Scheda film

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Luigi Sardiello
Fotografia: Rocco Marra
Montaggio: Mauro Ruvolo
Scenografie: Giulia Parigi
Costumi: Grazia Colombini
Musiche: Andrea Terrinoni
Suono: Antonio Barba
Italia, 2012 – Commedia – Durata: 97′
Cast: Antonio Catania, Rosaria Russo, Ennio Fantastichini, Sara D’amario, Antonio Stornaiolo, Ivan Zerbinati, Emilio Solfrizzi
Uscita: 31 ottobre 2013
Distribuzione: Microcinema
Sale: 4

 Il dolce e l’amaro

Quello del pasticcere non è un mestiere come tanti altri, nato, sviluppato e affinato nei secoli per regalare esclusivamente dolcezze prelibate ai palati di tutte le latitudini, bensì una vera e propria Arte fatta di creatività, poesia, cura nei dettagli, sperimentazione, pulizia e soprattutto di estrema precisione. Un minimo errore, infatti, tanto nel dosaggio degli ingredienti, quanto nelle diverse fasi di preparazione della ricetta di turno, potrebbero risultare fatali. Non è un caso, dunque, che il protagonista dell’opera seconda di Luigi Sardiello, nelle sale nostrane a partire dal 31 ottobre con Microcinema, si materializzi sul grande schermo attraverso l’interpretazione di Antonio Catania, proprio seguendo per filo e per segno le peculiarità comportamentali e professionali richieste dal suddetto mestiere.
Achille Franzi è un pasticcere sensibile e raffinato, la cui esistenza è rigorosamente scandita dai tempi di ordinazione, preparazione e consegna dei dolci. Da quando aveva dodici anni, la sua vita si è svolta unicamente nel laboratorio della pasticceria del padre, i cui consigli e le cui massime rappresentano il proprio manuale di interpretazione della vita stessa. I clienti sono il suo unico contatto con il mondo esterno, in grado di garantirgli una vita quieta, ripetitiva e al sicuro da ogni sorpresa. Ma un giorno, suo malgrado, uno scherzo del destino lo costringe ad entrare nei panni di un finanziere senza scrupoli che ha ordito una truffa colossale. Da questo momento la sua vita cambia radicalmente. Per sopravvivere, deve affrontare una serie di prove pericolose, del cui significato non è a conoscenza, accerchiato da una donna sensuale e ambigua, un avvocato arrogante e pericoloso e una poliziotta scrupolosa a sua volta alle prese con un caso più grande di lei. Tra la necessità di nascondersi in una “terra di nessuno” che non conosce, la prospettiva di un amore e i crescenti sospetti di una macchinazione ai suoi danni, testimoni bizzarri e le maglie della giustizia che gradualmente si stringono, l’uomo sarà costretto a fare i conti con il mondo esterno e il suo buco nero.

Basta scorrere la sinossi de Il pasticcere per individuare immediatamente nel plot la volontà del regista e sceneggiatore fiorentino di attingere a piene mani da quello che nel lontano 1946 fu battezzato dalla coppia di critici francese Frank e Charter, noir, ossia il genere cinematografico per antonomasia coniato per rilevare comuni caratteri iconici e tematici in un eterogeneo corpus di film hollywoodiani degli anni Trenta e primi anni Quaranta. Un termine, questo, che nei decenni successivi assumerà nuove forme e “poetiche” tecniche, estetiche, narrative e drammaturgiche, grazie all’operato di grandi cineasti. Importante è il sottolineare però che, pur trattando generiche vicende di crimine, tale indirizzo non si definisce in base a specifiche strutture narrative o ad ambientazioni tipiche e particolari. Di conseguenza, più che definire modelli e sviluppi narrativi, il termine designa infatti un insieme di film, affini ora al poliziesco, ora al gangster o allo spionaggio, caratterizzati da atmosfere cupe, da un “tono” cromatico ed emotivo scuro, ma soprattutto da una serie di situazioni e personaggi ricorrenti. Il regista toscano, qui alla seconda fatica nel lungometraggio dopo la positiva esperienza maturata nel 2009 con la parabola calcistica al centro di Piede di Dio (ben dodici riconoscimenti raccolti nel circuito festivaliero), prova a fare sua la lezione di Hitchcock per poi rielaborarla in un chiave personale: catapultare un uomo normale in una situazione anormale. La più classica delle strutture drammaturgiche del filone, elevata all’ennesima potenza dall’intramontabile e indiscusso maestro britannico, viene qui ribaltata completamente, immergendo un personaggio anormale come Achille Franzi in una situazione che, ai giorni nostri, è diventata di fatto normale.
Il protagonista de Il pasticcere è un tipo solitario, che ha deciso di trascorrere le sue giornate in un laboratorio, chiuso in una campana di vetro, mentre fuori il mondo diventa sempre più corrotto. Tuttavia, resta una figura che nel proprio dna mantiene vivi i geni del classico protagonista da noir: è un candido, un puro, il riflesso limpido e cristallino di quello che il suo mestiere richiede, vale a dire una cura maniacale che punta alla perfezione, un’ostinata precisione e una chirurgica esecuzione, che sono imprescindibili nella pasticceria. Ma l’idillio si spezza, così come a infrangersi è la campana di vetro ove si è andato a rifugiare per anni, almeno fino a quando non si trova immischiato in uno sporco affare, che dovrà combattere con le armi improprie del proprio lavoro. Il suo identikit è figlio legittimo di quei topoi che reggono le colonne del genere in questione, alla pari di tutti gli altri personaggi che mano a mano fanno la loro comparsa nel film: dalla dark lady Angela (una barcollante Rosaria Russo) al cattivo di turno soprannominato l’avvocato (un altalenante FantastichinI), passando per l’immancabile commissario di polizia (una spaesata Sara D’amario). Il tutto calato in un posto isolato, un non luogo mai esplicitato totalmente (se non con qualche riferimento che ci permette di collocarlo in quel dell’Istria), tanto ostile da diventare l’altro grande nemico da affrontare (come accaduto nel sottovalutato, ingiustamente a nostro avviso, Padroni di casa).
La scelta di non seguire alla lettera il percorso tracciato negli anni passati dal noir, ma di prenderne in parte le distanze o attingere da esso solo l’occorrente per costruire e sviluppare la storia, è senza alcun dubbio la decisione migliore tra quelle prese. Al di là dei trascorsi storici, utili a rinfrescare la memoria o a fornire le basi necessarie per una giusta lettura e interpretazione a chi abitualmente non mastica il linguaggio del genere (il noir in questo caso), il ricorso a un riferimento ben preciso è servito a Sardiello come punto di partenza per scrivere e filmare una pellicola che ha nell’ibridazione l’ingrediente basilare della ricetta cinematografica. Nel film vanno così a confluire altri sotto e macro generi, mescolandosi di fatto con lo scheletro portante rappresentato appunto dal noir. Commedia e dramma incontrano così il mistery, aggiungendo ai toni oscuri di quest’ultimo lampi surreali e grotteschi. Ciò consente all’autore di bypassare l’ostacolo della credibilità, ma non di rafforzare lo script, che al contrario soffre in maniera evidente la fragilità nei passaggi cruciali e nel disegno dei personaggi, quanto nei raccordi tra i generi e i registri chiamati in causa. Purtroppo tali carenze strutturali non permettono al film di restare a galla e di reggere il passo sino all’epilogo, dando continuità a quanto di buono mostrato nei primi frangenti (Sardiello dimostra di conoscere la macchina cinema, di sapere come si confeziona esteticamente un film e lo dimostra ad esempio il pregevole incipit che accompagna i titoli di testa). Con il progredire del racconto, la drammaturgia perde attrito e di conseguenza la capacità di calamitare a sé l’attenzione della platea, anche a causa di un ritmo che nel suo dilatarsi rende la fruizione ancora più lenta dal punto di vista della percezione. 

oto: 5 e ½

Francesco Del Grosso