“CATABASI DI UN BAMBINO”
Dopo il pessimo esordio con “Scarlet Diva”, Asia Argento, forte del supporto di un romanzo in cui dimostra di saper credere, con l’opera seconda fa un notevole salto di qualità. Ci sono tutti gli elementi a lei cari, dal maledettismo dei personaggi alle iperboli della narrazione, ma c’è anche un’apprezzabile schiettezza di fondo, oltre all’abilità di sublimare la caduta agli inferi del giovanissimo protagonista attraverso una messa in scena a stretto confine con l’arte. È proprio la regia l’aspetto più riuscito del lungometraggio, la capacità di Asia Argento di creare un’atmosfera malata ed eccessiva ma coerente dall’inizio alla fine, senza stonature o sbavature. In particolare colpisce il modo, indiretto e molto efficace, con cui è rappresentata la violenza nei confronti del bambino: nessuna concessione alla gratuità, ma un incubo in cui le braccia cadono a terra, con due corvacci, ora neri, ora rossi, pronti a cibarsi delle viscere di un’infanzia rubata. Così come non è semplice accessorio il corredo di accelerazioni e rallentamenti con cui dettagli dall’andamento allucinatorio si accumulano nel delirio visivo e sonoro. È il delirio in cui è costretto a sopravvivere un bambino di sette anni, strappato ai genitori adottivi per condividere lo sbando di una madre incapace di trovare un proprio centro di gravità, o perlomeno di trovarlo consentendo a suo figlio il più che lecito diritto a esistere. Non tutto è equilibrato nella visione di Asia Argento, anzi. La critica al bigottismo della famiglia di origine ha il fiato corto, una programmatica voglia di infastidire è fin da subito nell’aria e nella seconda parte la narrazione si sfrangia, dilungandosi con prolissità senza aggiungere granché. I camei delle star, poi, hanno più la funzione di promuovere il progetto che di supportarlo con la recitazione: Ornella Muti gioca nella fissità dello sguardo con l’icona della maternità che rappresenta, Winona Ryder è una psichiatra infantile sopra le righe, Michael Pitt è poco più di una comparsa e Marilyn Manson dimostra in poche battute tutta la sua legnosità. Forse il più in parte è Peter Fonda, che ben incarna le ambiguità di un padre accecato dall’ossessione religiosa. Anche l’Asia interprete non sempre centra la misura richiesta dalla parte per evitare che l’esagerazione ceda il passo alla sbracatura. Eppure, nonostante gli evidenti difetti, il ritratto impietoso di una provincia americana in cui prende forma il tentativo disperato di un bambino di preservare la propria purezza, ha una sua forza, sia comunicativa che estetica, da non sottovalutare.
VOTO: 6

Luca Baroncini de gli Spietati