L’ultimo film di Bellocchio, personale e onirico, e intervallato da stralci di attualità e di storia, esce nelle sale il 21 aprile
Una corsa di uomini con le gambe nei sacchi, per una via stretta. Una città-dina di bellezza incomprensibile, ridente ma ritrosa, fulgida di passato e mura, di biancori di vita notturna. Due delle immagini a scenario sul nuovo luogo eletto dal cinema di Marco Bellocchio: una terra mitica, circondata dal mare, dove l’attualità viene scossa e sfrangiata dal sogno.
E’ancora il sogno a dominare le immagini e la storia, come in Buongiorno, notte ma soprattutto come il densissimo L’ora di religione, al quale Il regista di matrimoni è idealmente legato per le affinità
evidentissime: l’attore, e quasi lo stesso personaggio, in crisi profonda ma pacatamente creativa, il dialogo rivelatore con esseri fantasmatici o grottescamente irreali (il Conte Bulla, e qui il Principe Sami Frey), l’incontro con una donna incomprensibile ma qui molto più vera, terrena e avvicinata e soprattutto il bizzarro intreccio di musiche. La sacralità di Gyia Kancheli e le scale di Satie, non nascoste ma avviluppate alla trama e nominate, chiarificate. La canzonetta retrò ancor più straniante e divertita per l’apporto vocale, il timbro suadente e roco della Melato, e quell’inquietudine da spazio aperto, da passaggio tra luce bianca e antri oscuri rivelati dalla definizione di una telecamera nascosta: il tema percussivo e metallico che accompagna Castellitto-Franco Elica mentre passeggia per il paese, composto da Giugni, e il ritorno di Carlo Crivelli per il tema di Bona.
La crisi professionale e familiare assale Elica, come Picciafuoco ateo e qui padre di una ragazza che sta per sposarsi con un fervente cattolico. Accetta di girare, con il suo tocco d’artista così raffinato e studiato, il filmato di un matrimonio che non è come tutti gli altri. Lo vediamo studiare le angolazioni, rincorrere pezzi di ambienti e destrutturare la sua stessa, controversa professione. Lo spettro della vecchiezza di idee si affaccia continuamente in questo nuovo lavoro così tradizionalista e antitetico, la realtà resa finzione contrapposta all’ennesima versione de “I promessi sposi”, da lui abbandonata. In uno spazio circoscritto incontra un vecchio collega che credeva morto, che gli spiega come, spacciandosi per defunto, riesca ad ottenere maggiori successi. “I morti comandano in Italia”, ripete ossessivo Smamma, escluso dal suo stesso nome, nominalmente destinato ad immergersi, ogni note, nei flutti di una piccola spiaggia, fino a sparire dopo una forsennata corsa in cima ad una chiesa. Con una croce colpita da fuochi d’artificio, che minacciosa e piangente arde, e muore simbolicamente.
Non muore il dubbio, non muore la professione di artista, di occhio del mondo, esplorata da Bellocchio come nel così diverso Il caimano di Moretti. Ma Bellocchio non fa “film di parola”. L’immagine è ciò da cui scaturisce pittoricamente il pensiero, la teoria, il suono da essa separato e ad essa contraltare è il suo inchiostro disperso, incontenibile. E’ attraverso gli elementi propri del cinema, attraverso le sequenze ad inserto, a brandelli che il film parla. E parla la storia, rivisitazione fiabesca di quel vituperato romanzo manzoniano, fiaba antica e gesto estremo compiuto dalla ragazza, la bellissima figlia del principe che sta per sposarsi e che classicamente si ribella, ma sfilacciando qua e là la sua immaterialità iconica. Un “Innominato” capace di conversare con i cani del palazzo in una lingua straniera la aiuta a fuggire dal matrimonio pensato, filmico, e si aggira un sospetto dell’orchestrazione del padre. Tutt’altro che divino, ma dotato di una personalità da spiritello, il Principe recitante nella sua malvagità sembra volere quell’epilogo, quella fuga che nei pensieri dei protagonisti si apre riottosa come una serie di scatole cinesi.
Il regista di matrimoni avvolge con la sua leggerezza apparente, smentita da una seconda lettura, da una seconda visione. Ha toni9 da commedia, ruoli in cui gli esseri reali si reincarnano, ed è lontano in questo dal suo alter-ego L’ora di religione, in cui la componente ironica si stingeva in un afflato unico. Quel suo essere gradevole pare allontanarlo, per pochi istanti, dall’essere semplicemente “bello”. Ancora sfumata, madreperlacea la figura femminile, alla quale il regista-uomo si accosta con rispettoso dubbio, significante silenzio, in un cinema in cui le denominazioni sentimental-sessuali, seppur presenti, vengono sopraffatte dalla rotondità delle immagini e dal pensiero intimista e universale che ne scaturisce.
Chiara F
Il titolo di un film servirebbe, almeno in teoria per agevolare lo spettatore nella comprensione del lavoro dell’artista. Infatti l’ultima pellicola di Marco Bellocchio dal titolo “il regista di matrimoni” rispetta pienamente questa ormai millenaria tradizione. Ma solo in apparenza. Con lo sviluppo del film questo concetto diventa sempre più sfumato. Un concetto cosi concreto si perde in un astratto misto ad onirico non sempre di facile comprensione. Sono innumerevoli le possibili interpretazioni dell’ultimo lavoro di Bellocchio. C’è chi sostiene che stia proprio in questo la genialità, nella capacità di far scervellare spettatore e critica e di farli competere in un’aspra lotta a colpi di fioretto per stabilire quale sia la più appropriata. C’è chi invece sostiene che la vera genialità stia nella chiarezza, nell’esprimere con concetti semplici le sensazioni più sfumate in modo da rendere il messaggio univoco e meno confuso. L’eterna lotta tra cultura alta e cultura popolare che non vuole essere risolta in questa sede. L’opera di Bellocchio sta sicuramente nella prima di queste due scuole, ma, per onestà intellettuale verrà lasciata al lettore la possibilità di valutare se si tratti di genialità o meno.
Un matrimonio con un’ improvvisa zoomata verso la sposa. All’improvviso in maniera quasi paradossale si apre l’immagine e la sposa viene circondata da una moltitudine di fotografi che la assalgono come i migliori paparazzi in cerca di gossip. Tra questi spunta il padre di Lei, Franco Elica, impersonato da Sergio Castellitto. Un regista in crisi esistenziale, che lavora disperatamente alla realizzazione della pellicola de” I promessi sposi”. Ed è proprio il capolavoro Manzoniano una delle ipotetiche chiavi di lettura del film. Citazioni continue in corso d’opera danno la sensazione che si stia svolgendo una trasfigurazione dell’opera del Manzoni dal 600 lombardo al 2000 siciliano. Basterebbe chiamare Franco Elica “Renzo” , Il principe di Gravina “Don Rodrigo”, la figlia Bona “Lucia”, condire il tutto con un amore proibito tra i due e il gioco è bello che fatto. Anche le inquadrature danno questa sensazione. Microtelecamere nascoste che spiano il “Renzo” Castellitto, dando la sensazione che il film si sia impadronito di lui o meglio, che gli altri protagonisti della pellicola vogliano girare il film all’insaputa del protagonista. Un cinema nel cinema, un omaggio al più noto “teatro nel teatro” pirandelliano, dai confini poco chiari dove a tratti è difficile distinguere la realtà dalla finzione, dove ogni scena è surreale e potrebbe aprire un capitolo a se, potrebbe fornire un’ interpretazione diversa, in un gioco di allusioni tra presente e passato, sogno e realtà si mischiano continuamente perdendo in chiarezza. Dove non si capisce se Franco Elica sia lui il regista o ci sia qualcuno che a tradimento lo stia girando al posto suo.
Difficile da capire ma forse è proprio questa l’intenzione di Bellocchio, che mischiando sogni e realtà, concreto e astratto, lancia allo spettatore un messaggio di insicurezza, di instabilità, di paradosso. Tutto può accadere e sembra che la vita dei personaggi sia appesa ad un filo, sorretto da un abile burattinaio del quale non si conosce ne il nome ne il cognome. Un film sicuramente di taglio pessimistico, ma affrontato con maestria dal Regista, che ormai ha abituato il suo pubblico a pellicole di non superficiale comprensione.
Alberto Tanas
Quarant’anni coi pugni in tasca. Marco Bellocchio, tornato giustamente da qualche tempo ad essere uno dei registi più coccolati da critica e pubblico, si avvicina al mezzo secolo del suo folgorante esordio presentando il suo nuovo affascinante film: Il regista di matrimoni.
A differenza di compagni di viaggio ugualmente ‘ribelli’, quali Ferreri o Bertolucci, Bellocchio ha opposto meno resistenza alle etichette della critica nostrana, da subito pronta a qualificare il suo come un cinema militante, fortissimamente attratto dal fascino della rivoluzione.
L’ultima stagione di Bellocchio è temperata da una quiete che, se da un lato invita a una meditazione sulla temporalità del sogno (Il principe di Homburg, 1997), dall’altro incoraggia il recupero di una cornice letteraria e storica dove inserire le proprie ossessioni (La Balia, 1999). Ciò che emerge è soprattutto il nuovo modo di guardare il presente, fatto non più di scatti ma di silenzi. Se la Anna de Il sogno della farfalla (1994) vuole fuggire dove «tutto è silenzio», il pittore de L’ora di religione affronta i fantasmi del passato senza gridare, così come fa, rispetto al presente, l’Aldo Moro di Buongiorno notte (2003), protagonista di un fato che Bellocchio reinventa, contaminando la Storia con le vibrazioni del sogno. Dopo L’ora di religione, Castellitto torna a lavorare con Marco Bellocchio per raccontare la crisi di un regista, un uomo che si guadagna da vivere girando filmini di matrimoni, un artista, simbolo della crisi della società in cui vive.
Questa la trama: Franco Elica (Sergio Castellitto) è un regista entrato in crisi a causa delle continue delusioni professionali e del matrimonio tra la figlia e un fervente cattolico. Decide di fuggire in Sicilia dove incontrerà un uomo che gira filmini di matrimoni e un altro regista che fa credere a tutti di essere morto per avere quel riconoscimento che non ha mai avuto in vita. Quasi un paradossale autoritratto per un regista che da sempre grida «Famiglie, vi odio!». Si tratta di un appuntamento che sembrava obbligato da anni, quello con una Sicilia che è anzitutto il luogo reale dei fantasmi di Luigi Pirandello, uno dei maggiori ispiratori del regista, da Enrico IV alla Balia, al televisivo L’uomo dal fiore in bocca. Chissà cosa ne verrà fuori, dall’incontro tra le ciminiere di Termini, il mare di Cefalù, le ville barocche di Bagheria, e il “realismo magico” di Bellocchio. Il regista si è imbarcato in questa impresa con collaboratori fidati, dal direttore della fotografia Pasquale Mari alla montatrice Francesca Calvelli al costumista Sergio Ballo (producono Rai Cinema e la Film Albatros di Pelone, Martino e Fenech). Nel cast, insieme a scelte raffinate e intriganti come Donatella “Angela” Finocchiaro e un volto noto ai vecchi cinefili francofili come Sami Frey (sulla piazza dai tempi di Cleo dalle 5 alle 7 e Bande à part), torna Sergio Castellitto, ormai (dopo L’ora di religione) quasi alter ego del regista. E proprio per Castellitto, ormai conteso dal meglio del cinema italiano, si profila un tour de force non da poco. Pur di averlo, infatti, due dei nostri maggior registi si sono offerti a un tandem sul filo del rasoio. Al Festival di Cannes 2006 il cinema italiano potrebbe fare un figurone, con un doppio film in concorso: Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio e Il caimano di Nanni Moretti. Il regista di matrimoni è tutto questo ma non solo: perché non è un film a tesi ma un’opera magmatica e “aperta”, come si sarebbe detto un tempo. Che procede, vitalissimo e con un’idea a ogni inquadratura, tra convulsioni, lirismi, scatti e momenti di quiete. Un sogno, forse, a occhi aperti e cinepresa (e telecamera digitale) accese.
In esclusiva a Cinemazero l’ultimo film di Marco Bellocchio
Sulle vibrazioni del sogno
Da venerdì 21 aprile all’Aula Magna Centro Studi di Pordenone.
In programmazione – in esclusiva per Pordenone – a Cinemazero, all’Aula Magna del Centro Studi, da venerdì’ 21 aprile (con spettacoli ore 20.00 e 22.00, sabato e domenica anche ore 18.00).