anche se divertente e calibrato, risulta quindi un po’ forzato, tutto teso a dimostrare piu’ che a raccontare. Pur gradevole e con un messaggio non banale, il film finisce cosi’ per perdere incisivita’, trovando un equilibrio grazie alla freschezza della confezione e alla verve, mai caricaturale, degli interpreti.
Luca Baroncini
Recensione n.2
Il figlio di un’attivista della Repubblica Democratica Tedesca, Alex, per non traumatizzare la madre, appena uscita da un coma che gli ha risparmiato la caduta del comunismo, si ingegna nel camuffare la realtà fingendo che nulla sia cambiato. Pare ci tocchi scomodare un paragone illustre (e forse un po’ imbarazzante) per parlare di Goodbye Lenin, malinconica commedia sulla fine del comunismo, campione d’incassi in una Germania che forse ancora oggi non riesce a dimenticare quella quarantennale lacerazione in cemento che l’ha umiliata, spezzandola e riducendola in due brandelli di stendardi ideologici.
Pare che, analizzando lo spunto narrativo utilizzato, ci tocchi appunto scomodare il pluridecorato e quasi intoccabile ‘La vita è bella’ di Roberto Benigni, il quale raccontando la favola di un mondo che non esiste ad un bambino, accarezza con poesia un preciso evento storico, lo sterminio nazista.
Anche in questo caso, infatti, Alex decide di nascondere la caduta del comunismo alla mamma, ex attivista della Repubblica Democratica Tedesca, appena risvegliatasi dal coma.
Ma se nel film italiano si tratta di un espediente polivalente (allegorico, melodrammatico, narrativo, retorico, ‘metrico’, nel senso che costituisce l’impianto strutturale della poesia che effonde…) che dava vita ad una storia di emozioni universali, al riparo da qualsiasi concetto storiografico, moralistico o parzialità di alcun genere, nel film di Wolfgang Becker questo risulta fondamentalmente un espediente per impugnare il microfono ed esporre un punto di vista.
Niente di male, quando il film è fatto con intelligenza e la giusta ironia. Nei panni di un giovane berlinese, il regista dapprima si diverte creando situazioni narrative da risolvere e infine declama un mondo che non sia tutto bianco o tutto nero, reclama il diritto e il dovere dell’umanità a coltivare l’uomo e non l’astrazione delle idee.
A quasi tre lustri dalla caduta di quel muro, il film si interroga sul tema non più nuovo della libertà nel capitalismo e delle sue forme di schiavitù. In mezzo a qualche nostalgico confronto con il comunismo, l’attenzione viene però giustamente dirottata sul personaggio di Alex, disegnato a tutto tondo con affetto ed orgoglio, prototipo di una generazione attiva e idealista. Quando, a furia di sviluppare il suo talento creativo filmando storie per la madre, Alex cala il sipario abbandonandosi alla propria visione del mondo, sentiamo un calore dietro la cinepresa (lo sguardo della madre consapevole dell’inganno) che accarezza la scena; scorgiamo così l’immagine del regista, che nel primo piano di Alex orgogliosamente si rispecchia: è il culmine drammaturgico del film ed insieme la constatazione che l’arte è essenzialmente un veicolo per parlare di sé stessi. Proprio come fa Becker.
Francesco Rivelli
Recensione n.3
Il protagonista di Good Bye Lenin è un ragazzo dalla faccia pulita e mobile,una scheggia di una realtà traballante e malandata che organizza un’imponente messa in scena,complice dell’aiuto di un furbo collega cinefilo.La Germania Democratica,verità e illusione,è una cella all’aria aperta che non concede nulla alle finte trasgressioni,alla stucchevolezza di personaggi falsamente incisivi,ma può accompagnare e dirigere una straordinaria opera di fantasia e di amore,l’amore che unisce un giovane discreto e riflessivo alla madre,una pasionaria di cui Becker ci offre un ritratto surreale,pittoresco e vivido insieme.Surreale ma credibile quando ci si sofferma sul rigore delle sue pratiche,del suo viso imbalsamato in un quadro di perfezione irraggiungibile dal quale affiora un sorriso dolce e mesto,sul suo incedere solenne in un mondo trasformato,di confine,che esplode nel disordine gioioso e deluso di una “controrivoluzione” rivelando le sue voragini e i suoi piccoli tocchi di miseria.Miseria tra i casermoni squadrati delle periferie di Berlino,sugli abiti smessi che la sorella maggiore del protagonista non vuole più indossare,nell’entusiasmo bruscamente ridimensionato per l’ascesa del capitalismo.
Berlino diventa un luogo estremamente affascinante,nella sua ibrida natura ben rappresentata dai locali musicalòi semidistrutti che circondano a effetto i sogni e gli smarrimenti dei suoi figli,in cui un campo lungo ritrae il ragazzo e la sua innamorata,una infermiera russa pragmatica.Tra loro anche una bambina,la nipote della protagonista,i cui primi passi spingono la donna ad alzarsi dal letto e a intraprendere una passeggiata sonnambula e un po’ onirica tra quelle strade che le sono proibite.Mentre gli occhi della donna convalescente,gelidi e mansueti,si aggirano nel nuovo mondo,la macchina prepara una sovrapposizione di piani esatta in cui ci sembra quasi che la statua di Lenin,il cui busto sradicato viaggia appeso ad un elicottero a bassa quota,tenda la mano nera e granitica alla sua esterrefatta seguace. Non farà altro che seguire quella mano,quella strada inesistente,quando il suo cuore debole cederà al peso di un passato sbagliato e ricostruito,all’intuizione di quella messa in scena e alla sua inadeguatezza ad una nuova apertura al mondo,un mondo vario in cui i suoi figli si sono già addentrati.
Chiara F
Recensione n.4
Ridere, anzi sorridere, e riflettere sui recenti eventi storici è possibile. E questa pellicola tedesca, grande successo cinematografico in Germania (oltre 5 milioni di spettatori) e premio come miglior film europeo al festival di Berlino 2003, né è la dimostrazione. Siamo nell’ottobre 1989 e la mamma di Alex, attivista del regime socialista della Germania dell’Est, a causa di un infarto cade in coma. Si risveglia otto mesi più tardi quando, nel frattempo, è stato abbattuto il muro e tutto è cambiato. Berlino est comincia ad essere tappezzata di cartelli della Coca cola, icona pioniera dell’avvento capitalista, e di venditori di pezzi di muro: riuscirà Alex a far credere alla madre, dopo il suo risveglio, che non è successo niente? Si susseguono così una serie di gag esilaranti, ma che provocano un sorriso amaro. Si riesce a toccare con mano quanto la caduta del muro abbia stravolto la vita dei cittadini dell’est. In otto mesi cambiano le abitudini alimentari, il modo di vestire (“Non lo vedi che stracci ci mettevamo?” osserva la sorella di Alex), perfino i tempi di attesa per poter acquistare un trabant (“dopo solo tre anni ci hanno consegnato la macchina nuova!” – osserva con stupore la madre di Alex). Così da piccole frasi, da scene di una quotidianità vissuta e stravolta da un’evento storico dalla portata eccezionale, riusciamo a cogliere nei tedeschi dell’est anche le difficoltà: la perdita dei primi posti di lavoro (il famoso cosmonauta è costretto a fare il tassita), la svalutazione della moneta e, perché no, i modelli imposti dalla globalizzazione e dal capitalismo (dal fast food ai promoter vestiti da pupazzi che ti inseguono nel supermercato). Si ride quindi, ma con amarezza, nell’antico stile del commediografo latino Plauto: sono cambiati i tempi ma le inquietudini degli uomini sono ancora le stesse.
Marco Argentiere