Scheda Film
Titolo originale: Saul Fia
Regia e Soggetto: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Montaggio: Matthieu Taponier
Scenografie: László Rajk
Costumi: Edit Szücs
Musiche: László Melis
Suono: Tamás Zányi
Ungheria, 2015 – Drammatico – Durata: 107’
Cast: Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Todd Charmont, Sándor Zsotér, Marcin Czarnik, Jerzy Walczak
Uscita: 21 gennaio 2016
Distribuzione: Teodora Film

Sale: 38

Il rumore dell’orrore

Mettere a rischio tante vite per seppellire un morto. Sembra una follia ma forse non lo è all’interno del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nel 1944. Saul Ausländer fa parte di un “SonderKommando”, gruppi di prigionieri scelti dalle SS per l’orribile compito di lavorare nelle camere a gas: assistere e rassicurare gli ebrei che scendevano dai treni, svestirli, farli entrare nelle docce e recuperare i “pezzi” (i corpi nudi), come venivano chiamati. Una “esecuzione” ogni 15 minuti: una fabbrica di morte a ritmi industriali. Un giorno, in un ragazzo che sopravvive al gas (anche se sarà poi soffocato da un medico nazista), Saul crede di riconoscere il corpo di suo figlio. Inizierà la sua battaglia personale (rinunciando ad unirsi al tentativo di ribellione organizzato dai suoi compagni) per trovare un rabbino, salvare il corpo dal forno crematorio e darne una degna sepoltura.
Un pugno nello stomaco. Essenziale e asciutto, molto lontano da qualsiasi retorica del dolore e dell’orrore, Il figlio di Saul, il film rivelazione del regista ungherese László Nemes, rappresenta un punto di vista del tutto inedito nei confronti dell’olocausto, sia per scelte stilistiche che narrative. Intanto, il plot. Il paradosso di questo presunto padre che cerca di proteggere un figlio già morto in un luogo di morte certa; una determinazione senza senso che trova un significato solo elevandosi a un livello superiore rispetto all’istinto umano di sopravvivenza, in modo sacro e ancestrale, vuole rendere omaggio a un morto (l’unico modo è seppellirlo), ed è forse un modo per estraniarsi, esorcizzare il dolore e il senso di colpa interiore (il cognome Ausländer significa non a caso “straniero”). Una storia di finzione che si inserisce nella Storia (S maiuscola) dei “SonderKommando” (testimonianza straordinaria dei compiti quotidiani nel campo e delle regole di sterminio degli ebrei) e dell’unico tentativo (realmente accaduto) di rivolta armata nella storia del campo.
La vera innovazione è stilistica. “Evitare ogni virtuosismo o esercizio di stile” – dice il regista – “senza ridurre il film a un approccio puramente visuale”. Il film mostra solo il punto di vista di Saul. Tutto quello che vede lo spettatore è quello che vede, cerca e vuole Saul, con il volto del personaggio in primo piano; la macchina da presa sempre addosso, per non andare mai oltre il suo campo visivo e uditivo. Pellicola 35mm con procedimenti fotochimici tradizionali (il digitale non dà la stessa emozione), illuminazione diffusa, unico obiettivo, formato ristretto classico per non allargare il campo visivo, lunghe riprese anche di 2 minuti, pochi tagli (circa 80 a fronte dei canonici 200), con lunghe sequenze che danno la sensazione claustrofobica di essere all’interno dei forni crematori. Lunghe sequenze che hanno richiesto molta preparazione sia coreografica che attoriale. L’interpretazione magistrale del protagonista Géza Röhrig è perfetta nei panni del prigioniero Saul con la sua ics rossa marchiata a fuoco sulla giacca a tutta schiena, uno straccio sporco al collo e una espressività del volto fuori dal comune. Il risultato è eccellente. E l’immagine dà spazio al suono. Poiché raccontare l’olocausto per immagini non è possibile, sarebbe “pornografia” dice l’attore, l’orrore rimane sullo sfondo, con immagini sfuocate, alluse o addirittura fuori campo: i corpi ammassati da spostare, i cumuli di cenere da spalare, le fosse comuni, i kapò, le adunate, i colpi di pistola alla testa, le esecuzioni.
Quel che accade lo si percepisce dai suoni, dagli spari, le urla, le fiamme, i respiri affannati. E il volto affannato che come in un girone dantesco si sposta nel campo tra orrore e morte, portando con silenziosa caparbietà (come fosse una soggettiva) lo spettatore con sé alla ricerca disperata e ossessiva di un rabbino, dà al film il suo ritmo visivo.
Dopo moltissimi riconoscimenti come migliore Opera Prima e miglior film e aver vinto al Festival di Cannes 2015 il Gran Premio della Giuria, Il figlio di Saul vince il Golden Globe ed è candidato all’Oscar 2016 come miglior film straniero. Per un film a bassissimo budget, girato in circa una ventina di giorni, l’Oscar sarebbe una bella vittoria per tutti.

RARO perché… è un pugno nello stomaco!

Voto: 8 e ½

Marta Fresolone