Apparentemente la trama sembra ben più che scontata, ma col passare dei minuti si rivela in tutta la sua originalità: due ragazzi decidono di viaggiare in Europa con l’unico scopo di divertirsi, “spaccare” e soprattutto “conoscere” tante giovani e belle signorine.
Conoscono un terzo ragazzo (il più simpatico e sfrontato del gruppo) e una volta lasciatisi inebriare dal profumo del peccato di Amsterdam, sotto il consiglio di un soggetto per nulla raccomandabile, si dirigono in tutta fretta in terra slovacca (più precisamente verso un famoso ostello) dove pare che le ragazze siano disinibite ai massimi livelli…ragione o torto? Le cose sembrano andare per il meglio per la simpatica combriccola, ma improvvisamente cominciano a scomparire uno ad uno.
Colori scuri (un po’ troppo), musica indefinibile a metà tra un horror vampiresco e un disco di emocore, street punk, techno industrial fanno da sfondo alla meravigliosa Amsterdam, luogo di perdizione e di delirio assoluto (e continuo). Il ritmo è veloce, la compagnia è ok, così come i dialoghi (la mano di Tarantino si riconosce da subito), e mi stupisco di come non appaia sullo schermo il buon Michael Madsen, uno dei soggetti preferiti del nostro Quentin.
Tutto promette bene, e il livello di trash sembra aumentare ogni minuto di più. Poi, d’improvviso, la terra slovena, fredda, oscura, da brividi, così come il sottofondo musicale, teatrale che lascia presagire dei risvolti di sangue…
L’ostello in cui giungono i nostri amici è il paradiso disceso sulla terra, veramente da non credere! Modelle russe, slovacche che li invitano in ogni momento in discoteca, una più bella dell’altra, insomma, una situazione assolutamente surreale…ci deve essere sotto qualcosa, e infatti.
La trama comincia a complicarsi, si ritorna nella camera delle torture con Zed e Marcellus Wallace, con gli “strumenti” da lavoro tipici di Non aprite quella porta e Creep il chirurgo…già, il chirurgo, interessante prospettiva sul dottore proveniente da casa Tarantino!
Che dire, la storia, o meglio, il movente degli omicidi è davvero ottimo e originale, ma la resa sullo schermo non è delle migliori e soprattutto non è all’altezza dei nomi degli autori. Una volta resoci conto della storia in sé il ritmo diviene inspiegabilmente lento, noioso, banale, e soprattutto (madornale lacuna per un horror) non c’è la benché minima traccia di tensione. Uno splatter senza tensione perde la sua anima, così come Hostel: parte benissimo, ma si perde tra le sue orme, si confonde con la sua ombra, non trova più la strada verso l’orrore più disumano e insopportabile, quello psicologico (oltre che fisico). Perché il mitico Quentin (prima di addentrarsi nella realizzazione di un horror “serio” non ha visto e rivisto pellicole firmate da Carpenter, Barker e Hooper? Che forse abbia pensato che un po’ di sangue e splatter bastino per avere un posto là, nell’olimpo del male? Non ci siamo proprio, amico).
Dispiace enormemente perché nella produzione figura appunto il nome del regista che ha rinnovato il cinema da circa 10 anni a questa parte (Tarantino), e forse è solo per questo motivo per cui il film ha letteralmente disintegrato i botteghini in America! Già Eli Roth non si era per nulla distinto con i suoi precedenti lavori, come Cabin Fever (orribile), per cui deve al possente nome del suo amichetto se la gente non vede l’ora di correre al cinema. Ci vuole ben altro per girare un horror. Perché Lang, Murnau, Wiene e soprattutto James Whale sono considerati i grandi maestri dell’horror noir del passato pur non avendo avuto a disposizione praticamente alcun effetto speciale? Perché non era solo cinema, era teatro, attori che portano sulla scena la paura, il delitto, l’angoscia e la perdizione. Tutto questo manca in Hostel, per non parlare degli innumerevoli punti deboli che portano un sorriso sul mio volto profondamente deluso, già, credevo molto in questo film, osannato dalla critica; chissà quanti come me sono fatti ingannare dalla magnificenza del trailer!
L’unico plauso va all’ultimo quarto d’ora del film per via di un paio di scene veramente rosso sangue peraltro scopiazzate da un genio assoluto quale Takashi Miike (Ichi the Killer, Visitor Q, Audition), solo dal punto di vista estetico però; Wolf Creek, The Descent, Creep il chirurgo e la Casa dei 1000 corpi (del fantomatico Rob Zombie) vincono la sfida con Hostel per 1000 a zero.
Voto: Sconsigliato
Emiliano Sicilia
L’horror è uno dei pochi generi, se non l’unico, a sopravvivere con una certa dignità alle crisi economiche ed artistiche attraversate periodicamente dal cinema.
Il successo di Hostel non può pertanto considerarsi un caso. La produzione esecutiva di Tarantino è certamente un ottimo traino pubblicitario anche se gli attori sono degli emeriti sconosciuti e il film è stato girato con un budget esiguo. Cominciamo però col dire che la star di Pulp Fiction non ha alcun ruolo artistico nell’opera seconda del mediocre Eli Roth. Con quest’ultimo condividono la passione per l’horror asiatico, per il sangue che scorre a fiumi e per i soliti ed abusati b movies italiani degli anni 70. Ma Tarantino ha “messo i soldi” ed il suo nome giganteggia sui terrificanti manifesti, un modo semplice e furbetto per ipotecare gli incassi.
Come ogni horror che si rispetti, dietro un aspetto superficiale e banale Hostel offre anche una chiave di lettura metaforica ed interessante. Non è un film perfetto ma scuote ed infastidisce lo spettatore. Non merita gli attacchi ricevuti dai vecchi tromboni della critica nazionale anche se, ripetiamolo, ha dei notevoli limiti nonostante resti un’ operazione coraggiosa. Non si deve dimenticare infatti che altri horror, anche migliori, sono destinati a circuiti di distribuzione limitati mentre Hostel è prodotto da una major e sta raggiungendo il grande pubblico nonostante contenga scene di una certa efferatezza.
Roth si è ispirato ad un sito Tailandese dove per alcune centinaia di dollari puoi uccidere e torturare un essere umano. Lo snuff movie, Takashi Miike, Jhon Landis e il gusto perverso di assistere alle decapitazioni in diretta tv dell’ultima guerra in terra araba, sono i modelli che hanno guidato la mano del regista.
In effetti, Hostel narra la storia terribile di due ragazzi americani che cercano “ carne” femminile da comprare e da godere per poi diventare loro stessi carne in vendita da macellare per la goduria di altri.
Una sorta di castigo quindi, una punizione per chi ha voglia di “vedere” troppo e che sua volta viene osservato sadicamente mentre viene fatto a pezzi subendo le torture più atroci. Una punizione che si riflette anche sullo spettatore, soprattutto negli ultimi quaranta minuti di film.
E’ questa la chiave di lettura che Roth ha cercato di fornire. Un esperimento però riuscito soltanto parzialmente.
La prima parte è girata in pieno stile American Pie o Euro Trip, poi, secondo uno stile ormai scontato, alla vacanza e ai sorrisi subentra l’incubo e la macelleria dell’ostello con un notevole calo di ritmo.
Non mancano le godibili scene esplicite di sesso così come quelle irritanti e fastidiose della tortura che sconfina nel gore. Hostel però naufraga nel tradizionale finale di fuga e vendetta che riesce a far venire meno quelle caratteristiche di film malato e perverso che Roth sembrava essere riuscito a realizzare.
Nonostante tutto, si sfida chiunque ad uscire dalla sala e a restare indifferente.
Francesco Sapone
Autore della insipida rimasticatura “Cabin Fever” (ma in molti hanno abboccato), il giovane Eli Roth torna con prepotenza al “genere” che gli ha dato il successo. Questa volta il risultato, pur senza particolari shock e superlativi, non è solo grazie al marketing e al beneplacito di Quentin Tarantino che riesce a conquistare. Il merito è di un’idea forte alla base del soggetto e di un certo equilibrio nelle varie componenti filmiche. Roth riesce a governare una prima parte abbastanza routinaria, ma non insulsa, in cui si creano le premesse del terrore, con una seconda in cui l’attesa trova adeguato sfogo. Le scelte di regia non sono particolarmente originali (le soggettive delle vittime, il sadismo dei dettagli, la violenza centellinata e spesso fuori campo) ma efficaci, le musiche esaltano il crescendo di ogni sequenza senza la consueta invasione di botti in Dolby Surround e gli effetti speciali fanno il loro sporco dovere imbrattatore (parlare di gratuità, dato il soggetto, sarebbe poco consono). Gli interpreti si prestano con docilità alla mattanza, giostrandosi abilmente tra la superficialità richiesta nella prima parte e il raccapriccio necessario a sostenere la seconda. Alcuni momenti non si dimenticano, in particolare tutti gli incontri tra vittime e carnefici, che esaltano il contrasto tra i punti fermi della ragione e la deriva del “lato oscuro”. Un luogo di non ritorno dove la vita umana si riduce a mera carne da brutalizzare. La complessiva riuscita non è però esente da difetti. L’atmosfera malata, l’assenza di apparenti vie di fuga, la crudeltà esibita, lascerebbero presupporre un forte coinvolgimento emotivo, invece il retrogusto ha un vago sentore di plastica. La causa è da ricercarsi nel debole abbozzo delle psicologie, nelle coincidenze narrative che ammorbidiscono l’impatto della conclusione, eccessivamente lineare e geometrica (il ruolo dei bambini, l’improbabilità della fuga e lo sbrigativo compimento della vendetta) e nel troppo blando substrato ideologico. La forte connotazione geografica (il male viene cullato a est, nei pressi di Bratislava) non trova infatti adeguato approfondimento, e il discorso politico si limita a un evidente quanto banale dato di fatto constatando come l’aberrazione sia figlia della disuguaglianza sociale. Così come è troppo ambiguo lo sguardo del regista nei confronti dei grossolani protagonisti, che vengono in Europa con un bagaglio di ignoranza e pregiudizi per cercare, non lesinando in tracotanza, ciò che nel loro paese si limitano a favoleggiare. Il modo in cui viene mostrata Amsterdam, poi, gronda luoghi comuni. Tolto quello che si sarebbe voluto dal film, resta il film così com’è. E l’insieme, pur con qualche riserva, intrattiene a dovere.
Luca Baroncini de gli spietati