Una famiglia irlandese decide di voltare pagina e sfoglia il libro delle opportunita’ di una scintillante New York, fin dalle sue origini (ce lo ha ricordato Scorsese con le sue “Gangs”) calderone multietnico di speranze il piu’ delle volte disilluse. Gia’ immaginiamo il percorso tutto hollywoodiano della formichina che si mangia la cicala e con il sudore e i sacrifici corona i suoi sogni di gloria. Invece Jim Sheridan, che Hollywood l’ha sempre guardata, ma da lontano, sceglie la strada della semplicita’. Il suo film e’ una somma di gesti quotidiani, di gioie e dolori che la sceneggiatura riesce a rendere universali, nonostante i palesi riferimenti autobiografici (il film e’ dedicato al defunto Frankie, figlio del regista) e un utilizzo, per forza di cose, terapeutico della macchina da presa. Non tutto scorre in perfetto equilibrio, il trauma da rimuovere e’ ancora un must inevitabile e alcuni caratteri rischiano di cadere nello stereotipo (su tutti, il nero, prima cattivo incompreso e poi buono terminale), ma la messa in scena ha il sapore della vita. Attraverso sguardi, notazioni d’ambiente, dettagli, trasmette con grande forza l’odore di un appartamento sfitto da tempo, il sapore di un gelato o di una specialita’ irlandese a base di patate, l’energia di un colore squarciato su una tela. La regia e lo script non si preoccupano di ritmare a perdifiato la narrazione, accavallando avvenimenti e colpi di scena, ma scelgono alcuni momenti e li seguono con pudore, rispettandone l’armonico sviluppo. Bella l’idea di affrontare la canicola newyorchese andando al cinema con tutta la famiglia: un refrigerio per il fisico in grado di ossigenare anche i sogni (E.T. non abbandonerà più l’immaginario delle piccole protagoniste). Due le sequenze che piu’ colpiscono: il ritrovato desiderio di un padre e una madre incapaci di superare il dolore per la perdita del figlio, che una pioggia improvvisa fonde con la vitale pulsione di rabbia di chi sa’ che ormai il suo destino e’ segnato; la sfida a colpi di dollari e (ri)lanci nel vuoto al Luna Park per conquistare un bambolotto di E.T. e la stima della famiglia, che la regia riesce a rendere mitica e appassionante. Toccante, ma un po’ troppo geometrico, il passaggio di testimone che suggella la morte con una nuova nascita nella parte conclusiva. Nel cast spiccano le due sorelle Emma e Sarah Bolger, davvero strepitose nella loro spontaneita’. La coppia Paddy Considine e Samantha Morton non sprigiona sempre un’alchimia in cui e’ possibile perdersi e sembra piu’ unita dal cinema che dalla vita, ma le interpretazioni sono convincenti (forse la Morton sta esagerando con il piglio di enigmatico gelo con cui affronta ogni personaggio, vedere al riguardo “Eden” o “Code 46”). Djimon Hounsou (gia’ protagonista di “Amistad”) gode invece di una fortissima presenza scenica. Con un soggetto cosi’ c’era il rischio di impantanarsi nella retorica o nella melassa, invece Sheridan evita le lacrime facili (basta pensare che il lutto che attraversa il film avviene fuori scena) e ci rende testimoni di preziose tracce di vita.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)