USA-AUSTR-GB 2003 di Jane Campion con Meg Ryan, Mark Ruffalo, Kevin Bacon (non accreditato ma ringraziato soltanto nei titoli di coda), Jennifer Jason Leigh, Nick Damici, Sharrieff Pugh, Sunrise Coigney, Michael Nuccio

Recensione n.1

Assente dell’ultimo minuto a Venezia 2003, “In the cut” è un thriller dalle tinte fosche, con una coraggiosa Meg Ryan ben diretta da Jane Campion.
La trama è assai semplice, un serial killer intreccia i suoi orrendi delitti con la vita di Frannie, complessata maestrina newyorkese. Quali le ragioni? L’ispettore Malloy indaga, ma il rapporto con Franny diventa subito molto ambiguo…
Lo scenario è una New York oscura che vorrebbe forse ricordare quella di Scorsese o Friedkin, più che quella di Woody Allen. Lo stile di ripresa e la fotografia ricordano a tratti Lars Von Trier (non a caso la macchina a mano).
L’opera resta però troppo nella testa della regista, e troppo poco nella sua rappresentazione filmica concreta.
Risultato un film con buoni interpreti e ottima capacità di creare atmosfere e ambiente, ma con una sceneggiatura traballante.
La storia infatti a tratti zoppica, lasciando irrisolti diversi nodi psicologici dei personaggi (perchè quel colpevole? perchè la passione per le frasi e le citazioni?).
Il risultato è un film affascinante, che lascia però un po’ l’amaro in bocca e una sensazione di “non finito”, ma purtroppo non di Tizianesca maniera.
Peccato, perchè poteva essere un gran film, comunque da vedere.
Provaci ancora Jane!

Vito Casale

Recensione n.2

Jane Campion dalle stelle alle stalle. L’attesa ultima opera della regista neozelandese presenta una grande confusione di idee e di intenti, e del vigore visivo e narrativo rivelatosi ai tempi di Un angelo alla mia tavola pare si siano perse le tracce. Si tratta fondamentalmente di un thriller ambiguo e malato, nel quale la protagonista Meg Ryan, che dà anima e soprattutto corpo al suo personaggio ma non è certo una straordinaria interprete, un’insegnante ed aspirante scrittrice, si trova invischiata nella storia di un serial killer che fa letteralmente a pezzi le proprie vittime, e s’innamore guarda caso del poliziotto che indaga sul caso. Lei donna fragile ed un po’ disadattata, lui personaggio allo stesso modo affascinante ed ambiguo, irrompe improvvisamente nella sciatta vita di lei ravvivandone l’opacità, ma potrebbe nascondere un segreto… L’idea di utilizzare gli strumenti del cinema di genere per un’indagine sulla degradazione e lo squallore quotidiano, sia sociale che individuale, non sarebbe male se non fosse che né sul piano della suspence né su quello dell’introspezione psicologica il film risulta incisivo. L’intreccio giallo è più elaborato in un episodio dell’Ispettore Derrick, con una serie di figure maschili che appaiono giusto il tempo di sviare i sospetti dello spettatore, e con colpi di scena telefonati. Sul piano autoriale, si nota un’eccessiva sottolineatura dell’elemento della perversione sessuale, ed a tratti i dialoghi sono a dir poco sconcertanti; cito a memoria:“Alle donne non piace il sesso come agli uomini, non dicono mai vienimi dentro, scopami, succhiamelo (!)”, “Scopati da sola” (ma cos’è, una presa in giro del kubrickiano ”strozzati da solo”? Scherza coi fanti e lascia stare i santi Jane!). Visivamente immerso in un’atmosfera cupa, che riecheggia le cromature da noir moderno tipo Seven, presenta superfici sfuocate dall’uso originale della luce, che spesso penetra di sbieco da fessure delle finestre, delle porte, oppure deforma le immagini la luce delle illuminazioni e dei semafori di notte, ma poi adotta uno stile veloce, con molti stacchi ed abuso di macchina a mano, ed il flashback in bianco e nero sarebbe suggestivo se non fosse incomprensibilmente filmato in accelerato. Il film non ha il coraggio della radicale scelta di genere (come fece il già citato Seven), risultando indeciso e quindi poco riuscito nel complesso, nel suo tentativo di recuperare suggestioni le più disparate (Fincher, Von Trier, Tarantino…) Non farà male alla Campion l’aria americana? Chi ha amato la profondità di sguardo e lo stile lento e sinuoso di Lezioni di piano, si recuperi la videocassetta e risparmi i soldi del biglietto.

Mauro Tagliabue

Recensione n.3

° New York, oggi: Frannie, insegnante di letteratura appassionata di linguaggi ma piuttosto tormentata a livello sessuale, fa la conoscenza dell’ispettore Giovanni A. Malloy, che indaga su un omicidio avvenuto vicino a casa sua. La relazione fra i due e l’indagine poliziesca va di pari passo, fino al travagliato finale. Adattando il romanzo omonimo (Dentro, nella traduzione italiana) di Susanna Moore, la Campion non intende seguire né la pista del giallo con indizi e suspense né quella, speculare, della riscoperta dell’erotismo da parte della protagonista: il film diventa così un mero esercizio psicologico che si muove sinuosamente fra i due poli principali senza scadere nella gratuità e senza che l’equilibrio venga mai meno in una messinscena raffinatissima e formalmente abbagliante, dove la Campion si interessa con rigore e passione alla sperimentazione visiva (di Dogma c’è soltanto la camera a mano, utilizzata però con una perizia assoluta) e all’uso dell’immagine come riflessione sulla confusione della società odierna. E il finale mantiene integra tutta la sua tensione, liberandosi in un’apologia dell’amore che non può che lasciare incantati (sublime l’inquadratura finale con la porta che semplicemente si chiude sui protagonisti e sulla vicenda narrata). Ritmi dilatati eppure tesi, ambiguità fortunatamente lasciate tali, interpretazioni meritevoli (la parte della Ryan – che ha fatto scalpore, ma soprattutto in America, per come ha fatto dimenticare il suo ruolo di buona ragazza della porta accanto mostrandosi anche nuda – era prevista originariamente per la Kidman, la quale, impegnata altrove, ha coprodotto il film) e superlativa fotografia al naturale di Dion Beebe. Da antologia i flashback sull’incontro fra il padre e la madre di Frannie. BN/COL THRIL-EROT 120’ * * * ½

Roberto Donati

Recensione n.4

In una recensione di un film come “in the cut” c’è una premessa da fare: il titolo contiene esattamente la forma e la sostanza di ciò che si vede sullo schermo, ne sintetizza lo stile registico, la storia, i personaggi. La Campion stravolge il suo stile fatto di mmagini forti ma sensuali ed evocative per raccontare un moderno thriller maledetto in cui il dettaglio è protagonista in ogni scena e ed è una tessera che attimo dopo attimo va a costruire un puzzle.
E’un film a pezzi, nel vero senso della parola, le parti dell’immagine a fuoco contrapposto al fuori fuoco, le riprese a scatti e concitate, gli arti delle vittime del killer, i frammenti di scritti che Meg Ryan legge o recita, un tatuaggio (risolto nel suo significato, ma parte della pelle di una persona).
I pezzi, di conseguenza, fanno parte di uno stesso insieme, ed ognuno va a posizionarsi al suo posto, rappresentando la verità.
L’unico oggetto che congiunge e collega i singoli pezzi e i singoli personaggi, è un anello, figura circolare che parte da un punto ed arriva inesorabilmente allo stesso, come una trama che in diverse sequenze sembra già risolversi a metà del lungometraggio, ma che procede fino ad arrivare nuovamente all’inizio. L’anello appare periodicamente nella storia e compone una catena che lega e collega tutti i protagonisti.
Siamo a New York e Frannie (Meg Ryan), scrittrice ed insegnante, è coinvolta in un omicidio di una ragazza uccisa in un locale dove lei si trova per caso. In questa occasione, mentre scende le scale per andare alla toilette, scorge nella penombra un uomo insieme ad una donna durante un rapporto orale e nella sua mente si fissa un’immagine, un tatuaggio, è la prima tessera del puzzle.
Un investigatore (Mark Ruffalo), incaricato di indagare sul caso, la rintaccia, grazie ai dati della carta di credito trovati presso il pub luogo del delitto, e da questo momento inizia un climax di sensazioni, ricordi, morte e sesso che conduce all’epilogo finale.
Fra gli attori spicca Meg Ryan, segnata negli occhi e nel corpo, non più scanzonata e brillante come nelle commedie che l’hanno resa famosa, ma immersa in una New York cupa e inquietante dove le certezze non esistono, e dove trascorre un’esistenza difficile in cui il sesso, esplicito e crudo, è l’ elemento irrisolto della sua vita che riesce ad alienarla dai drammi di tutti i giorni e ne diventa la chiave di fuga.
Jane Campion utilizza tecniche di ripresa, talvolta fastidiose, per costringere lo spettatore ad una attenzione assoluta, elevando il dettaglio a protagonista assoluto.
Nel complesso “In the cut” risulta a tratti freddo e con qualche forzatura nella sceneggiatura, ma utilizza un trattamento del genere thriller, innovativo e complesso, mai scontato nel taglio dell’immagine, che conduce ancora sul significato emblematico del titolo.
Da vedere più volte.

Mattia Nicoletti

Recensione n.5

Una suadente versione di “Que sera sera” scivola sui titoli di testa mentre dettagli di una New York inconsueta si accompagnano a una pioggia di petali che incanta personaggi e spettatori. La magia finisce con la comparsa del titolo, che fuoriesce dalla scia insanguinata delle lame di un pattino. Dopo, infatti, le idee, la scelta della immagini, la recitazione, volgono in stucchevole noia. Il percorso intimo e doloroso della protagonista, alla ricerca di una consapevolezza in grado di liberarla da un perenne stato di insoddisfazione, incappa purtroppo in una becera storia gialla. Affrontare un “genere” cinematografico presuppone di accettarne le regole, che per essere scardinate devono quindi prima di tutto essere comprese. Jane Campion, invece, sceglie un taglio ambizioso e molto personale che finisce per collocare il film in un limbo poco comunicativo: la ricerca dell’assassino non intriga e delle motivazioni della protagonista, esplicitate in prev lenza nel suo vagare con aria attonita, sappiamo poco e ci interessa ancora meno.
La bislacca sceneggiatura si frammenta cosi’ in inutili fotogrammi di raccordo, necessari per provare a dare un senso al plot thriller moltiplicando gli indiziati e insinuando il sospetto (ma nella soluzione del mistero prevarra’ comunque la delusione), e non riesce a dare sostanza ai personaggi e al loro interagire. La regia, tutt’altro che trasparente, si perde in vezzi d’autore che finiscono per risultare gratuiti, a partire dall’utilizzo manuale, e alla lunga fastidioso, della macchina da presa. Anche la proverbiale capacita’ della Campion d mettere in scena la visceralita’ delle pulsioni, si limita a qualche amplesso vedo-ma-soprattutto-non-vedo, tra l’onirico e lo sfocato (imperdonabili le trite manette), e a dialoghi forzatamente sboccati, che sembrano piu’ che altro un indigesto contentino per la presunta “pruderie” del pubblico. Quanto agli interpreti, Mark Ruffalo bucava loschermo in “Conta su di me” ed e’ qui ridotto ad anonimo truzzo latino, Jennifer Jason Leigh e’ sprecatain un decorativo ruolo sacrificale, Kevin Bacon ha sempre un’efficace presenza ma e’ alle prese con un personaggio tutt’altro che indimenticabile. Tutto il film, pero’, poggia sulle spalle larghe di Meg Ryan, che ha il coraggio di imbruttirsi, di affrontare scene di nudo e di calarsi in un ruolo non facile e sgradevole (pare rifiutato da Nicole Kidman qui nelle vesti di produttrice); non basta, pero’, la volonta’ di scrollarsi di dosso l’etichetta di fidanzatina d’America per essere convincenti. E la sua scelta sembra piu’ che altro un espediente di marketing per accendere i riflettori su un film con ben pochi spunti di interesse,capace di scontentare un po’ tutti: chi cercava un onesto giallo, chi un punto di vista femminile con cui confrontarsi, chi un indefinibile altro, senza comunque il peso, a tratti insostenibile, della pretenziosita’.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)