Recensione n.1

E’ il 1986 e un serial-killer sta per entrare nell’immaginario collettivo per non uscirne più. Solo che e’ troppo presto, il pubblico ha bisogno di un impatto più spettacolare, Brian Cox non e’ carismatico come Anthony Hopkins e la distribuzione non crede pienamente nel progetto. Cosi’ il bello e visionario “Manhunter frammenti di un omicidio” di Michael Mann, passa come una meteora e non lascia postumi, se non nei pochi che lo hanno visto. La vera consacrazione arriva dopo qualche anno con Hannibal Lecter protagonista assoluto de “Il silenzio degli innocenti”. Tra i tanti pregi del film, colpisce la sottile morbosità con cui lo spettatore si ritrova inconsciamente a parteggiare per lo spietato serial-killer, cannibale feroce ma anche abile manipolatore, capace di scavare in profondità negli irrisolti meandri psicologici del suo interlocutore. E’ il trionfo, e la matrice comune dei romanzi di Thomas Harris porta lo scrittore alla scelta quasi obbligata (se non altro per le sue tasche) di un ulteriore seguito, fatto su misura per la star Anthony Hopkins. Ecco così giungere sugli schermi, dopo il discusso successo editoriale e la dettagliata cronaca delle diverse fasi della lavorazione del film, il tanto atteso “Hannibal”. Difficile essere obiettivi con così tante aspettative, ma tentando di mantenere un candore di visione privo di pregiudizi (missione quasi impossibile), bisogna riconoscere che il film funziona. Nuocciono i paragoni con i due lungometraggi che lo hanno preceduto perché le intenzioni sembrano puntare, pur mantenendo la tensione psicologica tra i protagonisti, soprattutto su un grande spettacolo. E Ridley Scott riesce ad imprimere un taglio personale che, se non conquista, riesce comunque ad avvincere. L’incedere notturno di Hopkins/Hannibal in una Firenze caotica, ricorda molto da vicino il vagare di Harrison Ford nella Los Angeles del 2019. Anthony Hopkins mantiene carisma e fascino (anche se a piedi nudi in versione dandy casalinga rischia un pò il ridicolo), ma e’ Hannibal ad essere meno affascinante e il predominare del lato sentimentale su quello viscerale lo rende meno imprevedibile e spaventoso.
In fondo alla fine diventa una sorta di supereroe romantico che libera il mondo, a modo suo, da chi lo inquina. Julianne Moore sostituisce egregiamente Jodie Foster, anche se appare meno vulnerabile. Bravo Giancarlo Giannini, protagonista della parte fiorentina e ben strutturata la sceneggiatura, capace di rendere fluidi la visione e il collegamento degli eventi. Sulla paura ancestrale delle pulsioni, ha però la meglio il ribrezzo, e la fascinazione del male non diventa mai protagonista. Ciò che viene mostrato toglie ambiguità e impedisce al film di lavorarti dentro e di porre domande. In fondo Ridley Scott si conferma un bravo regista di intrattenimento e mantiene una tensione capace di coinvolgere per il tempo della visione, ma non lascia spazio a strascichi emotivi. Può sembrare poco ma, come già detto, ciò che nuoce e’ il confronto con il diverso spessore dei due film che lo hanno preceduto. Non dimenticando di considerare che, probabilmente, era diverso anche il taglio dei due romanzi da cui traevano origine.

Luca Baroncini de “Gli Spietati”

Recensione n.2

“Hannibal” e’ un film bellissimo.
Sorprende la compattezza del pubblico nel parlar male di questo film, ma poi ci si chiede come mai il medesimo pubblico continui ad affollare le sale in un fenomeno di follia collettiva degno di altri tempi. Comunque, checché se ne possa dire sul piano qualitativo (e il film si presta alle prese di posizione più disparate, tant’e’ la sua forza), “Hannibal” e’ un’autentico punto di svolta per il cinema contemporaneo, un film destinato a segnare un’epoca. Ma vediamo di entrare nel dettaglio.
La prima cosa che balza agli occhi quando si vede “Hannibal” e’ una: a differenza dei suoi illustri predecessori (“Manhunter” e il più accostabile “Il silenzio degli innocenti”), “Hannibal” non e’ un film d’autore. Non lo e’, perché c’e’ un regista su commissione (che non e’ nemmeno la prima scelta), c’e’ una sceneggiatura passata per più mani, e c’e’ la forte volontà di un produttore (Dino De Laurentiis) che e’ il vero propulsore artistico dell’operazione. Tutto ciò si rivela immediatamente nello spirito del film, che e’ quanto di più vicino a un fumetto e a un divertissement si possa vedere oggi sugli schermi. Perché questo e’ “Hannibal”: un sano e spassosissimo b-movie come non se ne facevano da anni, un horror senza pretese che punta solo sulla provocazione e sulla voglia di schockare il pubblico, un cinico e becero prodotto di xploitation realizzato all’interno della lobby hollywoodiana. L’unico esempio recente che mi viene in mente da poter accostare ad “Hannibal” per la vitalità narrativa e lo prezzo del bon-ton cinematografico e’ la trilogia di “Dal tramonto all’alba”, riuscitissimo tentativo di riesumare lo spirito anarchico e fracassone dell’exploitation anni settanta, ma qui le cose sono ben diverse. Perche’ la trilogia di Tarantino/Rodriguez nasce e si sviluppa come un’operazione indipendente, ai margini delle strutture produttive mainstream (specie gli ultimi due capitoli), mentre “Hannibal” e’ invece un clamoroso blockbuster hollywoodiano, ed e’ per questo motivo che la sua natura irriverente e “underground” stupisce ancora di più.

Con questo film il dottor Hannibal Leckter assume definitivamente i connotati di antieroe della nostra epoca. Scott (o chi per lui) eleva Hannibal ad indiscusso protagonista della narrazione, lo depura da ogni rappresentazione verosimile e lo trasforma nella maschera di un grande cattivo cinematografico, come prima di lui Freddy Krueger o Michael Myers. Hannibal e’ il nuovo Freddy Krueger, e’ l’antieroe indistruttibile e inafferrabile che gioca con le sue vittime e uccide con il sorriso sulle labbra, dispensando battutacce e humour a go go. Senza però mai cadere nel ridicolo, o nel demenziale esplicito: Scott conosce bene i limiti tra umorismo nero e farsa, e sta sempre bene attento a non valicarli. Il suo film risulta quindi si’ divertente e abbastanza rozzo da catturare l’attenzione, ma anche sottilmente inquietante, e in alcuni momenti, anche genuinamente terrorizzante. Un film malsano di certo, sordido e sporco, che fonde con una maestria unica la compiaciuta autoironia di chi non si prende sul serio al totale controllo delle corde delle suspense tipico di chi, come Ridley Scott, e ‘sommo domatore della macchina-cinema. “Hannibal” e’ il vero, attesissimo e forse definitivo punto di svolta dell’horror anni novanta. E’ il cambiamento che tutti auspicavamo. “Hannibal” fa piazza pulita, con una radicalità e un estremismo da lasciare senza parole, di tutte le carinerie e i compromessi politicamente corretti che hanno reso l’horror hollywoodiano degli anni novanta (e di rimando l’horror tout-court) un genere patinato, innocuo, asettico e votato perdutamente ai rifacimenti in pompa magna.
Con “Hannibal” l’horror riacquista il senso del disturbante, dello sgradevole, dello sprezzo e dello sberleffo ai danni dello spettatore. Scott non si concede limiti, e osa come nessun altro prima di lui: sangue a ettolitri, viscere che si schiantano sulla strada, uomini che si sfregiano la faccia e la gettano ai cani, un atroce freak mostrato per intere sequenze alla luce del sole (e, incredibilmente, ciò non cade mai nel ridicolo! questo e’ osare), cinghiali che azzannano e scuoiano incauti malcapitati (tra cui il nostro Ivano Marescotti), e per concludere…. la scena del cervello.
La scena che ha fatto abbandonare la sala a molti spettatori, la scena che fa sentire male, che ha fatto svenire e vomitare il pubblico in sala, autentica provocazione al buon gusto degna di un Andy Warhol, o di un H.G.Lewis. Ebbene si’: Ridley Scott infrange tutti i tabù del cinema mainstream, e ci fa vedere cose che fino a ieri soltanto Jess Franco aveva il coraggio di mettere in scena. E il pubblico affolla le sale e decreta pollice su: il politicamente corretto esce finalmente di scena, con un colpo secco che non ammette concessioni. Ecco perche’ insieme a “The Blair Witch Project” (che si muoveva però su un livello opposto, sia produttivo che artistico: da indipendente, e senza mostrare nulla), l'”Hannibal” di Ridley Scott e’ il film horror più importante della nostra epoca, autentico spartiacque destinato a segnare una svolta, sintomo plateale dei tempi che cambiano.

K A P L A N

Recensione n.3

Dal mediocre romanzo omonimo di Thomas Harris, scritto in vista di un seguito cinematografico del Silenzio degli innocenti (1991): l’agente federale Clarice Starling è incaricata di trovare Hannibal “The cannibal” Lecter per conto di un medico (come buttare via i soldi: sotto otto strati di lattex c’è Gary Oldman) che si vuole vendicare per essere stato da lui costretto a sfigurarsi. Le indagini la portano a Firenze, dove Lecter insegna e recita Dante nella biblioteca Capponi ed è perseguitato da un commissario che vuole la taglia che pende sulla sua testa. Il film più atteso e chiacchierato della stagione, costato al produttore Dino De Laurentiis la bellezza di 87 milioni di dollari: molto rumore per nulla, tanto più che, purtroppo, conferma la perdita definitiva di un altro grande regista, sempre più sottomesso alle leggi del mercato. A Scott ormai rimane solo la professionalità, ciò che gli permette di girare un thriller convenzionale, lontanissimo dall’approfondire psicologie e indagare menti, colpa anche degli sceneggiatori Steve (Steven) Zaillian e David Mamet, che un tempo nutrivano ben altre ambizioni. E se si voleva liberare dal peso del confronto col film di Demme, che bisogno c’era di imitarne l’atmosfera, le musiche e intere scene (fin troppo evidente quella del footing di Clarice nel bosco)? Per venti miliardi di lire, sir Hopkins (che, come sempre, ha letto 250 volte la sceneggiatura per impararla bene) non si è fatto pregare due volte; più saggia, lungimirante e uella quelleq meno venale la Foster ha rifiutato l’offerta e non compare in un film che scivola, alla fine, nell’horror pecoreccio e nel ridicolo involontario, tanto più che di ironia non ce n’è nemmeno una briciola. Girato tra Firenze – spacciata per una metropoli multietnica alla Blade runner, dove i paesaggi sono da cartolina e i telefoni pubblici squillano come in America – la Sardegna, Asheville (North Carolina), Richmond (Virginia) e Washington. In attesa del terzo episodio, è tutta da gustare la scena più terrificante del film: Francesca Neri che declama un passo della Vita nova di Dante. Rarissimo caso in cui le sale cinematografiche hanno applicato l’auto-censura, dopo le polemiche insorte a causa del mancato divieto ai minori di 14 anni. THRIL 129’ * ½

Roberto Donati