Regia: Alex Proyas
Sceneggiatura: Jeff Vintar, Akiva Goldsman
Tratto dal romanzo di Isaac Asimov
Con: Will Smith, Bridget Moynahat, Bruce Greenwood, James Cromwell
U.S.A. 2004 fantascienza, dur. 115 min. ca.

Recensione n.1

Nel 2035 i robot convivono perfettamente con gli esseri umani, abituati a considerarli preziosi supporti per le loro necessità lavorative, addirittura trattati alla stregua di amici. Programmati per rispettare le tre leggi della robotica, questi esseri meccanici non possono nuocere o compiere atti criminosi, tant’è che la polizia non si è mai occupata di loro. Solamente il detective Spooner-Will Smith sembra preoccuparsi della loro potenziale pericolosità, ed il film ce lo introduce mentre insegue un presunto robot-scippatore che in realtà sta portando assistenza ad una donna asmatica. Sfottuto dai colleghi e dal capo per questa sua ossessione, Spooner si prenderà una rivincita scoprendo un robot crudele accusato dal poliziotto di avere assassinato il padre ideatore degli individui meccanici, anche se inizialmente le autorità sponsorizzano l’ipotesi-suicidio. La Dott.ssa Susan Calvin, sostenitrice dell’impossibilità di nuocere dei robot, si schiererà infine con Spooner e riusciranno a sventare una macchinazione volta ad instaurare una dittatura totalitaria.
Io, robot, ispirato al genio di Isaac Asimov, è diretto da Alex Proyas, che dopo Dark City torna ad affrontare il tema del potere occulto che attraverso forze nascoste cerca di dominare il mondo, siano esse rappresentate da alieni (Dark city come L’invasione degli ultracorpi) totalitarismi politici (1984 su carta o Brazil al cinema), oppure macchine (Il mondo dei robot) e lo fa partendo da un soggetto alto, quello asimoviano appunto, che conteneva dei possibili sviluppi cinematografici di grande suggestione. Purtroppo Proyas fallisce, realizzando un’opera convenzionale e decisamente poco suggestiva, uniformandosi ad uno stile visivo da “blockbuster”. L’anima nera dei precedenti lungometraggi del regista – il primo fu Il corvo, ed esclusa la parentesi estemporanea dell’opera terza Garage Days – qui viene surclassata dallo strapotere degli effetti speciali, che veicolano immagini asettiche e prive di suggestione. Certo, provenendo dal videoclip Projas non possiede certo un raffinato rigore stilistico, il montaggio spesso è troppo concitato e molte sequenze poco incisive, ma la cifra stilistica era personale e poteva rinvenirsi anche in contesti differenti, prima l’horror e poi la fantascienza ed il noir. Ad Io, robot manca il colore, le ampie sequenze in esterni paiono ricalcare un immaginario da videogioco e gli interni sono poco curati, mai suggestivi. Ad un certo punto Spooner entra nella casa dello scienziato assassinato, una elegante e sontuosa residenza all’antica, e pare che Proyas si riappropri del suo stile nero, inquietante e grondante mistero, ma poi la casa viene demolita da un robot che trasforma la sequenza in un videogioco in cui il detective è la preda e deve riuscire a fuggire dall’edificio che gli sta crollando addosso: bene, il robot non distrugge solo la casa, ma pure quanto di buono il cinema di Proyas ci aveva mostrato sino a ieri.
Altra pecca è l’assenza di un cattivo di peso, la sua spersonalizzazione e moltiplicazione in milioni di ometti meccanici congela in conflitto latente Bene-Male, e nemmeno l’evoluzione del rapporto tra i protagonisti, Spooner e la bella Susan, origina sequenze memorabili: quando Susan scopre il braccio meccanico dell’agente, l’atmosfera potrebbe riscaldarsi, ma la pellicola non si sofferma sui personaggi prediligendo azione ed effetti digitali. Nemmeno risulta originale la metropoli del futuro, l’altissimo grattacielo sede della US robotics ai cui piedi si distende il resto della città non coglie il fascino che invece riusciva ad un Blade Runner, dove il rapporto architettonico alto-basso si faceva metafora del potere dispotico ed opprimente, ed anche l’antipatia per le macchine di Spooner e dunque la sua propensione per un mondo meno freddo e calcolatore, anche se più efficiente, in favore del fragile ma autentico calore dei sentimenti, viene risolta con il solito meccanismo del fatto scatenante- in questo caso un robot che gli salvò la vita a scapito di quello di una bambino- ma entra tra le pieghe della storia in maniera assolutamente marginale. La più grande occasione giunge nella sequenza del disattivamento di Sonny, il robot con un’anima, una scena che avrebbe potuto esaltare l’anima gotica del regista – si pensi alle affinità ed ai possibili paralleli con la creatura frankensteiniana. Probabilmente ha nuociuto l’origine produttiva della pellicola, e di fronte alle imposizioni delle grandi Major il talento del regista ne è risultato frustrato.
Non risolleva le quotazioni dell’opera nemmeno l’interpretazione di Will Smith, che già si trovava a combattere alieni assetati di potere in Man in Black, ma lì era lasciata a briglia sciolta l’anima irriverente e bambinona dell’attore, che proprio cozza con l’immagine del detective sofferto.
Chi scrive consiglia di lasciar perdere questo film, e di recuperarsi in home video il precedente Dark City, che affrontava tematiche analoghe ma con piglio decisamente più noir e goticheggiante. VOTO: 5

Mauro Tagliabue

Recensione n.2

Un regista dallo sguardo dark come Alex Proyas (“Il corvo”, “Dark City”) rilegge le pagine di uno dei pilastri della fantascienza come Isaac Asimov. La megaproduzione che ne deriva, pero’, delude su tutti i fronti. Da un blockbuster americano non ci si aspettano riflessioni particolarmente profonde ma soprattutto azione, eppure neanche come puro intrattenimento il lungometraggio riesce a funzionare. E’ subito evidente, infatti, la falsita’ dell’universo futuristico in cui si muovono i personaggi, con una computer grafica invadente che da’ sempre l’idea di attori spaesati alle prese con un blue-screen solo successivamente impressionato. Molto piu’ efficace la resa espressiva dei robot, forse la parte migliore del film, anche se il loro conflitto e’ ridotto a un semplicistico “essere o non essere” dalle conseguenze tutt’altro che coinvolgenti. La sceneggiatura si ispira, con piu’ di una licenza, alle regole robotiche di Asimov, e complica inutilmente la narrazione imponendo svolte thriller che dovrebbero sorprendere e invece annoiano; in contemporanea i botti e le esplosioni si succedono a intervalli regolari, e sembrano derivare piu’ da esigenze di timbrare il cartellino dell'”action-movie” che di copione. Per tacere del decor del film, con scenografie spettacolari ma poco suggestive e costumi imbarazzanti nel completo asservimento alle mode del momento, tra l’altro gia’ ampiamente superate (diciamolo, “Matrix” ha imposto un look, ma non si sentiva certo il bisogno di ulteriori strascichi in pelle). La regia di Proyas sfoggia punti di vista acrobatici, traiettorie virtuosistiche, inseguimenti dalle pretese mozzafiato, senza tuttavia offrire un punto di vista personale ma limitandosi a utilizzare tecniche consolidate che spaziano dal videoclip al videogioco. Tra l’altro i numerosi scontri si risolvono sempre in modo prevedibile, a suon di caricatori svuotati (sempre dalla parte giusta, ovviamente), con una tensione solo annunciata dalle note della colonna sonora e poi in tutta fretta accantonata. Del resto, i dialoghi gridano vendetta, con botta e risposta da sit-com, e la sceneggiatura non riesce a evitare traumi da rimuovere, eroi solitari e invulnerabili e robot cattivi che possono essere eliminati solo tramite iniezioni traslucide (nello specifico “nanodroidi”, sic!). Ma il colpo di grazia definitivo viene dagli attori, che piu’ che recitare sono testimonial, della propria immagine e di una infinita’ di loghi in cerca di visibilita’ mondiale (l’inizio sembra proprio uno spot di scarpe da ginnastica). Will Smith e’ di un’arroganza che, chissa’ perche’, dovrebbe suscitare simpatia e sbruffoneggia per tutto il film, attento piu’ che altro a mettere in evidenza i muscoli, a sparare a destra e a manca, a camminare come un rapper in vacanza e a mantenere ben inclinata la cuffietta nera sulla testa; Bridget Moynahan e’ la versione robotica di Geena Davis e pare sempre sul punto di umettarsi il viso per disinfettare le impurita’ della pelle. Che dire ancora. Forse basta cosi’! Ah, un’ultima cosa! Siamo nel 2035 ma si gira ancora in moto senza casco! Quando si dice il futuro! Bah!

Luca Baroncini de Gli Spietati

Recensione n.3

Alex Proyas ama il passato. Nel suo primo lavoro (The crow) il personaggio principale tornava in vita per vendicare il suo passato. Nell’ottimo Dark city l’ambientazione aveva il piacevole sapore degli anni ’50, pur essendo un film di fantascienza. In questo Io, robot il detective Spooner è un uomo del futuro legato malinconicamente (ed ossessivamente) al passato, tanto da rinnegare ogni comfort tecnologico. Fino ad arrivare ad odiare i robot, massima espressione dell’evoluzione. Per un amante come me di Isaac Asimov, massimo rappresentante della fantascienza scritta assieme a Philip K. Dick e pochi altri, autore di un capolavoro letterario quale il ciclo della Fondazione, la visione di Io, robot non può che risultare poco attendibile rispetto alla fonte. Le premesse sarebbero state buone, visto il regista e l’origine concettuale. Ma tutto crolla sotto i colpi del Mercato Hollywood, capace di trasformare le genialità intelligente dei discorsi asimoviani ad una semplice passerella per sequenze d’azione.

Proyas governa la mdp con saggia fermezza e gli effetti speciali fanno il loro sporco lavoro (e lo fanno bene). Ma diversi sono i difetti di Io robot. Innanzitutto il fatto che non riesce a trovare immediatamente una collocazione all’interno del significato del film. Non centra subito l’obiettivo, rendendo l’intera prima parte superflua e a tratti noiosa. Si parte con un thriller fantascientifico di media fattura. Peraltro Will Smith fatica ad uscire dal ruolo del bulletto-simpatico-a-tutti-i-costi, rendendo vano ogni suo sforzo di donare drammaticità al personaggio, che diventa inevitabilmente prevedibile. Il film cresce nella seconda parte, quando i colpi di scena diventano tali e Proyas concentra l’attenzione sul vero problema filo-esistenziale della letteratura di Asimov: la coscienza degli androidi. Io, robot si fa apologo fanta-politico sulla coscienza robotica (e la sua pericolosità). Anche la fotografia muta, passando da un luminoso che sa di finto e vuoto quanto i gusci artificiali del film, ad una più confortevole (per le doti del regista) oscurità metaforica. Le citazioni ad altra letteratura cinematografica sono molte: da Terminator a Matrix (con l’uso spesso funzionale e riuscito del Bullet-time). Il montaggio è improprio, tradendo le origini del regista (il videoclip), errore che ha impedito a Dark city (che rimane comunque il suo miglior film) di divenire capolavoro. La sceneggiatura rivela involontariamente superficialità imperdonabili. Ed è un peccato, perché l’accoppiata Proyas-Asimov avrebbe potuto dar vita a qualcosa di veramente innovativo e geniale.
VOTO: 6 ½

Andrea Fontana

Recensione n.4

Cosa succederebbe se anche le macchine potessero sognare? Crollerebbe il muro che le separa dall’essere umano, ancora arroccato in difesa della propria irrazionalità, della capacità di creare nuove angolazioni da cui guardare. Non è un caso che ciò che distingue Sonny, il protagonista di “Io, robot”, dai suoi simili NS5 che invadono la Chicago del 2035, sia proprio la possibilità di sognare. Grazie ai sogni Sonny scopre la libertà e il libero arbitrio, e aiuta il supereroe di turno a salvare il mondo dalla rivoluzione delle creature di bulloni e microchip. E’ lo stesso tema di Frankenstein e “Blade Runner”, la creatura che si ribella al proprio creatore, ma il film non ha la forza e il coraggio di osare uno sguardo nuovo, e si rifugia nella banalità più rassicurante. E così anche la dimensione onirica diventa un semplice, seppur decisivo, elemento della trama. La visionarietà del regista Alex Proyas, che sullo stesso argomento aveva realizzato un film fantastico come “Dark City”, naufraga nella meccanicità di una storia che viaggia col pilota automatico, senza mai riuscire a decollare davvero. Per quale ragione la pellicola è farcita con i soliti falsi inseguimenti e sparatorie? Come mai i personaggi umani sono così vuoti e privi di spessore, mentre il più umano sembra il robotico Sonny? Sembra che il cinema non sia più capace di sognare, di creare nuove relazioni nel mondo del “già visto”. Come l’espressività del corpo umano sparisce, inghiottita dal metallo, così anche la regia viene travolta dalla spettacolare onda degli effetti digitali. L’occhio della macchina da presa non sa più creare: è uno sguardo assente. D’altra parte non lo dice anche un personaggio nel film? “E’ molto meglio una faccia senza sguardo”.Voto finale: 5
Stefano Borgo