Recensione n.1
Vigo, nord della Spagna. Molti operai del cantiere navale sono stati licenziati a causa della recessione economica. Tra questi troviamo Santa, Josè, Lino, i protagonisti del film di Aranoa. Ciascuno cerca di sbarcare il lunario come può, cerando di sopravvivere con la cassa integrazione. C’è chi ha aperto un bar, chi cerca di presentarsi ai colloqui di lavoro tingendosi i capelli, chi si fa mantenere dalla moglie che lavora in una pescheria, chi come Santa vive in una pensione e fa il baby sitter. I giorni sono sempre uguali, come i lunedì che passano parlando e sognando sulla spiaggia. Qualcuno non ce la farà, gli altri aspetteranno l’ennesimo lunedì al sole.
Il film di Aranoa si rivela una bellissima sorpresa nell’addormentato panorama cinematografico di questi tempi. Una storia semplice, non lontana dalla realtà narrata con semplicità e garbo I quattro attori su cui svetta un ingrassato Bardem, riescono a calarsi perfettamente nel ruolo di questi operai lasciati a loro stessi, alla loro vita ormai diventata inutile, con l’ombra e l’incubo di trovarsi letteralmente sulla strada.
Ma non c’è cupa disperazione o lancio di inutili proclami. C’è invece la descrizione di una storia di amicizia tra uomini, ex colleghi di lavoro, ora legati dalla stessa sorte. Perché allora come Santa non sognare di essere agli antipodi, in Australia, dove avviene tutto il contrario di quello che esiste in Spagna, dove addirittura di danno gratis la terra da lavorare? O tentare di ritrovare il lavoro dipingendosi i capelli? O sognare di partecipare ad un telequiz, dove si vincono soldi? Tutto è consentito nei sogni di questi uomini, che non perdono la loro dignità nonostante tutto, nonostante per la società siano solo un peso. Non si rivolgono a miracolistiche agenzie di lavoro temporaneo, non stanno a piangersi addosso. Vivono la loro condizione, con la disperazione nel cuore, ma con una dignità esemplare. Capaci anche come Santa di dare una lettura sensata alla favola della cicala e la formica ad un bambino, sottolineando come la formica sia una vera st… a non aiutare la cicala..
Grazie dunque ad una sceneggiatura molto bella, il regista lega molto bene i momenti patetici ( sui quali era facile scivolare) ai momenti comici, regalandoci un film leggero e profondo allo stesso tempo. Aperto da immagini di repertorio con scontri fra operai e poliziotti in occasione della chiusura del cantiere, il film si chiude sull’ennesimo lunedì al sole, uguale a tante altre giornate di questo gruppo di amici, che secondo il parere di molti nostri concittadini che hanno abbracciato la mentalità delle tre I, non sarebbero che uomini inutili. Allora grazie signor Aznar.
Mauro Madini
Recensione n.2
Le immagini televisive degli scontri degli operai dei cantieri navali con la polizia a Gijon nel 2000, che preludono al racconto delle vicende del gruppetto di cassaintegrati colpevoli della loro attività sindacalista sembrano annunciare un referente formale interamente catodico attorno la quale si articolerà tutto il discorso filmico; infatti è lo stesso succedersi di un’istanza realista e di una convenzionale a manifestare un sussiego verso quei codici interpretativi che vanno ad addensarsi attorno alla figura mitica dello spettatore medio che l’immagine televisiva sceglie come destinatario principale del proprio messaggio.
La classicità del linguaggio compositivo dell’autore si risolve infatti nelle semplificazioni dei trattamenti della parola, per esempio secondo la stretta unità con il quadro e quindi con la pratica del campo e controcampo che ne consegue, oppure nei fenomeni di ridondanza quasi tautologica che arrivano a coinvolgere anche il fraseggio dell’accompagnamento musicale al film, (e questo è simile infondo all’imbarazzo procurato dall’espressione macchinica dell’immagine che aveva richiesto la comparsa di pianoforti accanto agli schermi nella stagione del muto, e che ora sembra esigere dalla forma più codificata dell’espressione filmica la capacità formativa delle logiche linguistiche); mentre il realismo si stabilisce come atteggiamento determinato forse maggiormente dal timore di rompere la chiarezza analogica della narrazione piuttosto che dalla scelta morale dell’autore ed arriva ad infrangersi solo nella proliferazione dei dettagli legati alle sofferenze fisiche dei personaggi che spostano la soglia della verosimiglianza al limite del grottesco.
La mostruosità viene cullata infatti anche dalla sceneggiatura che allude spesso ad una specie di transizione dei personaggi verso una forma favolistica e ferina, come accade per la splendida Nieve De Medina che come una sirena soffre il dolore del rigetto delle proprie gambe mentre l’odore di pesce non riesce più ad essere coperto neanche dal più irritante deodorante; ma questi sono dettagli di una costruzione drammatica che altrimenti seguirebbe linearmente una struttura articolata tra crisi e scioglimenti delle stesse, seppur trapunta dalla brillantezza di dialoghi ed ellissi utili all’apertura di possibilità simboliche come alla creazione di scene comiche, che continua a riferirsi ambiguamente ad una spettatorialità distratta e partecipe insieme, ma solo su brevi cicli.
Nonostante l’impiego di uno stanco formalismo classico la storia è però di un’umanità enorme: quegli operai così poetici perché finalmente, nonostante sia una condanna, non debbono lavorare, sono l’emblema della vittoria sul capitale, che cerca pure nel film un’estrema rivalsa nel tentativo di rubar loro le mogli nella simbolica sollecitazione alla prostituzione ma che si ritrova sconfitto tra dialoghi e metamorfosi fantastiche, (“…una sirena non ha bisogno di gambe…” dice il marito accasciato a pochi centimetri dalla valigia che poi non verrà più usata dalla moglie).
Le stesse età vengono trascinate fuori dai margini della determinatezza della vita lavorativa per venir coniugate allo spazio della generazione femminile attraverso i due personaggi della splendida adolescente e della quasi sfiorita ma meravigliosa moglie lavoratrice che vanno a marcare i confini della maturità sessuale, della speranza riproduttiva, unendo fertilità e compassione delle sofferenze sociali nella condanna della sterilità del denaro.
D’altronde la stessa ortodossia marxista è qui impersonata da un personaggio dalla curiosa comicità che dispensa epigrammatiche barzellette e ricordi carichi di realismo magico: peccato che l’URSS non seppe essere radicalmente comunista, avrebbe così raccolto Bulgakov e portato i sogni al potere come nelle meravigliose falsificazioni di “Goodbye Lenin” di Beker.
Lo stesso finale diventa così la rottura rivoluzionaria della consueta operosità mattutina di centinaia di lavoratori tra i quali corrono minacciosamente dei poliziotti in borghese (o, come sarebbe bello immaginare, delle persone in ritardo che trovano una scusa per non andare a lavorare), ma il sole è caldo di lunedì anche nella povera Galizia, anche per gli operai condannati all’inoperosità: è veramente il lavoro l’ultimo campo dove condurre la lotta rivoluzionaria.
Ruggero Lancia
Recensione n.3
“ è un villaggio che sembra di cartone, con le strade acciottolate e le case intonacate di bianco e d’arancio” sullo sfondo di “brune montagne arrostite dal sole che scendono come un antico dinosauro nella baia blu”. Il paesaggio, così descritto da Hemingway in un articolo dedicato alla pesca del tonno nel rias di Vigo, ben poco assomiglia a quello che i protagonisti del film osservano a bordo del traghetto Lady Espana sul quale attraversano la baia in uno dei tanti inutili tentativi di trovare un nuovo lavoro.
Le sponde sono completamente cementificate, alti edifici coprono pressoché interamente il suolo e le colline appaiono irreparabilmente devastate da un’espansione edilizia senza limiti. Altrettanto devastato è il tessuto sociale dopo la chiusura dei cantieri navali.
Il nesso molto forte fra il dramma umano di chi è stato privato del lavoro – duecento famiglie sul lastrico – e lo scempio ambientale è un elemento che distingue I lunedì al sole rispetto ad altri film che affrontano temi simili.
Il clima consente di stare molto all’aria aperta in questa variante “meridionale” della ristrutturazione postindustriale, ma la tanto declamata necessità di essere competitivi nel mercato globale sembra meno importante del valore del suolo edificabile.
Non c’era crisi ai cantieri Aurora, gli operai avevano anche accettato riduzioni di salario e sacrifici per contribuire al successo dell’azienda, le navi erano buone e si vendevano – “peccato, veniva bene” osserva con rammarico il protagonista, che unisce la rabbia all’orgoglio per il lavoro ben fatto, guardando uno scafo che non sarà mai terminato.
Ma il problema non è la concorrenza dei coreani, è “il terreno vicino al mare”, aggiunge e non sbaglia.
La principale attività economica del comune di Vigo, la cui popolazione ammonta a 290000 abitanti, oltre alla pesca e all’industria conserviera, uno dei pochi settori dove la manodopera femminile è sovrarappresentata, è l’edilizia. Negli ultimi anni grandi opere, dal nuovo campus universitario al museo del mare, e grandi infrastrutture di comunicazione legate alla linea ferroviaria ad alta velocità si sono aggiunte alla “normale” speculazione, rendendo sempre più vantaggioso costruire sul terreno di una fabbrica che produrre al suo interno.
Il messaggio è molto lucido e senza speranza. Sa che “la licenza gliela daranno di sicuro”, perché la valorizzazione delle aree industriali “dismesse” è una parola d’ordine indiscussa della cosiddetta promozione del territorio e della concertazione tra istituzioni pubbliche e proprietari fondiari.
Se chi produce automobili, navi o qualsiasi altra merce, può trasformare i terreni dove sorgono le fabbriche, possibilmente con l’aiuto di finanziamenti statali ed europei, in alberghi, centri congressi, sedi universitarie, gallerie d’arte è evidente che nessuna manifestazione di protesta come quella con la quale si apre il film, potrà salvare i posti di lavoro di e dei suoi amici. Così, mentre le grandi imprese si trasformano in società immobiliari ed i fondi pensione diventano i loro committenti agli operai non resta che rompere i lampioni e pagarli a caro prezzo. O sognare che agli antipodi le cose vadano diversamente.