Recensione n.1
Che dire del film? L’incipit è promettente : un chiaro omaggio al 2001 di Kubrik con venature di Star Trek e del cinema di fantastico degli anni ’50 e ’60. Ma non solo. I titoli di testa sono una rivisitazione del glorioso Peplum italiano. Poi però la cosa si sgonfia, l’intreccio diventa scontato e la visione noiosa. E’ evidente il fatto che l’estetica di Burton si è conformata alla legge del minimo rischio e del massimo guadagno. Se nel passato l’ipercaratterizzazione dei personaggi e la netta divisione tra buoni e cattivi non gli aveva impedito di giocare con le sfumature e di mischiare le carte, si pensi ad esempio a Edward mani di forbice o a Sleepy Hollow, il Burton del pianeta delle scimmie è didascalico, superfluo, banale.
Nessuna invenzione narrativa. La trama è arcinota e si basa sul classico triangolo, cosi caro alle Majors, formato dal buono, dal malvagio e dalla donna che sta tra i due. Come in un’infinità di altri film, ultimo esempio Final Fantasy, in un senato indeciso tra la politica della forza e quella della dialettica avviene lo scontro tra il bene ed il male. Un generale feroce e senza scrupoli, che vuole il potere assoluto, trama perché una società più giusta non si realizzi. Un palliativo è forse la musica, che è quella ariosa del cinema fantastico degli anni ’50. Ma è poca cosa.
Anche la rivisitazione critica in chiave scimmiesca dei vizi e delle virtù della società occidentale risulta abbastanza scontata, facile e superficiale. Il finale della storia lo conoscete già. Dove sta andando Tim Burton ? Abbandonata una certa visione personale del cinema, onirica e fantastica, che gli ha permesso di splendere nel firmamento dei grandi, Burton si ritrova lui stesso ingranaggio di un sistema di produzione cinematografico, che sempre di più assomiglia a quello fordista. Ma c’e’ qualcosa di più profondo. E’ la perdita dell’innocenza.
Se infatti la caratteristica portante dell’estetica bartoniana è sempre stata l’esaltazione della diversità come portatrice di una messaggio non banale, nel pianeta delle scimmie si osserva invece il ribaltamento del concetto del diverso uguale buono.
Osserviamo allora che alla visione del mondo sviluppata in Edward mani di forbice, ma anche in Batman, dove il pinguino, essere spregevole perché non capito da una società che lo rifiuta, è allo stesso tempo amato dai suoi simili, si contrappone, nel pianeta delle scimmie, quella dell’uomo arrivato dal passato che considera la scimmia come un essere inferiore, che occupa un posto che non gli spetta.
C’è molto perbenismo, anche con arroganza. Peccato per l’occasione persa.
Giancarlo Rizza
Recensione n.2
2029: l’astronauta Leo Davidson (Mark Wahlberg) mentre ispeziona un anomalia elettromagnetica finisce su uno sperduto pianeta, governato da scimmie intelligenti che tengono in schiavitù gli uomini. Con l’aiuto di Ari (Helena Bonham-Carter), una scimmia simpatizzante della causa umana, Leo cerca insieme ad altri umani il modo di scappare dalla schiavitù e dal pianeta. Ma il gruppo e’ inseguito dall’esercito del cattivissimo Generale Thade (Tim Roth).
Nei titoli di testa, che richiamano quelli di Batman, commentati dalle musiche di un Danny Elfman meno scontato del solito, comincia e finisce quello che può essere riconosciuto come il tocco di Tim Burton. Tutto il resto, seppur a volte realizzato con mestiere, non ha niente a che fare con le pellicole precedenti del regista dark per eccellenza.
Appare chiaro come Hollywood negli ultimi anni abbia sempre più difficoltà nel realizzare bei film d’azione o di fantascienza “seria”. Quando si tratta di realizzare pellicole ironiche e dissacranti, ecco che il tocco degli autori si fa sentire con pellicole di altissimo livello (“Fantasmi da Marte”, “Starship Troopers”, “Mission Impossible 2”), ma quando viene a mancare l’ironia spesso emergono delle enormi lacune: mancanza di sceneggiature all’altezza, incongruenze, moralismi (basti pensare a “Driven” o a “Pianeta rosso”).
“Il pianeta delle scimmie” purtroppo non fa eccezione, e sebbene sia girato da un regista di spicco con un cast di bravi attori ricorda nei suoi difetti il terribile “Battaglia per la terra”. La sceneggiatura e’ molto esile, con alcuni personaggi totalmente inutili (la bella Daena e’ inserita solo per mostrare il suo seno [mai scoperto, comunque] rivitalizzato da un provvidenziale push-up), dei dialoghi spesso incongruenti (forse c’entrano la traduzione e il doppiaggio o la mia scarsa conoscenza dei primati, ma il dialogo in cui si dice che gli scimpanzé sono considerati dalle scimmie come essere inferiori stride con l’aspetto da scimpanzé del Generale Thade) e delle scene quasi demenziali (il piano di Leo per sconfiggere le scimmie nel finale è veramente pessimo e ridicolo). Per non parlare del finale, che se riesce a dare una spiegazione interessante dell’origine della comunità di scimmie, si impantana poi nelle ultimissime scene in una sequenza che non ha nessuna spiegazione logica rispetto a quello che si e’ visto durante il film.
Un film insomma che si può tranquillamente perdere, magari riguardandosi la versione anni ’60 che era indubbiamente migliore.
Voto: 5
Graziano Montanini
Recensione n.3
Che senso ha il remake di un film?
Eppure ogni stagione i produttori puntano su una formula che si e’ già rivelata vincente per sfruttarne il traino, abbinando nomi prestigiosi in regia e qualche volto noto tra gli attori per spruzzare di glamour il tutto. Di solito, quindi, il fine e’ prettamente commerciale: battere cassa raschiando il fondo della fantasia! E qualcosa di simile deve essere accaduto pensando a un rifacimento del grande successo del 1968 di Franklin J. Schaffner. Difficile dare nuovo smalto a un film mitico per l’epoca, ma ormai datato e privo della sorpresa di un capovolgimento dei punti di vista. Il folle tocco di Tim Burton, sempre in bilico tra kitsch e grottesco, non si e’ rivelato miracoloso come molti speravano. Il film, infatti, delude sotto tutti i punti di vista. Non convincono ne’ la storia, completamente stravolta rispetto all’originale ma con molti più buchi logici, ne’ le interpretazioni degli attori. Se i servizievoli Tim Roth e Helena-Bonham Carter mantengono intensità sotto l’efficace trucco di Rick Bake, il protagonista Mark Whalberg e’ in perenne distanza dal suo personaggio e Estella Warren ha un ruolo puramente coreografico. Sono proprio i personaggi umani la parte più carente del film, a causa di una sceneggiatura colabrodo e banale incapace di renderli vivi. In qualche momento il tocco dell’autore si sente, come nella cena a casa del senatore o quando la piccola scimmietta deve scegliere il suo cucciolo, ma e’ ben poca cosa rispetto alla grossolanità dell’insieme. Anche il colpo di scena finale sembra avere come unico scopo quello di far parlare gli spettatori mentre escono dalla sala. Potrebbe essere una geniale trovata pubblicitaria, visto che il marketing pare l’unico vero mentore di un progetto nato per fare il pienone nei cinema nel primo week-end di programmazione, prima degli effetti devastanti del passaparola.
Luca Baroncini