Opera prima gradevole, sicuramente migliore della successiva (American Psycho). Un piccolo dramma intimistico, a cui fa da sfondo Warhol, la Factory, e i personaggi ridicoli, grotteschi, e geniali che ne fanno parte. Il tentativo è quello di rivoltare il mito e la leggenda di Andy Warhol, eroicizzando la mediocre figura di Valerie Solanas, eterna sfigata, un pò ingenua un pò stupida, femminista convinta di poter cambiare il mondo, costantemente alla ricerca di quei 15 minuti di fama di cui potrà godere solo dopo aver compiuto il gesto più estremo e – quasi – tragico.
Mary Harron ricostruisce un mondo secondo una logica personale, identificandosi con la protagonista e sottraendo ogni forma di simpatia alla banda warholiana, traducendo l’aggressività disperata del personaggio in uno scontato e banalissimo contrasto buoni-contro-cattivi, e mettendo a fuoco, più che la realtà di un’epoca, le proprie (e poco condivisibili) opinioni riguardo di essa. L’unico punto di vista riduce così l’ispezione psicologica della Solanas in un continuo susseguirsi di episodi didascalici senza nerbo (proprio come in American Psycho), alla base dei quali c’è sì una sceneggiatura criticabile sotto molti aspetti, ma soprattutto una regia inconcreta e vuota, tanto confusa quanto leccata.
Ciò non toglie che il ritmo regga la durata, che le interpretazioni siano ottime (grandissimo l’irriconoscibile Stephen Dorff), e che alla fine ci si affezioni – anche solo un pò – a questa giovane schizzata orgogliosa di esserlo. Peccato che la Harron, alla seconda prova di regia, non abbia ancora dimostrato di saper girare coerentemente due scene di seguito.

Andrea D’Emilio