Titolo originale: Kansen
Nazione: Giappone
Anno: 2004
Genere: Horror
Durata: 98′
Regia: Masayuki Ochiai
Soggetto: Ryoichi Kimizuka
Sceneggiatura : Masayuki Ochiai
Musiche: Kuniaki Haishima
Montaggio: Yoshifumi Fukazawa
Cast: Michiko Hada, Mari Hoshino, Tae Kimura, Yoko Maki, Kaho Minami
Produzione: Takashige Ichise
Distribuzione: TIME CODE
Data di uscita: 03 Giugno 2005 (cinema)
Che il cinema d’oriente avesse ormai invaso il panorama horror mondiale lo si sapeva, ma che fosse capace di distaccarsi dal banale film-massacro per trovare controversia e originalità stupisce davvero. Infection arriva direttamente dal Giappone, sublime creatura del regista Masayuki Ochiai.
Se il cinema americano continua a promuovere il cinema cotto e mangiato, quello che ristagna sui vecchi modelli da fiction televisiva, il sapore orientale ha un gusto del tutto diverso, e si insinua nella psicologia dello spettatore, disorientandolo, graffiandolo, destabilizzandolo.
Così ci si accomoda in sala nella convinzione di rivedere il classico film alla The Ring e ci si ritrova
di fronte un modello filmico molto più enigmatico, molto più sottile, e che si avvicina molto di più alle controversie mentali di The Call e Ju-On. E non solo. Quello che colpisce è la simbologia, forse lontana dalla cultura occidentale, ma così ricca di fascino, ed estremamente utile nel tessere la tela dell’enigma.
C’è un approccio assolutamente medico al film: da un lato la vita all’interno di un ospedale tetro e decadente, all’interno del quale si muovono tirocinanti e medici in cerca di fama; dall’altro una serie di malati colpiti da patologie del tutto differenti tra loro. Ed è proprio la prima malata a condurci all’interno del difficile percorso filmico. Un
patologia colpisce il sistema cerebrale, e la donna colpita crea immagini attraverso la propria mente, dunque non percepisce la realtà, ma la proiezione di ciò che il suo cervello produce. E’ lo specchio (che nella simbologia nipponica è legata allo spirito) a permettere la visione di queste inquietanti presenze. Ma se la donna malata è simbolo di percezione errata della realtà, chi può dire qual è la vera percezione del reale? Un dottoressa indica un mela rossa: quella mela rimane tale anche se illuminata da diverse fonti di luce. Siamo noi che abbiamo la percezione del rosso, e questa percezione può non corrispondere alla realtà.
C’è poi un’altalena, posta in un parco davanti l’ospedale. Si muove lentamente, silenziosamente, e con un doppio andamento. Forse un primo approccio alla duplicità del reale? Probabilmente un modo per comunicare che esistono due realtà, quella percepita e quella vera.
Improvvisamente il film entra all’interno del vortice narrativo dell’horror più comune, con l’occultamento del cadavere di un uomo morto per errore medico.
Poi giunge un altro malato, infetto. Qui inizia il delirio totale. Il virus si propaga, medici ed infermiere ne rimangono vittime. Il film assume i toni di uno splatter anni ottanta e in alcuni momenti ricorda La cosa di John Carpenter.
E se Inizialmente il film aveva giocato sul non mostrare stimolando la curiosità dello spettatore, d’improvviso l’immagine rientra nella sfera del visibile, abbandona l’omissione per incontrare lo splatter. Ma nulla è casuale. Le immagini più crude del sangue verde e delle morti atroci ci traghettano verso l’enigma centrale.
Il dottor Akai e gli altri medici tentano di comprendere le ragioni della diffusione del virus: emerge che si tratta di un virus mentale. Allora Akai si ritrova solo nella non comprensione e noi con lui. Il film abbandona la fiction, e cerca di dare le sue risposte attraverso un senso profondo. Il virus mentale si propaga tra gli uomini, sconvolge, e stravolge la percezione della realtà. Il rosso (Akai in giapponese significa rosso, la mela è rossa, le luci dell’ambulanza sono rosse) si contrappone al verde ( il sangue, l’uscita di sicurezza). Attraverso gli occhi della dottoressa che al mattino scopre il massacro, riviviamo il contrasto tra reale e irreale, tra ciò che produce la mente e ciò che realmente esiste, tra ciò che percepiamo e ciò che dovremmo percepire. Pazzia, inconoscibilità, devastazione psicologica.
L’occhio, quale sguardo sul reale e quale strumento di percezione, si apre e si chiude, dal rosso al verde. E la mela stessa diviene improvvisamente verde. Le altalene trovano un movimento sincrono, forse il reale può finalmente combaciare con la sua percezione.
Tra dubbi e delusioni gli spettatori abbandonano esterrefatti la sala. Ma forse l’unica spiegazione al finale è la non spiegazione, il prendere il senso del film, senza schemi narrativi, riflettendo solo su quanto il bravissimo Masayuki Ochiai ha voluto trasmetterci.
Endrio Martufi
Voto: 7 e 1/2