Stuart Shepard, un astuto e sbruffone pubblicitario di serie B, passa la giornata appeso al telefonino, combinando tra le strade di New York appuntamenti per i propri clienti. Dopo aver ricevuto una telefonata in una cabina telefonica scopre però improvvisamente di esservi intrappolato: il suo misterioso interlocutore lo tiene infatti sotto il tiro del proprio fucile.

Recensione n.1

Un uomo all’interno di una cabina telefonica, in linea con un cecchino impazzito che lo tiene sotto tiro e guardato a vista anche dalla polizia, che lo crede un assassino. Ci sono tutti gli elementi per un thriller carico di tensione, dai risvolti claustrofobici e dal forte impatto emotivo.
Nelle mani di Joel Schumacher, invece, l’interessante soggetto sfuma in un convenzionale film del genere “solo contro tutti”. Il problema principale del lungometraggio e’ che le dinamiche dell’azione sono subito esplicite. In pratica, non c’e’ un mistero da svelare, ma il “movente” del maniaco redentore e le “colpe” della vittima lasciano poco spazio ai dubbi dello spettatore, in grado di capire tutto troppo in fretta. Essendo chiaro il “cosa”, resta da scoprire il “come”, ma gli sviluppi non riservano particolari sorprese. Ad aumentare il distacco da quanto scorre sullo schermo, si rivela determinante la scelta di dare al cecchino una voce non disturbata dal filtro della cornetta ma perfettamente nitida, come se il dialogo telefonico alla base della sceneggiatura avvenisse “live”. Una decisione determinata probabilmente dalla necessita’ di non appesantire troppo il prodotto finale, ma con il risultato di rendere immediatamente “falsa” una situazione dai presupposti “veri”. Fin dall’inizio, comunque, la regia di Joel Schumacher e la sceneggiatura di Larry Coen non vanno per ilsottile, caratterizzando il protagonista, ben interpretato dal divo inascesa Colin Farrell, come uno yuppie maleducato, egocentrico e cinico.
Un personaggio che pare un residuo sopra le righe degli anni ottanta, per nulla contaminato dalla voglia di apparire o dall’ansia di scoprire se stesso e ancora fermo ai must vanziniani “carrierismo” e “ostentazione”. Ma tutto il progetto rischia di apparire gia’ datato in partenza, dal look (i vestiti, il trucco, il taglio di capelli) all’ambientazione (la stessa cabina telefonica, i palazzi, le vetrine). A dare il colpo di grazia al film e’, pero’, la virata moralistica finale, con un monologo di “mea culpa” che semplifica in modo imbarazzante psicologie, situazioni e sviluppi narrativi. Tutto il film pare proteso alla inevitabile resa dei conti, in cui la presa di coscienza del protagonista trova sfogo in un pistolotto espiatorio che azzera le sfumature e attribuisce alle cose la fastidiosa etichetta di “giusto” e di “sbagliato”. Oltre che al semplice intrattenimento, quindi, il film sembra ambire anche a riassumere senza alcuna ironia (come al solito assente dalle corde di Schumacher) i mali del millennio: la comunicazione ridotta afrenesia telefonica, la perdita di valori, il consumismo come scudo emotivo. Ma la critica e’ di grana grossa e il thriller langue.

Luca Baroncini

Recensione n.2

Centro di gravità di questo ultimo lavoro di Joel Schumacher è una cabina telefonica, di quelle vecchie ormai in disuso, nella quale “Stu”, un Colin Farrell solido e grintoso, si ritrova suo malgrado ingabbiato.
Leggendo la trama verrebbe da pensare ad un’idea claustrofobica, collosa, sudaticcia. Poteva essere una possibile strada, sicuramente più alternativa.
Ma Schumacher, partendo da assunti quali la civiltà dei telefonini, la sua capacità di unire e allontanare, la mobilità che ne deriva, le ossessioni che facilita, vola più basso.
La sfida sembra quella di sostenere un plot convulso ed intenso, immobilizzato nel metro quadro di una cabina telefonica, appendendolo alle sorti di una sola conversazione telefonica.
In questo senso, la polizia, i passanti, la moglie, sono accessori di sostegno ad una staticità narrativa che vive solo del braccio di ferro psicologico vittima-carnefice.
L’operazione è solo parzialmente riuscita, perché nonostante alcuni momenti di vera tensione, si nota un eccessivo appoggio al patetico per sostenere un filo che a volte si allenta.
Il moralismo dell’assassino viene infatti eccessivamente sfruttato per reggere i cali di ritmo, tanto che nel finale ci si chiede se non ci sia qualche pietoso intento critico-sociale, o peggio ancora pedagogico, dietro all’auto-commiserante confessione da parte di Stuart.
Ci stanno infatti le battute demenziali alla polizia per suscitare un pizzico di straniante ironia, ma quando si scade nel melodrammatico per sostenere una suspence trovatasi sprovvista di appoggi, tutto appare alquanto gratuito.
Sembra poi non convincere fino in fondo la spenta incisività della regia, che nonostante i primissimi piani e le anguste angolazioni interne alla cabina, non riesce proprio a creare alcun effetto ansiogeno. Si limita a seguir da vicino Farrell, lasciando campo alla sua buona espressività.
Il film è comunque godibile, l’assenza scenica dell’assassino è, come sempre, motivo di apprensione, Farrell regge bene la scena, ed il finale, che scampa in extremis ad una disastrosa banalità, non lascia certo a bocca asciutta grazie alla stralunata apparizione di Kiefer Sutherland.

Francesco Rivelli