Si diceva di Heimat (1) e della storia.
In breve, non ho mai visto un opera d’arte filmata così perfetta dal punto di vista storico. Altre potranno essere state migliori da un punto di vista strettamente estetico (ma mica tante), altre potranno essere altrettanto accurate nella ricostruzione storica (ma mica tante) – Heimat ha tutto. La storia del piccolo villaggio di Shabbach dal 1919 al 1982 è, allo stesso tempo, perfettamente individuata (vi succedono certe cose e non altre, ci sono certe persone ben specifiche e caratterizzate) e perfettamente simbolica (la Germania, la campagna, non solo tedesca). La storia evenementielle (il nazismo, la guerra) si inserisce perfettamente nella longue durée (l’impatto della modernità su una piccola comunità isolata, l’effetto del benessere). Shabbach, nell’Hunsruck, fra il Reno ed il Belgio, è un paese in cui non succede nulla, un paese che subisce la storia che si decide altrove, un paese estremamente conservatore e di vedute ristrette che però si adatta a tutto. All’inizio, quando Paul torna dalla guerra, Shabbach potrebbe essere ancora nel Medioevo. Lungo tutta la storia, vediamo arrivare la tecnologia in una serie di scene bellissime che spesso paiono epifanie: la prima radio, la prima auto, il primo aereo, le autostrade, il telefono… Vediamo cambiare il borgo medievale in una cittadina qualsiasi del 1982, con gli infissi d’alluminio e le antenne televisive. E intanto immaginiamo l’incredibile lavoro di Reitz e degli scenografi nel trasformare la cittadina qualsiasi del 1982 in un borgo medievale. Non ricordo una opera che rappresenti con tale precisione l’impatto della tecnologia sulla vita quotidiana, quella che forse è la ‘main story’ del XX secolo. Anche le tecnologie morte o dimenticate, come il penultimo episodio – Gli Anni Ruggenti – incentrato sul telex. Mille scelte di dettaglio indicano non solo una conoscenza storica raffinata ma anche un’autentica vita vissuta, da Reitz e dai suoi parenti. Non è la storia ufficiale televisiva-giornalistica. Due esempi minimi: le donne che nel 1939 vanno al cinema non vedono certo Leni Riefenstahl ma film musicali con Zarah Leander, cioè l’autentico cinema tedesco del tempo, ignoto fuori dalla Germania; i giovani intellettuali di provincia che nel 1955 formano un gruppo musicale non fanno rock’n’roll, come prevede l’ortodossia della memoria, ma suonano jazz, come sarebbe stato infinitamente più probabile. Un po’ la differenza fra la storia scritta dagli storici e quella scritta dai giornalisti. Reitz è certo un uomo di sinistra ma si rimane colpiti dall’equanimità e misura in cui rappresenta un mondo in cui, a parte forse l’artista Hermann, ci sono solo persone di destra. Nel secondo episodio un personaggio ci dice come ha votato il paese nelle elezioni del 1930: la maggioranza per il centro Zentrum cattolico, parecchi per i nazisti, qualche nazionalista e 2 socialdemocratici ‘ma uno è andato via subito dopo’. Ma le virtù di Shabbach sono autentiche, per quanto ristrette e a tratti meschine, incarnate soprattutto dalle donne, in particolare Maria. Così pure faccio fatica a ricordare in un film un ritratto altrettanto positivo di un imprenditore come quello del figlio di Maria che mette su la fabbrica di strumenti ottici. Il fatto che in Heimat non ci siano quasi buoni e cattivi integrali (benchè il figlio di Weighan, l’SS, ci vada vicinissimo) è indice non solo della grandezza d’animo di Reitz ma di una chiara consapevolezza di come funzionano le persone nella realtà storica concreta come pure nella vita quotidiana. Ci sono il bene ed il male, non ci sono buoni e cattivi. In uno sceneggiato americano o italiano Shabbach sarebbe stata fornita di un ebreo residente che avrebbe potuto dimostrare la sua capacità di soffrire e gli altri personaggi sarebbero stati divisi in buoni e cattivi a seconda dei loro rapporti con l’ebreo, in maniera molto chiara. Ma a Shabbach non ci sono ebrei e un antisemitismo di base ha modo di esprimersi in poche battute crudeli e casuali. Per la massa dei tedeschi l’antisemitismo non era importante, non ardevano d’odio: più che altro lasciarono fare, si lasciarono coinvolgere, non si opposero (i diari di Goebbels sono pieni di lamentazioni sullo scarso fervore antisemita dei tedeschi). L’Olocausto – una realtà talmente grande da non dover nemmeno essere citata espressamente – non fu la furia cieca di un pogrom ma un procedimento amministrativo. A Shabbach non sarebbe potuto nascere, come pure non ci si sarebbe opposti. Reitz non romanticizza i sani valori antichi che chiaramente ammira: sa benissimo quanto possano essere gretti e ristretti. Lui è Paul o Hermann, quelli che scappano – e poi tornano. Per non tirarla troppo in lungo, vorrei solo ricordare la strana qualità surreale, onirica o melodrammatica delle scene che si svolgono lontano da Shabbach: il viaggio di Eduard a Berlino, la telefonata dal fronte russo, la clamorosa scena durante la battaglia di Berlino (che mi ha fatto pensare a Fassbinder)… E come l’onirico finisca per impadronirsi di Shabbach nel gran finale felliniano dopo la morte di Maria, quando ormai la comunità è stata completamente inglobata nel mondo moderno e nulla la distingue o caratterizza più. Insomma, das war echt Klasse!
Stefano Trucco