Regia di Andrej Zvjagintsev
Con Konstantin Lavronenko, Ivan Dabronrdvav, Vladimir Garin
Drammatico, Russia 2003
Recensione n.1
“Zitti, che vostro padre sta dormendo”, questa potrebbe essere una banalissima frase detta in famiglia da una madre per far tacere i figli un po’ troppo rumorosi. E invece, nel film russo “Il ritorno”, vincitore dell’ultima edizione del Festival di Venezia, è una frase che nasconde molti segreti, segnando l’inizio di una storia del tutto inaspettata. Sì perché i fatti, non solo li veniamo a sapere man mano insieme agli attori, ma la sensazione è che loro sappiano anche più di noi. Lo spettatore è completamente in balia dei personaggi e delle azioni che svolgono. Viene letteralmente guidato, portato per mano, minuto per minuto, e lui sta lì, con l’orecchio teso e lo sguardo fisso, per non
perdere una parola, per cogliere ogni minimo elemento della narrazione che gli faccia capire di più, che gli dia qualche pezzo in più da aggiungere al puzzle della storia. E’ qui che risiede il fascino incredibile del film.
E allora, il film si apre con la scena di un gruppo di ragazzini che si sfidano a non tirarsi indietro per tuffarsi in acqua da un alto pontile, ma uno di loro, il “piccoletto” non lo farà, ha troppa paura, e per questo verrà considerato un codardo, anche da uno del gruppo che sembrava essergli più amico degli altri. E allora i due litigano, si rincorrono, perché il “piccoletto” deve fargliela pagare, perché era un suo amico, perché non è stato dalla sua parte; si rincorrono su una strada che porta ad una casa, grande, grigia, e lì d’improvviso si fermano, davanti ad una donna bionda, calma, che fuma una sigaretta. “Zitti, che vostro padre sta dormendo”, queste sono le uniche parole della donna, dopo che il “piccoletto” cercava di giustificare la sua camicia strappata. Portato per mano, si diceva. E infatti tutto si svela pian piano. E’ quasi fastidioso, perché tu non sai perché i ragazzi a quella frase facciano una faccia sbigottita, non sai perché corrono subito di corsa a vedere la camera dove l’uomo sta dormendo, non sai perché vanno a prendere una vecchia foto da un baule per vedere se è veramente loro padre. Tutto si scopre dopo. Come si scopre dopo, durante il film, il perché i due ragazzi debbano andare via qualche giorno con il padre e il perché (questo nemmeno troppo chiaro) il padre sia tornato a casa dopo molti anni, così, senza troppe spiegazioni. E così si ritrovano in macchina insieme a questo sconosciuto. Lo svelamento graduale avviene naturalmente anche nei rapporti personali tra i tre. Un percorso progressivo che porterà ad avere un ritratto assolutamente terrificante del padre. Questo ritratto però è quello che noi vediamo attraverso gli occhi del “piccoletto”, attraverso un bambino che non ha avuto un padre per anni e che adesso sbuca fuori dal nulla e vuole farsi rispettare, e con metodi anche brutali. E’ un mostro. Ma alla fine quelle del padre non sono altro che lezioni educative, che a pensarci bene un qualsiasi padre farebbe al proprio figlio (anche se non sempre, e qui sta l’ambiguità e il fascino del personaggio). E la conferma arriva alla fine, quando rincorre, dopo un violento litigio, il “piccoletto”, per spiegargli forse finalmente tutto quello che si è tenuto dentro fino a quel momento, per aver trovato finalmente il coraggio di confessargli tutto il bene che gli vuole, che fa fatica, che sono passati troppi anni, che non avrebbe saputo in che altro modo comportarsi, che non avrebbe voluto stare lontano tutti quegli anni, che (forse) gli dispiace. E tutto questo si avverte in una sola inquadratura del viso del padre, un primo piano, che contiene tutta la disperazione di un padre sconfitto. E l’epilogo non può che essere tragico, giusto climax di un rapporto conflittuale: il padre cade da un torretta dove il ragazzino si era arrampicato, e muore, tragica fine, quasi annunciata poco prima, quando il ragazzino vede un uccello morto in un campo. E i colori accompagnano la tragicità dell’evento, come del resto in tutto il film: sono colori opachi, sempre un uso di colori freddi, grigi e azzurri, è sempre nuvolo e a volte piove (e piove tanto quando il padre mette in pratica il suo metodo “educativo” più brutale), e l’acqua (simbolica non solo per il colore, ma anche perché veicola sensazioni di freddo e gelo) la ritroviamo con il lago, grigio, torbido e mortale (si inghiottirà il corpo senza vita del padre). Tutto ad indicare la freddezza di un rapporto, che non ha avuto la possibilità di riscattarsi.
Una nota tragica e allo stesso tempo agghiacciante: in quello stesso lago, è morto uno dei due ragazzi, protagonista del film; è annegato un paio di mesi fa proprio in quelle stesse acque.
Marta Fresolone
Recensione n.2
Il ritorno è il film di una assenza. E della ricerca di un modello, di un punto di riferimento, che dal passato giunga a confortarci, ad insegnarci, a mostrarci quale deve essere la via giusta da imboccare nel difficile cammino dell’esistenza. Nell’opera prima dell’ex-attore ed ex-regista televisivo Andrej Zvjagintsev c’è il tentativo di recuperare un cinema elevato, ambizioso, che parta dalla narra ione di un singolo evento il quale, nella sua unicità, si erga a metafora di un qualcosa di più grande, un passaggio della Storia o una tematica universale. L’eredità più evidente e riconoscibile è probabilmente quella di Tarkovskij.
Il punto di partenza è però una storia, quella di due ragazzi, fratello maggiore e minore, e del loro viaggio in automobile al seguito del padre, tornato improvvisamente a casa dopo dieci anni senza fornire alcuna giustificazione della sua assenza. Il pericolo di un cinema eccessivamente cerebrale, che in nome del “significato” trascuri il “significante”, è sempre dietro l’angolo, ed un grande film lo si riconosce nel momento in cui riesce a veicolare una forte tematica attraverso una narrazione che restituisca allo spettatore autentica emozione. A mio avviso la scommessa in questo film è riuscita, e lo testimonia il generoso applauso scrosciato alla prima veneziana del film, proiezione alla quale ho avuto la fortuna di assistere. Chi c’era quel giorno può testimoniare quanto insulse siano state le roventi polemiche del dopo-festival, a fronte dell’emozione sincera originata in tutti gli spettatori al termine del film. Questo senza nulla togliere allo splendido film di Bellocchio, ma se si partecipa ad un festival si deve poi accettarne anche il responso. La critica più ricorrente comparsa sui giornali parlava della non originalità della vicenda narrata, trattandosi della classica storia di formazione. Sarà anche vero, ma ce ne fossero di film così. L’opera esordisce con ampie panoramiche del mare ripreso nella sua enorme estensione, ed un trampolino dal quale un gruppo di ragazzi sfida la paura gettandosi da una notevole altezza. Solo il più piccolo non ci riuscirà, e per questo sarà escluso dal gruppo. Ed è proprio lui, assieme al fratello maggiore, che al ritorno a casa ritrova il padre dormiente in un letto vuoto da anni, e con il quale i due giovani cominceranno l’indomani un lungo e rivelatore viaggio. L’idea forte del film è quella di tenere anche lo spettatore completamente all’oscuro del passato dell’uomo, ed anche del futuro, visto che risulta chiaro come il viaggio abbia una meta definita ma sempre celata.
Viene facilitata in questo modo l’identificazione dello spettatore con uno dei due ragazzi, i quali reagiscono differentemente allo strano comportamento del genitore, misterioso ed autoritario. E proprio in tale differente comportamento si manifesta una sorta di ribaltamento, nel senso che il più piccolo, presentato inizialmente quale “fifone”, reagisce energicamente ai divieti ed alle imposizioni, rifiutando la logica della naturale sottomissione ad un uomo solamente a causa del suo status di padre. Il fascino dell’uomo che giunge dal passato, della guida tanto spesso attesa, influenzia solamente il più grande dei due giovani, e la forza del film sta proprio qui, nel far sì che lo spettatore si divida, assecondando l’atteggiamento dell’uno ovvero dell’altro, una divisione che verrà però ricompattata nel drammatico finale. Il senso di mistero che permea l’opera, l’eterna attesa d’un evento o quanto meno di un chiarimento dell’identità dell’uomo, è sottolineato da una ambientazione anonima, spesso desolata e nella quale non compare mai un personaggio secondario di un qualche rilievo; gli uomini incontrati lungo il percorso vengono rilegati al ruolo di comparse; inoltre anche l’epoca resta indefinita. La freddezza che contraddistingue i rapporti tra i tre protagonisti ha come supporto quello di una fotografia virata al grigio, totalmente priva di colorazioni forti. Elemento essenziale di freddezza è poi la costante presenza dell’acqua, si pensi alla prova di tuffi che apre il film, alla pesca nel fiume dei due fratelli, l’unica concessione accordata loro dal padre, e poi il finale sull’isola, con il viaggio dei tre sul canotto verso la resa dei conti. L’acqua è poi fondamentale nel finale, che però non voglio svelare. Vi è comunque una circolarità nella narrazione, che parte da un trampolino e da un volontario sottrarsi al tuffo da parte del piccolo, ed approda alla involontaria caduta da una torre di legno, la quale ci appare proprio come un trampolino.
Godetevi la galleria di immagini alla fine del film, estremo tentativo di restituire un passato alle vicende familiari dei protagonisti, alle quali per tutto il film veniamo sottratti. Ed estrema rivendicazione di un cinema che offre sì una lettura metaforica della vicenda, quale che sia ognuno è libero di formulare congetture, ma partendo da una forte caratterizzazione dei personaggi, i quali vengono dotati di un’anima, di modo che lo spettatore si sgomenti, patisca e gioisca con loro.
Mauro Tagliabue
Recensione n.3
Non e’ un film, ma sono pennellate di luce disposte con armonia per dare forma a un racconto. E’ un bel debutto quello del russo Andrey Zvyagintsev che dimostra grande padronanza del mezzo cinematografico attraverso una messa in scena essenziale, rigorosa e potente, con una direzione degli attori strepitosa. Il piccolo Ivan Dobronravov, co-protagonista insieme allo scomparso Vladimir Garin, e’ impressionante per come si cala nel ruolo del provocatorio fratello minore, alla ricerca di un affetto paterno che non riconosce nell’uomo piombato improvvisamente a casa e che dice di essere suo padre. La storia prevede il viaggio dei due fratelli verso un’isola misteriosa, accompagnati da questa ruvida presenza insinuatasi nella quotidianita’ senza alcun preavviso. Chi e’? Cosa vuole da loro? E’ davvero il loro genitore naturale o magari vuole ucciderli? E’ pericoloso? Perche’ si e’ ostinato a compiere quel non facile tragitto verso un’isola deserta? L’atmosfera e’ carica fin dall’inizio di grande suggestione e gli interrogativi si amplificano di pari passo alla tensione emotiva che accompagna lo schiudersi dei personaggi. L’assenza di comunicazione ingigantisce il divario tra l’adulto e i due bambini e crea paure e rivalita’. Il bisogno di affetto e’ la molla scatenante dei personaggi, ma l’incapacita’ di concretizzare le intenzioni si traduce in un rifiuto che prende la forma dell’aggressivita’. La tragedia non accade inaspettata, era nell’aria fin dall’inizio, ma giunge ineluttabile. Perfetta l’ambientazione, volutamente non connotata a livello temporale, forte l’incidenza del paesaggio e la cura con cui ogni inquadratura e’ composta, quasi a dare l’idea di una successione di quadri in movimento. I valori estetici sono però al servizio della narrazione, arricchita dalle immagini che riflettono con intensita’ lo stato d’animo dei personaggi. Si dira’ che il film e’ costruito a tavolino per piacere a un festival (non a caso Venezia e Locarno se lo sono contesi ed ha poi vinto il Leone d’Oro). Ma se fosse cosi’ semplice progettare la riuscita di un film, sarebbe piu’ frequente uscire soddisfatti da una sala cinematografica.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)