(Le temps du loup) FR-AUS 2004 di Michael Haneke con Isabelle Huppert, Béatrice Dalle, Patrice Chéreau, Rona Hartner, Brigitte Rouan, Daniel Duval, Lucas Biscombe, Olivier Gourmet, Philippe Nahon, Maurice Bénichou.
° Dopo che le è stato ucciso il marito, una donna con due figli a carico raggiunge una sorta di comune di gente altrettanto disperata che non aspetta altro che l’arrivo del treno per scappare da una realtà di sangue e sospetti reciproci. Passato inosservato anche al festival di Cannes, Il tempo dei lupi è il film forse meno personale di Haneke e, difatti, uno dei suoi meno riusciti: scritto con sorprendente sciatteria – l’incipit brutale che vorrebbe fare il paio con quello di Funny games lascia del tutto indenni, i personaggi non hanno consistenza né gli interpreti sono in grado di fornirgliela, i due maggiori eventi drammatici sono uno ridosso all’altro e lo spettatore non fa in tempo a digerirli, i simboli sono pacchiani (a partire proprio dal treno) – da un autore solitamente rigoroso e immune alla banalità e non sempre particolarmente pregnante a livello visivo (anche il lunghissimo e muto piano sequenza finale dal finestrino del treno non ha una vera ragione d’essere), il film sconta più che altro lo schematismo didascalico, la sgradevolezza programmatica e l’esilità di vicende (e annesse metafore socio-politico-antropologiche) già viste e con ben altra forza. Il post-apocalisse di Haneke, ambientato in un’imprecisata campagna di un imprecisato tempo futuro, si riduce così alla solita sorda incomunicabilità (ma sarebbe troppo invocare i numi di Tarkovskij e di Bresson) e alla violenza homo homini lupus di un’umanità – la nostra – che ha perso ogni contatto con la civiltà e ogni speranza di redenzione. Ma anche lo stesso regista sembra avere accartocciato la propria poetica, soffocando ogni impulso fantastico (la lettera scritta al padre morto) in una messinscena ascetica ma fredda e incapace di emozionare-provocare-colpire nonché priva di ironia e sempre più (auto)compiaciuta: in tale modo, anche i momenti più intensi (la vestizione della ragazza suicida e, specularmente, la spoliazione del bambino di fronte al fuoco), che pur rappresentano barlumi dell’acume psicologico di Haneke, rischiano di apparire gratuiti e di perdere la loro forza immaginifica; già dietro alla voluta inspiegabilità o alle false piste aperte e subito lasciate cadere (il ritrovamento del carnefice del marito), del resto, fa capolino un cinema più preoccupato di fare la morale (e di tentare di non farlo notare) che di scuotere veramente o di, prima di tutto, comprendersi. DRAMM 110’ * ½
Roberto Donati